Il Lavoratore
L'obbligo fondamentale di ogni lavoratore è chiaramente quello di lavorare. È altrettanto chiaro però che sapere che questo è l'obbligo non basta. Ci possiamo porre, infatti, alcune domande in relazione a esso:
- Cosa deve fare il lavoratore?
- Dove deve lavorare il lavoratore?
- Come deve lavorare il lavoratore?
- Quanto deve lavorare il lavoratore?
Rispondendo a esse è chiaro che analizziamo alcuni degli aspetti fondamentali dell'obbligazione lavorativa. Con la prima domanda analizzeremo l'aspetto delle categorie, delle qualifiche e delle mansioni, con la seconda l'aspetto del luogo di lavoro, con la terza le modalità di svolgimento del lavoro e quindi gli obblighi del lavoratore, con la quarta la questione dell'orario di lavoro.
Cosa deve fare il lavoratore? (categorie, qualifiche e mansioni)[modifica]
A ogni lavoratore al momento della sua assunzione viene attribuita una qualifica e una mansione, cioè i compiti concreti che deve svolgere. In realtà prima che avvenga ciò il codice civile all'articolo 2095 prevede una prima forma di inquadramento che è quella per categorie:
- dirigenti, identificati come l'alter ego dei datori di lavoro pur restando sempre lavoratori subordinati;
- quadri, categoria introdotta nel 1985 con legge 190, una posizione media tra dirigenti e impiegati;
- impiegati, che svolgono il lavoro tipicamente intellettuale;
- operai, che svolgono il lavoro tipicamente manuale.
Mentre per i dirigenti il ruolo è rimasto sostanzialmente invariato dal '42 a oggi, lo stesso non si può dire per le altre categorie, che hanno visto un'evoluzione del modo di agire. L'operaio di oggi è sempre più specializzato e non si limita più a usare "solo le braccia", ma svolge spesso anche lavoro intellettuale (si pensi a un operaio addetto a una centrale nucleare). Questo ha comportato chiaramente dei problemi nell'inquadramento stesso professionale poiché tendenzialmente un operaio era meno retribuito di un impiegato, che spesso svolgeva meno lavoro dello stesso. Di qui, a partire da metà anni '70, la svolta nei contratti collettivi che rompono la divisione tra impiegati e operai presentando l'inquadramento unico il quale, in un'unica scala di livelli, inquadra entrambe le categorie in base al livello di specializzazione. Dagli anni '80 ha inizio una tendenza di "fuga" di alcune categorie impiegatizie di alto livello. Questi lavoratori si uniscono manifestando in varie città italiane (in particolare Torino) e costituiscono anche loro sindacati, rivendicando un riconoscimento legislativo della loro "specialità". Così nel 1985 il Legislatore introduce la categoria dei quadri, ossia i "capi" che non rientrano nella categoria di Dirigenti ma sono qualcosa in più che operai. In realtà questa categoria sarà poco usata nei contratti collettivi. Va detto inoltre che tra le tre categorie non dirigenziali non c'è molta differenza in materia di disciplina legislativa. A parte la distinzione di nomenclatura della retribuzione (stipendio per gli impiegati e salario per gli operai) non ci sono altre rilevanti distinzioni. Le distinzioni maggiori sono riscontrabili nella categoria dei dirigenti, per la quale restano delle differenze di legislazione. Ricordiamo l'articolo 2125 c.c. secondo il quale il Patto di non concorrenza per i dirigenti può essere stabilito per un massimo di 5 anni (e non di 3 come per le altre categorie) oppure in materia di licenziamento: a differenza delle altre tre categorie per il quale è in vigore la legge 604/66, che richiede una giustificazione per il licenziamento, nei riguardi dei dirigenti il licenziamento è per la legge libero (diciamo per la legge perché solitamente i contratti collettivi prevedono forme di tutela).
