La Contrattazione Collettiva e il Contratto Collettivo
La Contrattazione Collettiva
[modifica]La contrattazione collettiva è quel rapporto tra sindacati dei lavoratori e confederazioni dei datori di lavoro (spesso con il Governo che fa da promotore e/o arbitro) dal quale scaturiscono degli accordi autonomi (chiamati contratti collettivi di lavoro) con cui si stabiliscono i parametri e le regole fondamentali cui dovranno attenersi i contratti di lavoro individuali.
Il Contratto Collettivo
[modifica]Il contratto collettivo nazionale di lavoro (abbreviato CCNL) è, nel diritto del lavoro italiano, un tipo di contratto di lavoro stipulato a livello nazionale tra le organizzazioni rappresentanti dei lavoratori dipendenti e i loro datori di lavoro ovvero dalle rispettive parti sociali in seguito a contrattazione collettiva e successivo relativo accordo. Tutti i contratti collettivi nazionali, e le loro successive modifiche, sono raccolti e conservati nell'archivio nazionale del Consiglio Nazionale dell'Economia e del Lavoro (abbreviato CNEL).
Efficacia del contratto collettivo e sua estensione
[modifica]Mancanza di sanzioni e di efficacia universale
[modifica]Non essendo i contratti collettivi recepiti in atti legislativi, le sanzioni si limitano all'ambito disciplinare (al massimo il licenziamento) anche per i casi più gravi quali la violazione delle norme elettorali democratiche: brogli o voto di scambio i quali, se le norme elettorali fossero regolate da leggi nazionali e non dai contratti collettivi, sarebbero sanzionati sul piano penale, molto più equamente e con efficacia dissuasìva verso la reiterazione del fatto.
Una legge elettorale nazionale sull'elezione di RSU, RSA, Enti Bilaterali o Commissioni Paritetiche dove previsti, contratti collettivi, referendum promossi dai sindacati, darebbe garanzie minimali per tutti di un sindacato avente ordinamento democratico interno e di un voto personale, eguale, libero e segreto previste dalla Costituzione.
Non essendo recepiti in legge, anche qualora l'accordo sia unìtario, datori e sindacati mettano per iscritto l'estensione a tutti gli iscritti e non, con la firma di una rappresentanza sindacale pari al 50% delle deleghe e dei voti, e anche col voto a maggioranza semplice di tutti i lavoratori, e forte di una prassi decennale nei tribunali, il contratto collettivo resta comunque per sua natura valido tra le parti firmatarie, libere di uscire dalle relative associazioni di categoria e non applicarlo, ovvero di applicarlo ai soli iscritti.
Casi di estensione dell'efficacia del contratto collettivo
[modifica]L'efficacia del contratto collettivo può essere estesa anche a chi non aderisce a una delle associazioni sindacali che lo ha stipulato, ma solo in limitate ipotesi. Se il contratto individuale contrasta con norme di legge, il giudice stabilisce il salario considerando le condizioni di trattamento economico contenute nel contratto collettivo. L'efficacia del contratto collettivo si estende anche al lavoratore non aderente a un'associazione sindacale, salvo che questi non si opponga, e al datore che, pur non aderendo all'associazione stipulante, manifesta, con comportamenti concludenti ed in forma esplicita, la volontà di recepirne il contenuto.
Il contratto collettivo "di diritto comune"
[modifica]La funzione del CCNL di dettare dei minimi economici e normativi validi per tutti i lavoratori di un certo settore è garantita, in quasi tutti gli ordinamenti che prevedono l'istituto, da specifiche procedure volte a estendere le norme collettive a tutti i soggetti (datori e prestatori) operanti in un dato settore.
Una disciplina di questo tipo non è mai stata introdotta nel sistema giuridico italiano, sebbene l'art. 39 della Costituzione repubblicana prevedesse che i sindacati, previo espletamento di una procedura di registrazione, potessero "rappresentati unitariamente in proporzione ai loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce". La norma costituzionale restò tuttavia priva di attuazione per la resistenza delle stesse organizzazioni sindacali, le quali temevano, nel clima politico del primo dopoguerra, che la procedura di registrazione prevista dall'art. 39 consentisse allo Stato un eccessivo controllo sulla loro attività. In particolare, l'obbligo di registrazione avrebbe comportato l'accettazione di un organo amministrativo che verificasse nel tempo che tanto gli statuti quanto la loro concreta attuazione rispettassero l'obbligo di avere un ordinamento interno democratico («È condizione per la registrazione che gli statuti dei sindacati sanciscano un ordinamento interno a base democratica»). La registrazione non significa una limitazione della libertà sindacale o un controllo in senso stretto, non essendo seguita né da sanzioni né da provvedimenti che potrebbero annullare atti del sindacato, se questo non è registrato o non ha un ordinamento interno a base democratica. L'unica conseguenza possibile, sebbene rilevante, potrebbe essere la cessazione dell'efficacia obbligatoria dei contratti stipulati.
