Versioni di Ovidio (superiori)
Publio Ovidio Nasone (I secolo a.C. e d.C.)[modifica]
Publio Ovidio Nasone, più semplicemente Ovidio, è stato un poeta romano tra i maggiori elegiaci. La tendenza al galante e al piccante, a un certo ateismo di maniera, e l'indifferenza alla vita politica gli derivano dalla gioventù dorata imperiale, della quale Ovidio era uno dei rappresentanti più onesti, e per la quale egli scriveva. I rapporti dell'autore con le sue fonti, sono problema importante per il filologo; ma più che ai suoi predecessori, egli deve molto all'ambiente culturale che lo circondava.
Cronologia della Vita[modifica]
- 43 a.C.: 20 marzo. Nasce a Sulmona da una famiglia di ordine equestre.
- 31 a.C.: Inizia i suoi studi a Roma.
- 8 d.C.: È Esiliato a Tomi da Augusto.
- 18 d.C.: Muore in Esilio a Tomi.
Le Opere[modifica]
Ovidio scrisse un gran numero di opere, che possono essere facilmente divise in tre gruppi: le opere giovanili o amorose, le maggiori o della maturità e le opere dell'esilio. Altre opere sono andate pressoché perdute, mentre altre sono state erroneamente attribuite al poeta. Opere giovanili o amorose
La giovinezza e gli studi[modifica]
Amores: In tre libri e 49 carmi che narrano la storia d'amore per una donna chiamata Corinna (personaggio letterario), secondo lo stile e le convenzioni dell'elegia amorosa: il poeta è asservito alla domina, soffre per le sue infedeltà, è geloso degli altri ammiratori e contrappone la vita militare alla vita amorosa. Ma Ovidio non soffre drammaticamente come Catullo e mantiene sempre un certo distacco intellettuale: vede l'amore come un gioco e questa concezione amorosa si traduce e si esplica in un ribaltamento degli atteggiamenti e dei temi tradizionali (Ovidio giunge ad amare anche due donne contemporaneamente, chiede all'amata non di essergli fedele ma di nascondergli i tradimenti affinché lui possa fingere di non sapere).
Medea: Tragedia a noi non pervenuta, ma lodata dai contemporanei.
Heroides: 21 lettere che Ovidio immagina scritte da donne famose ai loro amanti. Tre lettere, in particolare, hanno una risposta da parte dell'uomo amato. Si tratta di una tipologia completamente nuova per la letteratura latina: il filone erotico-mitologico viene per la prima volta svolto in forma epistolare (alcuni studiosi hanno trovato per questo analogie con le suasoriae, discorsi fittizi rivolti a personaggi mitici o storici per persuaderli o dissuaderli in determinate circostanze). Vi sono numerosi parallelismi con l'epica e con la tragedia (in particolare i monologhi delle eroine euripidee) e non mancano addirittura rivisitazioni e riscritture di alcuni miti (come nel caso della lettera di Fedra a Ippolito, nella quale la matrigna veste i panni di una scaltra seduttrice piuttosto che quelli di una donna disperata).
Ars amatoria: In tre libri. Secondo Concetto Marchesi, si tratta del "capolavoro della poesia erotica latina" in cui Ovidio si fa praeceptor amoris, un ruolo comunque svolto da quasi tutti i poeti elegiaci ma che, grazie a una sapiente mescolanza di generi (elegia, epica didascalica, precettistica tecnica), riesce ad acquisire un'importanza maggiore. I primi due libri sono dedicati agli uomini e trattano, rispettivamente, la conquista della donna e le tecniche di seduzione, e come far durare l'amore. Il III libro si propone di dare preziosi consigli alle donne. Il modello più frequente è quello "predatorio della caccia". L'oggetto della caccia non è più l'amore, ma il sesso. E infatti Ovidio consiglia di non innamorarsi, ma di saper vivere l'amore come un gioco. Perciò egli ammette anche il tradimento in una relazione. Per Ovidio il tradimento è un elemento base della società del suo periodo. Ma Ovidio specifica anche che non si riferisce al rapporto del matrimonio e neanche alle donne perbene. Egli dà consigli alle liberte, alle schiave e alle cortigiane. Quindi l'opera rappresenta vivacemente il quadro sociale del tempo di Ovidio e dunque non stupisce il fatto che non sia stata apprezzata da Augusto stesso (probabilmente per il velato rifiuto dei modelli etici arcaici).
