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La crisi del XIV secolo (superiori)

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La crisi del XIV secolo (superiori)
Tipo di risorsa Tipo: lezione
Materia di appartenenza Materia: Letteratura italiana per le superiori 1
Avanzamento Avanzamento: lezione completa al 100%

Il XIV secolo è stato un secolo di crisi economica e politica, ma pure di fioritura culturale. Questo periodo viene chiamato dallo studioso olandese Johan Huizinga Autunno del Medioevo, titolo di una sua famosa opera. Infatti ne seguirà il periodo dell'umanesimo e poi del Rinascimento, perciò il XIV secolo viene anche definito come preumanesimo. In questo le tendenze sociali e politiche che si erano fatte sentire nel secolo precedente si esasperano fino a vedere la decadenza dell'Impero e della Chiesa. Si assiste poi all'affermarsi di una nuova spiritualità che, come scrive Mario Sansone[1]

«consiste nel senso sempre più energico degli interessi e dei valori mondani e terreni, non in contrapposizione a quelli religiosi e oltremondani, ma sciolti da quelli e viventi nella loro autonomia. Declinava il Medioevo in tutti i suoi aspetti: il papato e l'impero, espressioni eminenti di una particolare concezione e interpretazione della storia, tramontavano. Gli imperatori perdevano sempre più il senso della loro autorità universale, e i papi, in Avignone, avevano tolto vigore alla idea di Roma considerata solo come centro di cristianità, e sorgeva, per contro, sempre più viva l'idea di una missione laica di Roma, da ricongiungersi alla sua grandezza antica.»

Nasce così una nuova cultura che si baserà su uno studio attento e preciso dell'antichità classica, sempre più libera da preconcetti di carattere intellettualistico e intenzionata ad allargare ogni forma di pensiero. Riferendoci all'arte, soprattutto nell'architettura, il Trecento è definito come periodo tardogotico, perché vengono riprese forme proprio della cultura feudale.

Il contesto storico

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Rappresentazione della peste bubbonica nelle cronache di Gilles Li Muisis (1272-1352), abate del monastero di San Martino dei giusti, conservata nella Biblioteca reale del Belgio

Nel Trecento l'intera Europa conosce un periodo di crisi economica e sociale. All'inizio del secolo la civiltà comunale aveva raggiunto il suo apice. Il suo sviluppo viene però interrotto da una crisi agricola: una serie di carestie impedisce a larghe fette della popolazione di accedere al cibo. Con il peggioramento dell'alimentazione si diffondono le epidemie, la peggiore delle quali è la peste nera del 1348-1351, che falcidia circa un terzo della popolazione. A questa segue una grave recessione economica che interessa tutto il continente. Molti terreni coltivabili vengono abbandonati e l'ulteriore calo della produzione agricola comporta una separazione sempre più netta tra i pochi potenti e i molti che vivono nella miseria. Nella seconda metà del XIV secolo si verificano nuove pestilenze, mentre lo scoppio della guerra dei cento anni (1337-1453) tra Inghilterra e Francia contribuisce ad aggravare il senso di insicurezza diffuso tra la popolazione.

I mercanti, seguendo una tendenza inaugurata nel Duecento, investono i loro capitali in latifondi, sfruttando il lavoro dei contadini. Lo sviluppo delle grandi banche porta inoltre all'affermazione di un'economia monetaria, basata sul movimento astratto del denaro. Il crollo del prezzo dei cereali, invece, comporta un calo dei compensi per la manodopera agricola. Da questa condizione di miseria scaturiscono rivolte contadine, che vengono represse nel sangue. I princìpi morali che avevano caratterizzato l'età precedente cessano di avere valore e vengono utilizzati a seconda della convenienza del momento.