L'inquadramento ha classificato i lavoratori in livelli. Più è alta la professionalità più si è in alti nella classificazione indipendentemente se impiegati o operai. Questa classificazione serve anche a remunerare la professionalità attuando l'articolo 36 della Costituzione che impone che la retribuzione sia proporzionale alla quantità e qualità del lavoro oltre che sufficiente a una vita dignitosa. Nello stesso livello possono essere accorpati anche profili professionali diversi: sta infatti alla contrattazione collettiva decidere in che livello inserire una professionalità. Fino a ora abbiamo indicato la professionalità ma la professionalità, la qualifica, non dice esattamente cosa il lavoratore deve fare concretamente. Questa notizia ce la danno le mansioni. L'articolo 2103 c.c. (modificato dall'articolo 13 dello Statuto dei lavoratori del 1970 e successivamente dall'art. 3 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81) fissa le regole per l'assegnazione e la modificazione delle mansioni. La ratio della norma modificata è quella di tutelare la professionalità del lavoratore che lavorando esprime anche la sua stessa personalità (non per questo l'articolo 12 è inserito nel Titolo I - Della libertà e della dignità dello Statuto). Tralasciando l'ultimo periodo del primo comma, di cui ci occuperemo quando parleremo del luogo di lavoro, l'articolo disciplina il cosiddetto ius variandi del datore di lavoro che ha la possibilità di modificare le mansioni attribuite al lavoratore durante il rapporto di lavoro. Parleremo di mobilità orizzontale quando il lavoratore è spostato in mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte. In questo caso il legislatore lo permette a patto che, oltre a essere garantito come detto il requisito della equivalenza, sia mantenuta la medesima retribuzione. La norma è ininderogabile in peius, si pensi tra l'altro a quanto l'articolo afferma all'ultimo comma, "Ogni atto o patto contrario è nullo", che va a colpire quindi non solo gli atti unilaterali da parte del datore ma anche possibili accordi tra le due parti. A seguito della riforma del 2015 (Jobs Act) è stata introdotta la possibilità del demansionamento. In caso infatti di modifica dell'organizzazione aziendale si può essere assegnati a un inquadramento inferiore purché rientri nella medesima categoria legale. Il mutamento di mansione deve essere accompagnato, se necessario, anche dell'espletamento degli obblighi formativi il cui comunque non espletamento non comporta la nullità dell'atto di assegnazione della mansione. Possono essere previste anche altre ipotesi di demansionamento ma devono essere stabilite dai contratti collettivi e soprattutto non si può demansionare fuori dalla categoria legale di appartenenza. Nel caso di demansionamento, il mutamento deve essere comunicato per iscritto sotto pena di nullità. Il lavoratore ha diritto alla conservazione del livello di inquadramento e del trattamento retributivo in godimento, fatta eccezione per gli elementi retributivi collegati a particolari modalità di svolgimento della precedente prestazione lavorativa. Durante le procedure di conciliazioni di cui all'articolo 2113, quarto comma, o davanti alle commissioni di certificazione, possono essere stipulati accordi individuali di modifica delle mansioni, della categoria legale e del livello di inquadramento e della relativa retribuzione, nell'interesse del lavoratore alla conservazione dell'occupazione, all'acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita (ad esempio nei casi di maternità o nelle ipotesi di licenziamento dove è ammessa la deroga pur di "salvare il posto". Si ricordi tra l'altro l'articolo 4 della legge 223/91 che espressamente prevede nei casi di licenziamento collettivo la possibilità di prevedere una deroga all'articolo 2103 c.c. se questo consente il salvataggio dal licenziamento di lavoratori previa accordo con i sindacati). Il lavoratore può farsi assistere da un rappresentante dell'associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato o da un avvocato o da un consulente del lavoro. In ultimo rimane da analizzare la mobilità verso l'alto. Il legislatore lo ritiene possibile purché sia assicurata al legislatore la retribuzione spettante al livello superiore (sempre in attuazione all'articolo 36 della Costituzione). Se l'assegnazione supera i sei mesi (prima della Riforma erano tre mesi), o un termine inferiore previsto dai contratti collettivi, l'assegnazione diventa definitiva, salvo diversa volonta' del lavoratore e non sia per sostituzione di altro lavoratore in servizio (precedentemente non era richiamata la volontà del lavoratore e inoltre l'eccezione sulla sostituzione era legato solo ai casi in cui vi era la sostituzione di un assente con diritto alla conservazione del posto). La Riforma ha abrogato anche l'articolo 6 della legge 13 maggio 1985, n. 190 che derogava lo stesso prevedendo che in caso di sostituizione a livello di quadri e dirigenti si maturava il diritto al posto dopo tre mesi oppure in tempo superiore stabilito dai contratti collettivi.