La Costituzione ha posto un limite minimo, quello della base democratica che ha come primo presupposto l'elettività, a fronte di una norma che conferisce agli accordi contrattuali un notevole potere: quello dell'efficacia di legge ordinaria, e quindi un potere legislativo de facto a due parti sociali, o addirittura al solo sindacato, se questi (come accaduto in passato) ottiene dal Governo la sottoscrizione di un contratto collettivo, senza la firma della controparte. Analogo presupposto della base democratica è previsto pure per il Parlamento. Tuttavia, la Costituzione non prevede che l'ordinamento a base democratica sia l'unica condizione per la registrazione del sindacato, e che quindi nuove leggi non possano introdurre delle limitazioni ulteriori (sebbene questo sia in sostanza già affermato al comma 2 «Ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la loro registrazione presso uffici locali o centrali, secondo le norme stabilite dalla legge»). È chiaro che le norme possono stabilire le modalità di registrazione, non introdurre con queste modalità nuovi obblighi-condizioni.
Di conseguenza, l'unico CCNL che le parti collettive sono oggi in grado di concludere altro non è che un contratto atipico (art. 1322 c.c.) disciplinato dalle norme sui contratti in generale (art. 1321 c.c.). Le norme collettive trovano pertanto applicazione, quantomeno in linea di stretto diritto, nei confronti dei soli iscritti alle associazioni sindacali (dei lavoratori e datoriali) che hanno stipulato il contratto. In questo senso si parla spesso di contratto collettivo "di diritto comune". L'assenza di una disciplina specifica ha causato non pochi inconvenienti, della cui soluzione si è fatta storicamente carico in massima parte la giurisprudenza. Per esempio, grazie all'applicazione di alcuni articoli del codice civile (art. 2077 c.c. e art. 2113 c.c.), sono rese invalide talune clausole contrattuali individuali difformi dal contratto collettivo. Inoltre la prassi giudiziaria estende tali contratti, in caso di controversia, anche ai soggetti non obbligati, sulla base dell'art. 36 della Costituzione italiana che prevede un diritto del lavoratore a una "retribuzione proporzionata", individuando nei contratti in questione la base per determinare il minimo contrattuale dovuto.
In base alla Cassazione, sentenza n. 1175/1993, i contratti collettivi di lavoro o altri accordi sindacali comunque validi su scala nazionale, assumono efficacia erga omnes, ovvero per tutti i lavoratori, soltanto se sono recepiti in un Decreto del Presidente della Repubblica o altro atto normativo. L'efficacia erga omnes introdotta per i contratti aziendali locali, verso una serie indeterminata di soggetti e l'inderogabilità, equiparano di fatto il contratto collettivo locale ad una legge ordinaria. Diversamente da queste, il contratto collettivo non persegue in linea di principio l'interesse pubblico e il bene comune, ma interessi privati. È, infatti, emanazione di soggetti di diritto privato, quali i sindacati e le associazioni datoriali, che hanno lo scopo di tutelare l'interesse di due parti che, pur rilevanti, non sono l'intera società civile, e che può differerire da quello collettivo, senza che necessariamente i due finiscano col perseguire il bene comune pe runa sorta di mano invisibile. Quale atto di autonomia privata collettiva, il contratto collettivo può, nella forma massima della sua efficacia, avere forza di legge tra le parti.