Medicamina faciei femineae: Operetta sui cosmetici delle donne. Di quest'opera ci sono pervenuti solo 100 versi: i primi 50 costituiscono il proemio, i successivi 50 propongono 5 ricette di creme da applicare sul viso.
Remedia amoris: 400 distici elegiaci per resistere all'amore o liberarsene.
Opere maggiori o della maturità[modifica]
Metamorfosi: In 15 libri di esametri. Il capolavoro di Ovidio, ultimato poco prima dell'esilio, contiene più di 250 miti di trasformazioni, dal Caos all'apoteosi di Cesare e Augusto. L'opera si chiude con una preghiera agli dei, affinché questi preservino a lungo l'imperatore Augusto. Scritto in esametri, in quindici libri (per circa 12 000 versi), vi si trova tutta la storia mitica del mondo, ma riorganizzata da Ovidio in una serie di racconti continuati. Il criterio generale di compilazione segue l'ordine cronologico, ma molto spesso Ovidio introduce eventi anteriori al fatto narrato o posteriori, collega le storie in base a rapporti familiari, elabora i racconti secondo affinità o diversità. Insomma si tratta di un racconto mosso e articolato, talvolta al limite dell'artificio, che mostra l'abilità stupefacente del poeta di legare tra di loro storie che apparentemente non hanno un filo logico comune. L'unico principio unificatore è la metamorfosi. Tra gli strumenti adottati dal poeta vi è il racconto nel racconto, grazie al quale il poeta trasforma i personaggi "narrati" in personaggi "narranti" che raccontano vicende proprie o altrui. L'opera lo rese illustrissimo presso i contemporanei.
Fasti: In 6 libri. Nelle intenzioni dell'autore avrebbe dovuto essere di 12 libri, uno per ogni mese dell'anno, ma Ovidio ne scrisse solo 6 (da gennaio a giugno) a causa dell'esilio. Egli intendeva illustrare (secondo un procedimento simile a quello utilizzato negli Aitia di Callimaco) le feste religiose e le ricorrenze varie del calendario romano introdotto da Cesare. Si tratta di un'opera di carattere eziologico ed erudito, ispirata al gusto alessandrino; Ovidio narra aneddoti, favole, episodi della storia di Roma, impartisce nozioni di astronomia, spiega usanze e tradizioni popolari. Ma l'intento celebrativo rimane esteriore, non essendo sorretto né da un interesse storico-religioso, né dal senso patriottico della grandezza di Roma.
Opere della relegazione[modifica]
Tristia: In 5 libri di distici elegiaci: Ovidio riprende qui un tratto tipico della poesia elegiaca, il lamento. Ne derivano un centinaio di componimenti, raggruppati in questi 5 libri. Le elegie dei Tristia sono senza destinatario.
Epistulae ex Ponto: Lettere poetiche raggruppate in 4 libri: le Epistulae sono elegie indirizzate a vari personaggi romani (tra cui la terza moglie del poeta, rimasta a Roma) affinché potessero intercedere presso l'imperatore per porre fine all'esilio o, quanto meno, trasferire il poeta in una località più vicina a Roma.
Ibis: Carme imprecatorio contro un anonimo avversario di Ovidio, prima suo amico e poi calunniatore.
Halieutica: Poemetto sulla pesca nel Ponto.
Phaenomena: Poema astronomico non giunto.
Altre opere minori[modifica]
Ovidio scrisse canti di vario genere, ai quali il poeta allude in particolare nelle Epistulae ex Ponto; sono:
- Un carme in lingua getica, in onore di Augusto e della famiglia imperiale (De Caesare).
- Un carme, sempre in lingua getica, in onore di Tiberio, vincitore degli Illiri.
- Un elogio in morte di Messalla Corvino.
- Un epitalamio per le nozze dell'amico Paolo Fabio Massimo.
