Sentenza Corte Costituzionale n. 120/2014 (Insindacabilità Interna Corporis Acta)

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Sentenza Corte Costituzionale n. 120/2014 (Insindacabilità Interna Corporis Acta)
Tipo di risorsa Tipo: lezione
Materia di appartenenza Materia: Diritto costituzionale
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Il giorno 25 marzo 2014 la Corte Costituzionale, Presieduta dal Giudice Gaetano SILVESTRI e composta dai Giudici Luigi MAZZELLA, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO è stata chiama a vagliare la legittimità costituzionale dell’art. 12 del regolamento del Senato della Repubblica 17 febbraio 1971, dal Corte di cassazione, sezioni unite, nel procedimento vertente tra P.L. e il Senato della Repubblica, con ordinanza del 6 maggio 2013, iscritta al n. 136 del registro ordinanze 2013 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 24, prima serie speciale, dell’anno 2013. Il Giudice relatore è Giuliano Amato. La Corte Costituzionale ha deciso il 5 maggio 2014 ed ha depositato la sentenza in Cancelleria il 9 maggio 2014.

Fatto[modifica]

Un dipendente del Senato è ricorso in Cassazione, ai sensi dell’art. 111 Cost., avverso un atto/provvedimento del Parlamento, in particolare del Consiglio di garanzia del Senato, nell’ambito di un giudizio di ottemperanza relativo ad una causa di lavoro. La Corte di Cassazione ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 12 del regolamento del Senato della Repubblica approvato il 17 febbraio 1971, e successive modifiche, nella parte in cui attribuisce al Senato il potere di giudicare in via esclusiva e definitiva i ricorsi avverso gli atti e i provvedimenti adottati dall’amministrazione di quel ramo del Parlamento nei confronti dei propri dipendenti.

La Corte remittente ravvisa vari motivi di illegittimità costituzionale. La Corte di Cassazione sa che ai sensi dell'art. 12 dei Regolamenti e di varie sentenze della Corte di cassazione (nonché della sentenza n. 154/1985 della Corte costituzionale) si è ravvisata una autodichia da parte del Parlamento in alcune sue materie di natura interna. Ugualmente, prendendo spunto da una di tali sentenze, invita a riflettere sul punto che tali regolamenti - in quanto fonti (fonti-atto) di diritto oggettivo, assimilabili alle leggi formali, con le quali versano in rapporto di distribuzione (costituzionale) di competenza normativa a pari livello - siano sindacabili in alcuni punti. Nel rifarsi integralmente a tale prospettazione, le sezioni unite sottolineano la differenza tra l’esercizio delle funzioni legislative o politiche delle Camere, da un lato, e gli atti con cui le Camere provvedono alla propria organizzazione, dall’altro. Il Collegio riconosce la necessità di garantire alle stesse Camere una posizione di indipendenza affinché le stesse siano libere da vincoli esterni suscettibili di condizionarne l’azione; la Corte rimettente ritiene tuttavia che l’autodichia sui propri dipendenti non costituisca una prerogativa necessaria a garantire l’indipendenza del Parlamento e non sia affatto coessenziale alla natura costituzionale degli organi supremi; ed invero la Costituzione non tollera l’esclusione dalla tutela giurisdizionale di una categoria di cittadini e l’autonomia che spetta al Parlamento non comprende il potere di stabilire norme contrarie alla Costituzione. Su questo punto la Corte ritiene che l’autodichia del Senato si ponga in contrasto con l’art. 3 Cost., in quanto una categoria di cittadini viene esclusa dalla tutela giurisdizionale in ragione di un elemento (l’essere dipendenti del Senato) non significativo ai fini del trattamento differenziato. A ciò la Corte di cassazione riconduce anche la violazione dell’art. 24 Cost., secondo cui «Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti […]» e che, al secondo comma, definisce la difesa «diritto inviolabile». Le sezioni unite denunciano inoltre la violazione dell’art. 102, secondo comma, Cost., essendo gli stessi soggetti sottoposti ad un giudice speciale − quanto alle loro cause di lavoro − istituito dopo l’entrata in vigore della Costituzione. E infine il giudice a quo lamenta la violazione dell’art. 111 Cost.; in particolare il vulnus viene ravvisato con riferimento: al principio del giusto processo (primo comma), non potendo definirsi «giusto» un processo che si svolge dinanzi ad una delle parti; alla necessità che il contraddittorio si svolga davanti ad un giudice terzo e imparziale (secondo comma), ciò che non si verificherebbe nell’autodichia; al fatto che contro le sentenze è sempre ammesso ricorso in Cassazione per violazione di legge (settimo comma).