In Italia la recessione porta a una situazione di ristagno economico. Si susseguono guerre locali per il dominio dei territori, che portano alla nascita di un nuovo sistema di Stati regionali che manterrà una sostanziale stabilità fino alla fine del XVIII secolo. I Comuni dell'Italia centro-settentrionale, divenuti deboli con la crisi economica, crollano e si affermano le Signorie. Una data particolarmente importante è il 1378: in questo anno la sede papale torna da Avignone a Roma, si consuma lo scisma d'Occidente e avviene il tumulto dei Ciompi.[2]

Il contesto culturale

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Il palazzo dei papi di Avignone

In questo secolo di crisi nell'immaginario collettivo la paura della morte a causa della peste. Difatti proprio in questo periodo nasce il termine "macabro", che deriva del francese "macabre", lettura errata di "macabré". Nonostante la grave crisi avviene una innovazione culturale. In questi anni si consolida il prestigio culturale di Firenze, mentre dimostrano grande vitalità intellettuale Napoli, Venezia, Verona e Padova. Particolare importanza come luogo di attrazione per letterati e artisti provenienti da varie parti d'Europa è la città di Avignone, sede del papato. Qui, partendo dallo studio dei classi, si afferma un nuovo uso letterario del latino, che ha in Petrarca il suo campione.[3] I classici antichi vengono letti sotto chiave originale e non più rielaborata. L'uomo vede il passato non più come il presente, ma con prospettiva storica. Questo "ritorno all'antico" è uno dei primi segnali dell'Umanesimo, che si affermerà nel corso del XV secolo. Inoltre si diffonde la cultura e l'alfabetizzazione. I luoghi della cultura di questo periodo sono principalmente tre:

  • Le università, istituzioni culturali nate il secolo scorso, continuano ad esistere.
  • Le corti, gli Stati regionali iniziarono a spendere per la committenza delle opere d'arte.
  • I cenacoli sono, invece, organizzazioni in cui si riunivano intellettuali che producevano opere solo per la stretta cerchia.

Cambia la figura dall'intellettuale che, nonostante la committenza, conservano la loro autonomia e libertà.

I due scrittori che in questo periodo «meglio testimoniano nelle loro opere la complessa fase di trasformazione culturale, sociale e politica del Trecento»[4] e che rappresentano, nella letteratura italiana, un momento di passaggio tra l'età medievale e l'Umanesimo sono Francesco Petrarca e Giovanni Boccaccio.

Peraltro, gli autori attivi durante il secolo sono moltissimi. Come scrive Natalino Sapegno[5]

«Il Trecento è caratterizzato, a paragone del secolo precedente (in cui acquista un rilievo predominante l'esperienza della lirica d'amore, dai siciliani agli stilnovisti, riflessa in forma consapevole nella dottrina del De vulgari eloquentia), dalla straordinaria pluralità e varietà delle voci in cui si esprime il sentimento di una cultura letteraria assai più complessa e insieme più dispersiva e obbediente a molte sollecitazioni discordanti.»

La lirica

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Il valore poetico della lirica prodotta in questo secolo, senza tenere ovviamente in considerazione Petrarca, è assai scarso e, se pur si avverte lo sforzo di conservare lo stile del dolce stil novo, si avverte che essa è «svuotata della sua sostanza più intima».[6]

A distinguersi tra i numerosi rimatori aulici di questo periodo sono, a inizio secolo, il pisano Fazio degli Uberti - per le canzoni politiche e soprattutto per le rime d'amore nelle quali si mescola l'influsso della poesia stilnovistica, provenzale, petrarchesca e di quella delle rime pietrose di Dante -, il padovano Matteo Correggiaio e, sul finire del secolo, il fiorentino Cino Rinuccini, la cui poesia risente dell'influsso di Dante, oltre che del modello petrarchesco.

Tra i vari rimatori di questo periodo molti sono i rimatori di corte, soprattutto nell'Italia settentrionale, che possiedono scarsa ispirazione e poca cultura, che errano da un signore all'altro mettendo al loro servizio la poesia non tanto corredata da sentimenti profondi ma da propositi di adulazione.

Tra questi rimatori si distingue Antonio Beccari di Ferrara, del quale ci sono giunte alcune rime di carattere amoroso e politico, tre frottole di stile giullaresco e alcune liriche di stile confessionale, e Francesco di Vannozzo di Padova che visse nella seconda metà del secolo presso alcune corti, come quella dei Carraresi, degli Scaligeri e dei Visconti e che ci ha lasciato tra le sue rime politiche otto sonetti sotto il nome di Cantilena pro comite Virtutum, alcune rime autobiografiche a carattere di confessione, quattro frottole e alcuni sonetti d'amore che, pur riprendendo lo stile petrarchesco in modo grossolano, non mancano di freschezza di sentimenti.