Opere erroneamente attribuite[modifica]
Non sono di Ovidio né il poemetto Nux di 182 versi (elegia in cui un noce si lamenta delle sassate che riceve ingiustamente dai passanti), né una Consolatio ad Liviam di 474 versi, carme consolatorio alla moglie di Augusto per la morte del figlio Druso, nel 9 a.C. Qualche tardo manoscritto li attribuisce a Ovidio, ma ragioni stilistiche e metriche, oltre che di contenuto, fanno pensare a qualche imitatore posteriore.
Versioni[modifica]
Versioni dalle Metamorfosi[modifica]
Versione 1: (OOo) Incipit delle Metamorfosi[modifica]
Genere: mitologico / Tema: miti / Varietà linguistica: latino classico.
Ovidio fra il 2 e l'8 d.C. compose le Metamorfosi, un grande poema mitologico di ben 12.000 esametri, in cui si narrano oltre duecento miti. Filo conduttore del poema è la convinzione che la vita dell'universo altro non sia che il risultato di continue e incessanti mutazioni. Il tema è solennementeannunciato nell'incipit e il racconto incomincia dalla prima grande trasformazione, il passaggio dal caos primordiale alla separazione degli elementi ad opera di un dio "ordinatore".
In nova fert animus mutatas dicere formas
corpora; di, coeptis (nam vos mutastis et illas)
adspirate meis primaque ab origine mundi
ad mea perpetuum deducite tempora carmen1!
Ante mare et terras et quod tegit omnia caelum 5
unus erat toto naturae vultus in orbe,
quem dixere chaos: rudis indigestaque moles
nec quicquam nisi pondus iners congestaque eodem
non bene iunctarum discordia2 semina rerum.
nullus adhuc mundo praebebat lumina Titan3, 10
nec nova crescendo reparabat cornua Phoebe4,
nec circumfuso pendebat in aere tellus
ponderibus librata suis, nec bracchia longo
margine terrarum porrexerat Amphitrite5;
utque6 erat et tellus illic et pontus et aer, 15
sic erat instabilis tellus, innabilis unda,
lucis egens aer; nulli sua forma manebat,
obstabatque aliis aliud, quia corpore in uno
frigida pugnabant calidis, umentia siccis,
mollia cum duris, sine pondere, habentia pondus. 20
Hanc deus et melior litem7 natura diremit.
nam caelo terras et terris abscidit undas
et liquidum spisso secrevit ab aere caelum.
quae postquam evolvit caecoque exemit acervo,
dissociata locis concordi pace ligavit:
ignea convexi vis et sine pondere caeli 25
emicuit8 summaque locum sibi fecit in arce;
proximus est aer illi levitate locoque;
densior his tellus elementaque grandia traxit
et pressa est gravitate sua; circumfluus umor
ultima possedit solidumque coercuit orbem. 30
- 1. Con perpetuum carmen Ovidio intende probabilmente un "componimento continuo".
- 2. Discordia è neutro plurale dall'oggettivo discors, discordis!
- 3. Si allude al titano Iperione che generò Elio, cioè il Sole.
- 4. È un altro nome di Artemide / Diana, e rappresenta la Luna.
- 5. Anfitrite è una divinità marina, simboleggia quindi "il mare": l'immagine del mare che circonda le terre è già presente in Omero.
- 6. Utque = Et ut; Ut è in correlazione con sic del verso successivo.
- 7. È la contesa fra gli opposti, che nel caos primordiale sono costretti a coabitare, come esemplificato nei versi precedenti.
- 8. La prima metamorfosi consiste nella separazione dei quattro elementi fondamentali ai quali vengono assegnate zone proprie e ben separete: più in alto l'elemento più leggero, il fuoco, quindi, l'aria, poi la terra che trasse a sé gli elementi più pesanti, infine l'acqua che circonda il globo terrestre divenuto solido.
A narrare di forme cambiate in corpi stranieri
mi spinge l'ingegno; al progetto, dèi, date respiro
(siete voi che lo avete cambiato) e guidate i miei versi a discendere
dal primo principio del mondo di seguito fino ai miei giorni.
Prima del mare, dei campi, del ciclo a coprire ogni cosa, 5
per l'universo mostrava la natura un'identica faccia,
il Caos, come l'hanno chiamata: una massa informe e confusa,
nient'altro che un torpido peso e dentro,
ammucchiati e discordi, i germi di cose sconnesse.