Proprio riguardo alla dedotta violazione dell’art. 111 Cost., la Corte di cassazione evidenzia che la Corte europea dei diritti dell’uomo, nella sentenza 28 aprile 2009, Savino ed altri c. Italia, ha affermato che - ai sensi dell’art. 6, comma 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848 - è «tribunale» non soltanto una giurisdizione di tipo classico, ma qualsiasi autorità cui competa decidere, sulla base di norme di diritto, con pienezza di giurisdizione e a conclusione di una procedura organizzata, su qualsiasi questione di sua competenza, adottando una decisione vincolante, non modificabile da un organo non giurisdizionale. Tale pronuncia ha inoltre dichiarato l’assenza di indipendenza e di imparzialità degli organi giurisdizionali della Camera, ed in particolare dell’organo di appello, ritenendo che la sua composizione determinasse una commistione inammissibile, in capo ai medesimi soggetti, tra esercizio di funzioni amministrative ed esercizio di funzioni giurisdizionali: i componenti dell’Ufficio di Presidenza della Camera, ai quali spetta l’adozione dei provvedimenti concernenti il personale, infatti, sono poi chiamati a giudicare sulle controversie aventi ad oggetto i medesimi atti amministrativi. Nel caso in esame, prosegue la Corte remittente, mancherebbe il carattere di terzietà dell’organo giudicante, che costituisce attributo connaturale all’esercizio della funzione giurisdizionale, considerato che le decisioni della Commissione contenziosa, ratificate col visto del Presidente del Senato, possono riguardare anche ricorsi contro decreti dello stesso Presidente del Senato. Tra l'altro la Cassazione avrebbe anche una funzione nomofilattica che si dovrebbe attuare anche nei confronti dei Regolamenti minori delle Camere.

Infine il giudica a quo lamenta anche la violazione dell’art. 113 Cost., secondo cui, contro gli atti della pubblica amministrazione, è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria e amministrativa; viceversa, l’autodichia preclude l’accesso agli organi di tutela giurisdizionale, così determinando la violazione denunciata.

Anche la parte del giudizio a quo, P.L., ravvisa gli stessi motivi e aggiunge che non potrebbe ravvisarsi un fondamento costituzionale dell'autodichia, neppure indiretto, nell’art. 64 Cost., che attribuisce a ciascuna Camera il potere di adottare un proprio regolamento volto a disciplinarne l’organizzazione interna. Infatti, ad avviso della difesa della parte privata, l’art. 64 Cost. non autorizza l’istituzione di un sistema di autodichia, né per le controversie relative ai rapporti di impiego dei dipendenti di ciascun ramo del Parlamento, né rispetto ad altri rapporti giuridici instaurati con soggetti terzi.