Dove deve lavorare il lavoratore? (il luogo di lavoro)[modifica]
Come abbiamo brevemente anticipato prima, l'ultimo periodo del primo comma dell'articolo 2103 c.c. riguarda il mutamento del luogo di lavoro. Il presupposto materiale è che ci sia un trasferimento da un'unità produttiva a un'altra (sede, stabilimento e così via) e quindi un trasferimento esterno non interno (come ad esempio avverrebbe in un trasferimento da un reparto a un altro). Il trasferimento non deve essere per forza definitivo. Ugualmente non è trasferimento quando il lavoratore è in missione (un cambio del luogo di lavoro per una o più volte comunque limitate per determinati scopi) oppure il lavoratore è trasfertista (cioè il lavoro per il quale è stato assunto prevede già il fatto che il luogo di lavoro non sarà mai lo stesso). L'articolo 2103 c.c. prevede la possibilità da parte del datore di mutare il luogo di lavoro del proprio lavoratore, a patto che sia per comprovate ragioni di carattere tecnico, organizzativo e produttivo. I limiti ulteriori sono dati dal fatto che il trasferimento non sia per ragioni discriminatorie e dalle leggi che tutelano determinate esigenze di alcune categorie di lavoratori. Un ulteriore limite, che riguarda però solo i Dirigenti di RSA, è dato dall'articolo 22 dello Statuto dei lavoratori che permette il trasferimento di tali dirigenti solo previa nulla osta del sindacato di appartenenza (chiaramente per tutelare la libertà sindacale e evitare ritorsione da parte dei datori su tali dirigenti di RSA). Il trasferimento del lavoratore non va confuso con il trasferimento d'azienda nel quale a trasferirsi è la titolarità dell'azienda e cambia quindi il versante del datore di lavoro. Non va nemmeno confuso col distacco del lavoratore (inizialmente previsto solo per la pubblica amministrazione, dal 2003 è previsto anche per i lavoratori privati). In questo caso i datori di lavoro potranno distaccare temporaneamente un proprio lavoratore presso un'altra azienda nel proprio interesse. Elemento comune tra trasferimento del lavoratore e distacco è il cambio del luogo di lavoro ma non del datore e quindi l'azienda di cui si è dipendenti.
Come il lavoratore deve lavorare? (Obblighi del Lavoratore)[modifica]
Un lavoratore quando lavora presso un datore di lavoro non è un semplice esecutore materiale ma è un collaboratore dell'azienda e quindi deve tenere conto anche delle esigenze dell'azienda stessa. Il legislatore, per questo motivo, pone sul lavoratore tre obblighi disciplinati dall'articolo 2104 c.c. e dall'articolo 2105 c.c.: Obbligo di Diligenza, Obbligo di Obbedienza e Obbligo di Fedeltà.
Articolo 2104 c.c. (Diligenza del prestatore di lavoro): Il lavoratore è sotto gli ordini del datore di lavoro (a cui quindi deve obbedienza). Tali ordini devono essere però funzionali all'attività di lavoro per cui si è stati assunti (un cuoco, chiaramente, non dovrà sottostare all'ordine del datore che vuole, ad esempio, che tagli l'erba del giardino del ristorante). L'obbedire agli ordini rientra nel generare obbligo di diligenza la quale va ponderata in base a tre indici:
- Natura della prestazione dovuta: Maggiore è la delicatezza della natura della prestazione maggiore è chiaramente la diligenza richiesta.
- Interesse dell'impresa: Si allude all'interesse dell'imprenditore.
- Interesse superiore della produzione nazionale: Oggi non più guardato dato che era attinente al regime corporativistico.