Il contratto collettivo aziendale assume efficacia se è sottoscritto da un'organizzazione sindacale ammessa alla rappresentanza, in particolare se questa ha ricevuto a maggioranza un preventivo mandato di rappresentanza da parte dell'Assemblea di tutti i lavoratori (aperta anche ai non iscritti al sindacato), e/o una successiva ratifica dell'accordo da parte di assemblee totalitarie. I contratti aziendali sono una mera scrittura privata senza alcun valore vincolante tra le parti: se in altre parole, una parte contraente non osserva quanto sottoscritto, né il giudice del lavoro né altro soggetto pubblico è tenuto all'applicazione dell'accordo, delle eventuali sanzioni previste per gli inadempienti e a ordinare la sua esecuzione forzata. Viceversa, i contratti collettivi di lavoro nazionali e territoriali (almeno a livello di provincia) hanno valore di legge tra le parti (e rispettivi iscritti), e al contempo quelli individuali di lavoro fra datore e dipendente hanno maggiore efficacia vincolante di quelli aziendali, se sottoscritti davanti alle Commissioni di Certificazione provinciali di cui alla Legge Biagi, perché con la certificazione acquisiscono forza di legge tra le parti e di atto amministrativo opponibile a soggetti terzi. I contratti collettivi aziendali non sono ammessi alla certificazione di cui alla Legge Biagi.
I tentativi di estensione dell'ambito di efficacia
[modifica]Già a partire dagli anni cinquanta, le corti italiane tentarono in vari modi di estendere l'ambito di applicabilità del contratto anche ai soggetti non iscritti, in modo da garantire a tutti i lavoratori (anche dipendenti da datori di lavoro non aderenti alle organizzazioni stipulanti) uno standard minimo di trattamento economico e normativo.
La giurisprudenza realizzò l'estensione dell'applicabilità seguendo varie strade:
- la principale operazione giurisprudenziale fece leva sull'art. 36 della Costituzione, norma che riconosce il diritto a una retribuzione "sufficiente" ad assicurare "un'esistenza libera e dignitosa" a tutti i lavoratori e alle loro famiglie. I giudici affermarono l'immediata applicabilità del precetto costituzionale anche nei rapporti tra privati, e interpretarono il concetto di "retribuzione sufficiente" facendo riferimento ai minimi tariffari previsti dai CCNL, applicando di fatto tali disposizioni contrattuali anche ai rapporti di lavoro intercorrenti tra soggetti non iscritti alle organizzazioni sindacali. Tale orientamento giurisprudenziale, a tutt'oggi sostanzialmente immutato, precluse ai datori di lavoro non iscritti di retribuire i dipendenti in misura minore rispetto a quanto stabilito dalla contrattazione collettiva;
- i giudici affermarono successivamente che il datore di lavoro iscritto a un'associazione stipulante ha sempre l'obbligo di applicare il CCNL nei confronti di tutti i suoi dipendenti, quindi anche a quelli non iscritti al sindacato (Cassazione, 13.08.1997, n. 7566). Per di più, fu introdotta una presunzione relativa di adesione del datore di lavoro all'associazione stipulante, superabile solo eccependo la non iscrizione entro la prima udienza (Cassazione, 26.02.1992, n. 2410);
- la giurisprudenza ritenne infine che il contratto collettivo dovesse essere applicato nella sua interezza e a tutti i dipendenti ogni qual volta il datore vi avesse aderito, esplicitamente (per es. rinviando alla disciplina del CCNL nella lettera di assunzione) o implicitamente (per es. applicando istituti e norme significative del contratto collettivo).
Operazioni di estensione dell'efficacia del CCNL furono in più occasioni tentate anche dal legislatore. Il tentativo più rilevante fu intrapreso con la cosiddetta legge Vigorelli (legge 14 luglio 1959 n. 741), con la quale il Parlamento delegò il Governo a recepire in un atto avente forza di legge i contenuti dei contratti collettivi di diritto comune stipulati sino a quel momento, al fine di assicurare minimi inderogabili di trattamento economico e normativo a tutti gli appartenenti a una stessa categoria. Contro la legge Vigorelli furono avanzati da più parti dubbi di legittimità costituzionale, che tuttavia la Corte costituzionale superò in base alla considerazione che la legge delega era «provvisoria, transitoria ed eccezionale». Minor fortuna ebbe la legge di proroga che il Parlamento approvò l'anno successivo, la quale, non potendosi più considerare "eccezionale", fu dichiarata dalla Corte costituzionalmente illegittima per contrasto con l'art. 39 Cost.
Tra i tentativi legislativi di estendere l'ambito di efficacia dei CCNL di diritto comune va inoltre ricordato l'art. 36 dello Statuto dei lavoratori (l. 300/70), che impone all'appaltatore di opere pubbliche di applicare ai propri dipendenti condizioni non inferiori a quelle previste dalla contrattazione collettiva. Il medesimo obbligo è imposto dalla legge 389/89 all'imprenditore che voglia fruire della cosiddetta fiscalizzazione degli oneri sociali.
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