Non c'era il Titano a elargire al mondo la luce, 10
né Febe rinnovava la falce crescente;
non stava sospesa, la Terra, con l'atmosfera a recingerla,
per proprio equilibrio, e Anfitrite
non aveva disteso le braccia lungo le sponde.
Se c'erano la terra, il mare e l'aria, 15
la terra era instabile, l'onda innavigabile, l'aria
senza luce: niente riusciva a serbare la stessa forma
e ogni cosa cozzava con l'altra: in un unico corpo
combattevano il gelo col caldo, il bagnato con l'arido,
il morbido insieme col duro, il greve con l'imponderabile. 20
Questo conflitto appianarono un dio e una natura migliore:
prese a staccare le terre dal cielo, e dalle terre le onde,
divise il limpido cielo dall'atmosfera più fitta.
Sbrogliate le cose e strappatele al fosco groviglio,
assegnava un posto a ciascuna, stringendole in lacci concordi di pace.
Nel cavo del ciclo s'accese, senza peso, l'essenza di fuoco 25
facendosi largo nei vertici supremi.
A lei subito sotto per leggerezza e per sede sta l'aria;
più densa di loro attrasse la terra, schiacciandoli sotto il suo peso,
i materiali massicci; l'acqua, versandosi in giro,
invase gli estremi confini e chiuse il mondo dei solidi. 30Versione 2: (OOo) Mai far arrabbiare Cupido![modifica]

Genere: mitologico / Tema: miti / Varietà linguistica: latino classico .
Uno dei più bei miti, immortalato nei secoli nonsolo da poeti ma anche da pittori e scultori, racconta come Apollo s'innamoro della ninfa Dafne. Il dio, fiero di avere appena sconfitto il mostruoso serpente Pitóne, vide Cupìdo armato di arco e lo derise, disprezzando le sue inutili armi. Cupìdo, offeso, colpì Apollo con la freccia che suscita l'amore, Dafneinvececonquella che lo fa rifiutare.
Primus amor Phoebi Daphne Peneia1, quem non
fors ignara dedit, sed saeva Cupidinis ira,
Delius hunc nuper, victa serpente2 superbus,
viderat adducto flectentem cornua nervo3 455
‘quid’ que4 ‘tibi, lascive puer, cum fortibus armis?’
dixerat: ‘ista decent umeros gestamina nostros,
qui dare certa ferae, dare vulnera possumus hosti,
qui modo pestifero tot iugera ventre prementem
stravimus innumeris tumidum Pythona5 sagittis. 460
Tu face nescio quos esto contentus amores
inritare tua6, nec laudes adsere nostras!’
filius huic Veneris ‘figat tuus omnia, Phoebe,
te meus arcus’ ait; ‘quantoque animalia cedunt
cuncta deo, tanto minor est tua gloria nostra.’ 465
Dixit et eliso percussis aere pennis
inpiger umbrosa Parnasi constitit arce
eque sagittifera prompsit duo tela pharetra7
diversorum operum: fugat hoc, facit illud amorem;
quod facit, auratum est et cuspide fulget acuta, 470
quod fugat, obtusum est et habet sub harundine plumbum.
Hoc deus in nympha Peneide fixit, at illo
laesit Apollineas traiecta per ossa medullas;
protinus alter amat, fugit altera nomen amantis
silvarum latebris captivarumque ferarum 475
exuviis gaudens innuptaeque aemula Phoebes8:
vitta coercebat positos sine lege capillos.
Multi illam petiere, illa aversata petentes
inpatiens expersque viri nemora avia lustrat
nec, quid Hymen9, quid Amor, quid sint conubia curat. 480
- 1. È sottinteso fuit; Daphne è nom. sing. della declinazione greca. La ninfa Dafne è detta Peneia o Peneide perché figlia di Pèneo.
- 2. Victā serpente è retto da superbus; serpente è femm. Apollo aveva appena ucciso il mostruoso Pitóne.
- 3. Si ordini così: (Hunc) viderat flectentem cornua ("Lo aveva visto tendere l'arco") adducto nervo. Cornua perché i terminali dell'arco ricordano la forma della corna di un bovino.
- 4. Que: Si traduca come se fosse viděrat... et dixěrat.