Articolo 2105 (Obbligo di fedeltà): L'obbligo di fedeltà si compone di tre divieti:
- Divieto di Concorrenza: Non trattare affari in concorrenza.
- Divieto di Divulgazione: Non divulgare notizie attinenti all'organizzazione e ai metodi di produzione.
- Divieto di Far Uso: Divieto di usare le notizie attinenti all'organizzazione e ai metodi di produzione conosciute nell'azienda.
Il Divieto di Divulgazione e di Far Uso rientra nella più generica protezione della riservatezza dell'attività dell'imprenditore.
A fianco a questa norma civile vi sono anche norme penali (si pensi a quelle sul segreto industriale).
Queste norme poi possono entrare in conflitto anche con gli interessi del lavoratore e della comunità. Il lavoratore vedere per forza tacere alle direttive del datore oppure ha qualche potere di critica? Problema che rientra ad esempio nel caso di sicurezza o sulla stessa organizzazione dell'azienda dove anche il lavoratore è direttamente colpito (si pensi per la sicurezza un eventuale violazione delle norme di sicurezza poste in essere da datore oppure in caso di organizzazione all'organizzazione degli orari di lavoro). La legge e la giurisprudenza non hanno previsto decisioni univoche lasciando il diverso modo di agire a seconda del caso concreto.
Il Divieto di Concorrenza ha bisogno di un maggior approfondimento. Il Divieto vale sia personalmente che nel tramite di terzi cioè non si può ne intraprendere personalmente una attività concorrente né farlo alle dipendenze di un terzo. È bene specificare però che tale divieto vale esclusivamente fino a quando si è alle dipendenze del datore e inoltre il divieto è vincolato alle sole attività in concorrenza potendosi fare altre attività (ad esempio un operaio edile sarà vincolato dal divieto di porre in essere una attività edile a nome proprio o di un terzo ma non ad esempio fare il cassiere la sera presso un negozio). Tale ulteriore divieto, cioè della possibilità di fare altre attività, è in capo invece ai pubblici dipendenti. Il Divieto di Concorrenza, a differenza degli altri due Divieti che permangono anche dopo la fine del rapporto di lavoro, come detto, termina al cessare del rapporto di lavoro. Ci può però essere interesse, da parte del datore di lavoro, affinché tale obbligo resti in vigore anche dopo la fine del rapporto di lavoro. Per questo motivo il legislatore ha previsto una sorta di prolungamento all'articolo 2125 c.c. che è il Patto di Non Concorrenza. Questo patto o accordo può sia avere una sua autonomia (cioè stipulato tra le parti al momento della cessazione del rapporto di lavoro) oppure essere già parte del contratto (ipotesi più seguita essendo più facile, al momento della stipula del contratto, trovare un simile accordo). Il fine di questo accordo è quello di allungare la durata dell'obbligo di non concorrenza in cambio per il lavoratore di un corrispettivo. È un patto chiaramente pericoloso perché limita la libertà del lavoratore, ecco perché è nullo se non è in forma scritta, se non c'è un corrispettivo e se non è indicato l'oggetto (cioè l'attività in concorrenza), tempo (cioè quanto dura il patto) e il luogo (cioè il raggio geografico dove il patto vale). La durata del vincolo non può essere superiore ai cinque anni per i dirigenti e tre anni per operai, quadri e impiegati. Se stipulato per durata maggiore si applicano i limiti massimi di legge. È chiaro che tale patto sarà stipulato quando il datore ravvisa un interesse, vuoi l'alta professionalità del lavoratore, c'è un interesse affinché non intraprenda subito una attività in concorrenza. Quando si può stipulare tale patto? Come dicevamo il patto può essere stipulato solo o quando nasce o durante il rapporto di lavoro quindi anche nei pressi della fine ma non dopo perché in quel caso la parte contraente non sarebbe più prestatore di lavoro. Come ancora prima dicevamo il patto solitamente è sottoscritto al momento della stipula del contratto proprio perché è più facile sottoscriverlo. Per quanto riguarda i limiti spaziali è bene segnalare che lo spazio vincolato non può andare oltre all'area di interesse del datore di lavoro.