L’Avvocatura generale dello Stato, per conto del Presidente del Consiglio dei ministri, ha concluso per l’inammissibilità o, in subordine, per l’infondatezza della questione. In particolare ha dedotto l’insindacabilità dei regolamenti parlamentari, come affermata dalla citata sentenza n. 154 del 1985 e ribadita dalle ordinanze n. 444 e n. 445 del 1993, nonché da successive pronunce della Corte di cassazione. L’Avvocatura generale ha altresì evidenziato che, con la sentenza 28 aprile 2009, Savino ed altri c. Italia, la stessa Corte EDU ha riconosciuto la legittimità dell’impianto di giustizia interna delle Camere, sulla base dell’autonomia costituzionale ad esse spettante. La difesa dello Stato ha quindi concluso chiedendo che sia dichiarata l’inammissibilità ovvero, in via subordinata, l’infondatezza della questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte di cassazione.

L'Avvocatura generale dello Stato ha difeso anche il Senato della Repubblica, in persona del Presidente pro tempore che ha eccepito l’inammissibilità, come la Presidenza del Consiglio.

E' intervenuta anche la Camera dei deputati affermandosi titolare di un interesse qualificato, suscettibile di essere direttamente inciso dalla pronuncia della Corte. Ha in primo luogo eccepito l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale sollevata dalle sezioni unite della Corte di cassazione, in considerazione dell’insindacabilità dei regolamenti parlamentari, ai sensi dell’art. 134 Cost.; ad avviso della difesa della Camera, infatti, i regolamenti parlamentari non sarebbero equiparabili alle leggi o agli altri atti aventi forza di legge, non essendo promulgati dal Presidente della Repubblica ai sensi dell’art. 87 Cost., e non essendo suscettibili di abrogazione referendaria ai sensi dell’art. 75 Cost.; ad avviso della parte interveniente, la sottoposizione dei regolamenti parlamentari al sindacato di costituzionalità − in quanto connessa alla necessità di preservare l’indipendenza del Parlamento − finirebbe per determinare una inammissibile limitazione delle prerogative sovrane del Parlamento.

L’esigenza di garantire l’autonomia delle Camere sussiste, secondo la Camera, anche con riferimento alle attività degli uffici amministrativi interni degli organi parlamentari e in particolare con riferimento ai rapporti con i dipendenti; tali attività infatti sono sempre strumentali all’esercizio delle funzioni parlamentari tipiche e non potrebbero pertanto tollerare l’intervento di poteri esterni, in quanto ciò turberebbe il libero espletamento delle funzioni parlamentari. La Camera ha anche contestato la possibilità, prospettata ex adverso, di ricondurre le decisioni degli organi interni delle Camere al sindacato nomofilattico affidato alla Corte di cassazione dall’art. 111 Cost.; ad avviso della Camera, tale interpretazione sarebbe preclusa dal tenore letterale dell’art. 12 del regolamento della Camera, il quale prevede espressamente che gli organi di primo e di secondo grado «giudicano in via esclusiva» sui ricorsi presentati dai dipendenti e dai terzi avverso gli atti amministrativi di tale ramo del Parlamento; tale inciso − inserito con le modifiche regolamentari intervenute nel mese di luglio del 2009, a seguito della richiamata sentenza della Corte EDU 28 aprile 2009 − non solo intende chiarire definitivamente la natura giurisdizionale delle istanze giudicanti interne, ma mira anche a sancire espressamente − a conferma peraltro di una prassi interpretativa pressoché secolare − che l’esercizio della giurisdizione di tali istanze interne esclude completamente quella del giudice comune.

Diritto[modifica]

Preliminarmente si rende ammissibile l’intervento della Camera dei deputati nel giudizio, poiché sebbene estranea al giudizio principale, è titolare di un interesse qualificato, suscettibile di essere direttamente inciso dalla pronuncia della Corte, in quanto immediatamente inerente allo specifico rapporto sostanziale dedotto nel giudizio.

La questione di legittimità costituzionale riguarda dunque la disposizione art. 12 del Regolamento nella parte in cui – secondo un’antica tradizione interpretativa – attribuisce al Senato l’autodichia sui propri dipendenti, ossia il potere di giudicare in via esclusiva e definitiva i ricorsi avverso gli atti e i provvedimenti adottati dall’amministrazione di quel ramo del Parlamento nei confronti degli stessi dipendenti, con conseguente esclusione del sindacato di qualsiasi giudice esterno in ordine alle controversie che attengono allo stato ed alla carriera giuridica ed economica dei dipendenti.