- 5. Pythona è acc. sing. masch. della declinazione greca. Dal nome proprio del mitico mostro deriva il nome comune "pitone".
- 6. Tu... tuā è da ordinarsi così: Tu esto contentus contentus inritare face tuā nescio quos amores ("Non so quali amorazzi").
- 7. Si ordini il verso così: Et ex (= eque) sagittifera pharetra prompsit duo tela.
- 8. Phoebes: È gen. sing. femm. della declinazione greca. Febe è qui confusa con Artèmide, dea vergine della caccia e dei boschi, che rifiutava l'amore e le nozze.
- 9. Hymen: Imène, figlio di Apollo e di una musa, proteggeva il rito delle nozze.
Il primo amore di Febo fu Dafne, figlia di Peneo,
e non fu dovuto al caso, ma all’ira implacabile di Cupido.
Ancora insuperbito per aver vinto il serpente, il dio di Delo,
vedendolo che piegava l’arco per tendere la corda: 455
«Che vuoi fare, fanciullo arrogante, con armi così impegnative?»
gli disse. «Questo è peso che s’addice alle mie spalle,
a me che so assestare colpi infallibili alle fiere e ai nemici,
a me che con un nugolo di frecce ho appena abbattuto Pitone,
infossato col suo ventre gonfio e pestifero per tante miglia. 460
Tu accontèntati di fomentare con la tua fiaccola,
non so, qualche amore e non arrogarti le mie lodi».
E il figlio di Venere: «Il tuo arco, Febo, tutto trafiggerà,
ma il mio trafigge te, e quanto tutti i viventi a un dio
sono inferiori, tanto minore è la tua gloria alla mia». 465
Disse, e come un lampo solcò l’aria ad ali battenti,
fermandosi nell’ombra sulla cima del Parnaso,
e dalla faretra estrasse due frecce
d’opposto potere: l’una scaccia, l’altra suscita amore.
La seconda è dorata e la sua punta aguzza sfolgora, 470
la prima è spuntata e il suo stelo ha l’anima di piombo.
Con questa il dio trafisse la ninfa penea, con l’altra
colpì Apollo trapassandogli le ossa sino al midollo.
Subito lui s’innamora, mentre lei nemmeno il nome d’amore
vuol sentire e, come la vergine Diana, gode nella penombra 475
dei boschi per le spoglie della selvaggina catturata:
solo una benda raccoglie i suoi capelli scomposti.
Molti la chiedono, ma lei respinge i pretendenti
e, decisa a non subire un marito, vaga nel folto dei boschi
indifferente a cosa siano nozze, amore e amplessi. 480Versione 3: (OOo) Dafne, cuore di legno[modifica]
Genere: mitologico / Tema: miti / Varietà linguistica: latino classico .
Appena Apollo vide Dafne, se ne innamorò; ma lei, gelosa della propria purezza, scappò; raggiunta, chiese aiuto al padre Pèneo, che la trasformò in una pianta d'allora, fra le braccia del dio disperato.
Ut canis in vacuo leporem cum Gallicus arvo1
vidit, et hic praedam pedibus petit, ille salutem;
alter inhaesuro similis iam iamque tenere 535
sperat et extento stringit vestigia rostro2,
alter in ambiguo est, an sit conprensus, et ipsis
morsibus eripitur tangentiaque ora relinquit:
sic deus et virgo est hic spe celer, illa timore.
Qui tamen insequitur pennis adiutus Amoris, 540
ocior est requiemque negat tergoque fugacis
inminet3 et crinem sparsum cervicibus adflat.
viribus absumptis expalluit illa citaeque
victa labore fugae spectans Peneidas undas
‘fer, pater,’ inquit ‘opem!4 si flumina numen habetis, 545
qua nimium placui, mutando perde figuram!5’
[quae facit ut laedar mutando perde figuram.]
vix prece finita torpor gravis occupat artus,
mollia cinguntur tenui praecordia libro,
in frondem crines, in ramos bracchia crescunt, 550
pes modo tam velox pigris radicibus haeret,
ora cacumen habet: remanet nitor unus in illa.