Quanto il lavoratore deve lavorare? (Orario di Lavoro)[modifica]
La disciplina dell'Orario di Lavoro è forse una delle più antiche. Fino al 2003, infatti, si faceva addirittura riferimento a una legge del 1923. L'obbiettivo di questa tipologia di legislazione è sicuramente, in primo luogo, quello di fissare una durata dell'attività lavorativa che tuteli il lavoratore. Porre un argine a che il datore non sprema tutte le forze del lavoratore. Per un altro verso ha però anche la finalità di quantificare l'attività lavorativa e il rapportare a essa la retribuzione (in base all'articolo 36 Costituzione che impone che la retribuzione sia rapportata alla quantità e qualità dell'attività lavorativa oltre che sufficiente a una vita dignitosa del lavoratore e della sua famiglia). La legge del '23 o meglio il Regio decreto legge 15 marzo 1923, n. 692, prevedeva che il lavoratore non potesse lavorare oltre le 8 ore giornaliere e per un massimo di 48 ore settimanali. Si potevano superare tali limiti, attraverso lo straordinario, solo se vi era una maggiorazione della retribuzione. Questo era il limite legale ma i contratti collettivi, prima ancora che la legge, avevano abbassato l'orario massimo settimanale (cosa possibile dato che la legge è derogabile in meius) a 40 ore settimanale. Il legislatore, così, con legge 196/97 si limita a recepire questo orientamento ponendo come limite legale le 40 ore settimanale (confermando le 8 ore per il giornaliero). Tutto questo fino al Decreto Legislativo 8 aprile 2003, n. 66. In questo decreto, che recepisce le direttive comunitarie, si dà il via a un sistema di orario in cui sono possibili molte deroghe da parte non solo dei contratti collettivi "stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative (le più affidabili)" ma anche in base ai lavori stessi. La prima novità è la previsione di due tipologie di orario:
- Orario Normale Settimanale: Cioè quel orario che non comprende lo straordinario ed è per un massimo di 40 ore.
- Orario Massimo Settimanale: Cioè l'orario comprensivo dello straordinario e che non può superare le 48 ore.
Un'altra novità è quella della multiperiodalità. L'articolo 3 nel disciplinare l'orario di lavoro normale, ponendo come limite le 40 ore, dispone anche che i contratti collettivi possono stabilire una durata minore a essa oppure imporre le 40 ore come una media in un periodo di riferimento che non può superare l'anno.
Esempio: Esempio un Contratto di Lavoro che prevede che nell'arco di due mesi devo lavorare per un mese a 50 ore settimanali per l'altro invece a 30 esso sarà legittimo perché facendo una media tra le due durate si ottiene 40. (50 + 30 / 2 = 40).
Ci si è chiesto se questa modalità di distribuzione nel periodo del limite orario era possibile prima della previsione di legge. Evidentemente l'assenza di essa non permetteva alla contrattazione collettiva di poterla attuare pertanto è da escludere un simile possibilità prima della legge. Chiaramente i contratti collettivi, nel caso di un azienda che necessita di un regime del genere, avevano comunque la facoltà della previsione dell'orario straordinario che era chiaramente più oneroso.
L'articolo 4 nel disciplinare l'orario massimo settimanale dispone che anche le 48 ore previste in questo caso possono essere usate come media per l'attuazione dell'orario multiperiodale.
È da segnalare che la nuova legge non fa più riferimento al limite orario giornaliero massimo pur prevedendo l'articolo 36 della Costituzione che la legge preveda tale limite giornaliero. Alcuni per questo motivo hanno voluto invalidare la costituzionalità di questa legge ma al momento la Corte Costituzionale non ha operato in tal senso forse anche perché il limite giornaliero è ricavabile in negativo esso invece previsto un limite orario minimo di riposo in 11 ore (per sottrazione il limite di lavoro giornaliero è di circa 13 ore).
Brevemente facciamo cenno ad altre nozioni che riguardano sempre l'Orario di Lavoro o il "Quanto deve lavorare il lavoratore".