La questione deve essere dichiarata inammissibile.

La sindacabilità dei regolamenti parlamentari, adottati ai sensi dell’art. 64, primo comma, Cost., costituisce la premessa della valutazione dell’ammissibilità della questione. I regolamenti parlamentari non rientrano espressamente tra le fonti-atto indicate nell’art. 134, primo alinea, Cost. − vale a dire tra le «leggi» e «gli atti aventi forza di legge» − che possono costituire oggetto del sindacato di legittimità rimesso a questa Corte. Nel sistema delle fonti delineato dalla stessa Costituzione, il regolamento parlamentare è espressamente previsto dall’art. 64 come fonte dotata di una sfera di competenza riservata e distinta rispetto a quella della legge ordinaria e nella quale, pertanto, neppure questa è abilitata ad intervenire. Se tuttavia la ratio dell’insindacabilità dei regolamenti parlamentari è costituita − sul piano sistematico − dalla garanzia di indipendenza delle Camere da ogni altro potere, ciò non comporta che essi siano, come nel lontano passato, fonti puramente interne. Essi sono fonti dell’ordinamento generale della Repubblica, produttive di norme sottoposte agli ordinari canoni interpretativi, alla luce dei principi e delle disposizioni costituzionali, che ne delimitano la sfera di competenza.

È su queste basi che si colloca il tema dell’estensione dell’autodichia e conseguentemente della sua legittimità. Gli artt. 64 e 72 Cost. assolvono alla funzione di definire e, al tempo stesso, di delimitare «lo statuto di garanzia delle Assemblee parlamentari». È dunque all’interno di questo statuto di garanzia che viene stabilito l’ambito di competenza riservato ai regolamenti parlamentari, avente ad oggetto l’organizzazione interna e, rispettivamente, la disciplina del procedimento legislativo per la parte non direttamente regolata dalla Costituzione. In questo ambito, le vicende e i rapporti che ineriscono alle funzioni primarie delle Camere sicuramente ricadono nella competenza dei regolamenti e l’interpretazione delle relative norme regolamentari e sub-regolamentari non può che essere affidata in via esclusiva alle Camere stesse. Né la protezione dell’area di indipendenza e libertà parlamentare attiene soltanto all’autonomia normativa, ma si estende al momento applicativo delle stesse norme regolamentari «e comporta, di necessità, la sottrazione a qualsiasi giurisdizione degli strumenti intesi a garantire il rispetto del diritto parlamentare».