Hanc quoque Phoebus amat positaque in stipite dextra
sentit adhuc trepidare novo sub cortice pectus
conplexusque suis ramos ut membra lacertis6 555
oscula dat ligno; refugit tamen oscula lignum.
cui deus ‘at, quoniam coniunx mea non potes esse,
arbor eris certe’ dixit ‘mea! semper habebunt
te coma, te citharae, te nostrae, laure7, pharetrae;
tu ducibus Latiis aderis, cum laeta Triumphum 560
vox canet et visent longas Capitolia pompas;
postibus Augustis eadem fidissima custos
ante fores stabis mediamque tuebere quercum,
utque meum intonsis caput est iuvenale capillis,
tu quoque perpetuos semper gere frondis honores!’ 565
finierat Paean: factis modo laurea ramis
adnuit utque caput visa est agitasse cacumen8.
- 1. Ut... vidit è il primo membro di una similitudine (il secondo comincia a v. 539 con sic) e va ordinato così: Ut cum ("come quando") canis Gallicus in vacuo arvo lepŏrem vidit.
- 2. Extento... rostro: "Con il muso proteso" per addentare la preda.
- 3. Tergoque fugacis immĭnet: "Incombe alle spalle della fuggitiva"; fugacis è gen. femm. riferito a Dafne.
- 4. Viribus... inquit va ordinato così: Illa (= Dafne), viribus absumptis, expalluit et, victa lavore citae fugae, spectans Peneidas undas, inquit: "Pater, fer opem!". Pèneo era un dio-fiume della Tessaglia, padre di Dafne.
- 5.' Qua... figuram: Prolessi della relativa. Si ordini così: Perde ("fammi perdere") figuram, qua nimium placui.
- 6. Si ordini il verso così: Et complexus suis lacertis ramos ut membra ("i rami, come se fossero un corpo").
- 7. Laure: Dafne si era trasformata in un albero d'allora (in latino laurus, in greco daphne), che da allora fu pianta sacra ad Apollo.
- 8. Factis... cacūmen va ordinato così: Laurea (sott. arbor) adnuit ramis modo factis ("appena formati") et visa est agitavisse cacūmen ut ("come se fosse") caput.
Come quando un cane di Gallia scorge in campo aperto
una lepre, e scattano l’uno per ghermire, l’altra per salvarsi;
questo, sul punto d’afferrarla e ormai convinto 535
d’averla presa, che la stringe col muso proteso,
quella che, nell’incertezza d’essere presa, sfugge ai morsi
evitando la bocca che la sfiora: così il dio e la fanciulla,
un fulmine lui per la voglia, lei per il timore.
Ma lui che l’insegue, con le ali d’amore in aiuto, 540
corre di più, non dà tregua e incombe alle spalle
della fuggitiva, ansimandole sul collo fra i capelli al vento.
Senza più forze, vinta dalla fatica di quella corsa
allo spasimo, si rivolge alle correnti del Peneo e:
«Aiutami, padre», dice. «Se voi fiumi avete qualche potere, 545
dissolvi, mutandole, queste mie fattezze per cui troppo piacqui».
Ancora prega, che un torpore profondo pervade le sue membra,
il petto morbido si fascia di fibre sottili,
i capelli si allungano in fronde, le braccia in rami;
i piedi, così veloci un tempo, s’inchiodano in pigre radici, 550
il volto svanisce in una chioma: solo il suo splendore conserva.
Anche così Febo l’ama e, poggiata la mano sul tronco,
sente ancora trepidare il petto sotto quella nuova corteccia
e, stringendo fra le braccia i suoi rami come un corpo,
ne bacia il legno, ma quello ai suoi baci ancora si sottrae. 555
E allora il dio: «Se non puoi essere la sposa mia,
sarai almeno la mia pianta. E di te sempre si orneranno,
o alloro, i miei capelli, la mia cetra, la faretra;
e il capo dei condottieri latini, quando una voce esultante
intonerà il trionfo e il Campidoglio vedrà fluire i cortei. 560
Fedelissimo custode della porta d’Augusto,
starai appeso ai suoi battenti per difendere la quercia in mezzo.
E come il mio capo si mantiene giovane con la chioma intonsa,
anche tu porterai il vanto perpetuo delle fronde!».
Qui Febo tacque; e l’alloro annuì con i suoi rami 565
appena spuntati e agitò la cima, quasi assentisse col capo.