Attinente all'Orario di Lavoro è sicuramente la questione del Lavoro a Turno, Notturno e Straordinario. Il Lavoro a Turno non è altro che un lavoro in cui il dipendente è inserito in un ciclo continuato di lavoro dell'azienda che prende il nome di turno. Il Lavoro Notturno non è altro che il lavorare in una fascia oraria notturna e quindi maggiormente gravoso ecco perché non è possibile il lavoro notturno alle donne in stato di gravidanza e ai minori. Il Lavoro Straordinario è un lavoro che sfora le 40 ore settimanali previste dall'orario normale settimanale e che rientra nelle 48 ore dell'orario massimo settimanale (è bene tener presente questa precisazione temporale perché nel caso in cui si è nelle 40 ore settimanali dell'orario normale settimanale si parla di Lavoro Supplementari. Un contratto collettivi, infatti, può prevedere che la durata del lavoro sia ad esempio di 38 ore. Nel caso in cui si sforino le 38 ore ma non si superano le 40 ore settimanali si parlerà ai Lavoro Supplementare, oltre tale limite di Lavoro Straordinario).
Importante, ai sensi del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 80 attuativo dello Jobs Act, sono le modifiche in materia di Lavoro Notturno a tutela dei genitori adottivi e affidatari, introdotto dall'art. 11 che ha modificato l'art. 53 del d. lgs. 151/2001 estendendo, appunto, ai genitori adottivi o affidatari di un minore il diritto a non essere obbligati a prestare lavoro notturno (dalle ore 24 alle ore 6) nei primi 3 anni dall'ingresso del minore in famiglia e, in ogni caso, non oltre il dodicesimo anno di età. La parificazione è avvenuta anche in termini di effettività sostanziale, cioè sul piano sanzionatorio, perché in modo identico a quanto stabilito per i genitori biologici, anche nel caso dei genitori adottivi o affidataria, il Datore di Lavoro che obblighi i genitori adottivi o affidatari al lavoro notturno è punito con l'arresto da due a quattro mesi o l'ammenda da 516 euro a 2.582 euro (art. 18-bis, comma 1, del d . lgs. 66/2003) a seguito delle modifiche operate dall'art. 22 agli artt. 11, comma 2, e 18-bis, comma 1, del d. lgs.. n. 66/2003.
Per quanto riguarda il "Quanto deve lavorare il lavoratore" possiamo analizzare altre due nozioni che sono il Riposo e le Ferie. Il Riposo è la pausa che il lavoratore ha dal lavoro. Abbiamo un Riposo Giornaliero che, come già dicevamo in precedenza, è di 11 ore. Abbiamo poi un Riposo Settimanale che è di 1 giorno che non per forza deve coincidere con la domenica e può essere anche cumulato in due settimane. (Esempio mi godo il mio giorno di riposo invece che nella prima settimana nella seconda insieme all'altro giorno di riposo così ho due giorni di riposo continuativi). Per quanto riguarda le Ferie esse sono invece delle vere e proprie "vacanze" dal lavoro annuali. Il lavoratore deve godere di almeno 4 settimane di vacanze annuali distribuite a volontà del datore di lavoro e dei contratti collettivi (i quali possono anche aumentare tali settimane ma non ridurle). La particolarità di questi giorni feriali è che sono retribuiti. Esistono poi altre giornate feriali disposte da legge statale che cadono in giorni particolari (come ad esempio il 1 Maggio "Festa dei Lavoratori" e il 2 Giugno "Festa della Repubblica"). I lavoratori poi possono anche richiedere dei particolari Permessi al datore di lavoro per giorni feriali o variazioni di orario.
In conclusione rapidamente parliamo della questione del Part-Time cioè del Lavoro Parziale. Questo argomento è strettamente connesso con quello delle tipologie contrattuali infatti il Part-Time spesso è una forma di contratto che impegna il lavoratore in una attività lavorativa ridotta rispetto al normale. La riduzione può essere o di Part-Time orizzontale (cioè una riduzione in tutti i giorni della settimana) oppure un Part-Time verticale (cioè una riduzione in solo determinati giorni alla settimana) oppure un Part-Time misto cioè sia orizzontale che verticale.
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