Se altrettanto valga per i rapporti di lavoro dei dipendenti e per i rapporti con i terzi, è questione controversa, che, in linea di principio, può dar luogo ad un conflitto fra i poteri; infatti, anche norme non sindacabili potrebbero essere fonti di atti lesivi di diritti costituzionalmente inviolabili e, d’altra parte, deve ritenersi sempre soggetto a verifica il fondamento costituzionale di un potere decisorio che limiti quello conferito dalla Costituzione ad altre autorità. L’indipendenza delle Camere non può infatti compromettere diritti fondamentali, né pregiudicare l’attuazione di principi inderogabili. Peraltro, negli ordinamenti costituzionali a noi più vicini, come Francia, Germania, Regno Unito e Spagna, l’autodichia sui rapporti di lavoro con i dipendenti e sui rapporti con i terzi non è più prevista. Nel nostro ordinamento è altresì significativo che molteplici decisioni della Corte Costituzionale stessa, oltre che della Corte di Strasburgo, abbiano assoggettato a stretta interpretazione la stessa immunità parlamentare prevista dal primo comma dell’art. 68 Cost., riconosciuta soltanto quando sia dimostrato, secondo criteri rigorosi, il nesso funzionale fra l’opinione espressa e l’attività parlamentare, proprio per limitare l’impedimento all’accesso al giudice da parte di chi si ritenga danneggiato. Il rispetto dei diritti fondamentali, tra i quali il diritto di accesso alla giustizia (art. 24 Cost.), così come l’attuazione di principi inderogabili (art. 108 Cost.), sono assicurati dalla funzione di garanzia assegnata alla Corte costituzionale. La sede naturale in cui trovano soluzione le questioni relative alla delimitazione degli ambiti di competenza riservati è quella del conflitto fra i poteri dello Stato: «Il confine tra i due distinti valori (autonomia delle Camere, da un lato, e legalità-giurisdizione, dall’altro) è posto sotto la tutela della Corte Costituzionale, che può essere investita, in sede di conflitto di attribuzione, dal potere che si ritenga leso o menomato dall’attività dell’altro». In tale sede la Corte può ristabilire il confine – ove questo sia violato − tra i poteri legittimamente esercitati dalle Camere nella loro sfera di competenza e quelli che competono ad altri, così assicurando il rispetto dei limiti delle prerogative e del principio di legalità, che è alla base dello Stato di diritto.

Sentenza[modifica]

La Corte Costituzionale ha così deciso il 5 maggio 2014:

  1. dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 12 del regolamento del Senato della Repubblica, approvato il 17 febbraio 1971, e successive modifiche, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24, 102, secondo comma, 111, primo, secondo e settimo comma, e 113, primo comma, della Costituzione, dalla Corte di cassazione, sezioni unite, con l’ordinanza in epigrafe.

Massima della Sentenza[modifica]

La Corte ribadisce, come in sue passate sentenze, la non possibilità di sindacare i regolamenti parlamentari e gli atti parlamentari (Interna Corporis Acta) i quali non rientrano negli atti sindacabili ex art. 134 Cost. ma rappresentano una fonte costituzionale a sé stante usata per attuare la particolare autonomia che è la stessa Costituzione a prevede per il Parlamento ex art. 64 Cost..

Gli artt. 64 e 72 Cost. fungono però anche da limite a queste garanzia di autonomia da parte delle Camere nel regolare i rapporti interni e il procedimento legislativo nella parte non prevista dalla Costituzione. Ed in questo vi è anche il limite oltre cui non vi è più insindacabilità perché funzione primaria della Camera. Finché si resta in questo ambito però sicuramente ricadono nella competenza dei regolamenti e l’interpretazione delle relative norme regolamentari e sub-regolamentari non può che essere affidata in via esclusiva alle Camere stesse. Né la protezione dell’area di indipendenza e libertà parlamentare attiene soltanto all’autonomia normativa, ma si estende al momento applicativo delle stesse norme regolamentari «e comporta, di necessità, la sottrazione a qualsiasi giurisdizione degli strumenti intesi a garantire il rispetto del diritto parlamentare».

Va però comunque detto che l’indipendenza delle Camere non può compromettere diritti fondamentali, né pregiudicare l’attuazione di principi inderogabili. Pertanto, seppure come detto la Corte non può sindacare i regolamenti parlamentari nelle parti in cui regolano funzioni primarie della Camera. Ugualmente può essere adita con ricorso di conflitto di attribuzione nei casi in cui si ritenga che ci sia un conflitto tra i poteri legittimamente esercitati dalle Camere nella loro sfera di competenza e quelli che competono ad altri così ristabilendo o marcando i limiti di tale autodichia del Parlamento e attuando il rispetto dei diritti fondamentali, tra i quali il diritto di accesso alla giustizia (art. 24 Cost.), così come l’attuazione di principi inderogabili (art. 108 Cost.).


Il Testo completo della Sentenza è disponibile qui: http://www.cortecostituzionale.it/actionPronuncia.do

Collegamenti esterni[modifica]