La letteratura in prosa e in versi

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Anche nella seconda metà del XIV secolo Firenze rimane un centro di viva cultura dove fiorisce una letteratura in prosa e in versi più che altro di genere confessionale, fatto di riflessioni, di aneddoti e di ammonimenti. Tra gli autori degni di essere menzionati c'è il campano Antonio Pucci che ci ha lasciato, in una metrica popolare e dal lessico brioso, una vasta e varia opera che comprende sonetti, serventesi quaternari, capitoli e cantari che possiedono «una vena ingenua e fresca di poesia e una certa attitudine a risentire e riprodurre i semplici affetti del popolo in mezzo al quale e per il quale scriveva».[7] In Pucci si ravvisa l'influenza di Dante, il cui culto è ormai molto vivo in Toscana e non solo, come dimostrano i numerosi commentari alla Commedia che fioriscono in questo periodo.

Fiorisce anche in questo periodo e sempre a Firenze un nuovo genere di poesia per musica che si esprime nella forma della ballata, del madrigale e della caccia. A questa si accosta l'opera di Ser Giovanni Fiorentino, che è stato identificato da Pasquale Stoppelli in un giullare, Giovanni di Firenze, con il nome di "Malizia Barattone".[8] Le sue ballate rappresentano la parte più riuscita della sua opera intitolata Il Pecorone, una raccolta di novelle di ispirazione boccaccesca.

Ma tra gli scrittori che si avvicinano in questi anni a questi due nuovi generi letterari, il più significativo è il fiorentino Franco Sacchetti tra le cui opere risaltano Il libro delle rime e Il Trecentonovelle, «nel quale l'autore svela doti sicure di scrittore: abilità nello schizzare, se non "personaggi" a tutto tondo, almeno macchiette vivaci; sicurezza nel descrivere scene di folla, di confusione, di tumulto; scioltezza di una sintassi popolareggiante; compiacimento per una lingua quanto mai viva e sapida, colta felicemente da tutti gli strati linguistici».[9]

La letteratura devota

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Stimmate di Santa Caterina da Siena, Domenico Beccafumi, 1515 circa

Durante tutto il Trecento fiorisce anche un'abbondante letteratura religiosa che si esprime sotto forma di prediche, trattati, lettere devote, laude, sacre rappresentazioni e opere di carattere agiografico. Molti di questi testi vengono scritti in Toscana, con una lingua semplice e lineare.

In questo periodo vengono pubblicati molti volgarizzamenti di opere religiose e morali in latino, che consentono a un pubblico più ampio di accedere a questi testi. I concetti religiosi vengono inoltre semplificati e ridotti all'essenziale. Lo scopo di questi volgarizzamenti non era infatti ridurre il distacco tra cultura ecclesiastica e religiosità popolare, ma piuttosto di accentuarla, relegando ai fedeli una materia semplificata basata sull'esteriorità e sulla paura dell'aldilà.[10]

La letteratura domenicana e francescana

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Tra gli scrittori religiosi del Trecento si ricordano nell'ambito della tradizione domenicana il frate Jacopo Passavanti, che raccolse in un trattato dal titolo Specchio di vera penitenza tutte le prediche che aveva tenuto nel 1354 durante il periodo della quaresima, e Domenico Cavalca autore delle Vite dei Santi Padri e di numerosi testi latini, oltre che di sonetti, laude e serventesi.

In ambito francescano si trovano i Fioretti di San Francesco, composti da un autore toscano anonimo. Consiste in una raccolta di leggende che riguardano la vita del santo tradotte e ridotte i termini di favole dal carattere popolare da un testo latino redatto nelle Marche risalente alla fine del XIII secolo dal titolo Actus beati francisci et sociorum eius.

Caterina da Siena

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Un posto significativo occupa Caterina da Siena (Siena 1347 - Roma 1380), suora terziaria domenicana, della quale ci sono pervenute 381 Lettere e il Dialogo della Divina Provvidenza, che furono scritti dai suoi discepoli sotto dettatura con uno stile che «coniuga i modi dello stile biblico e della letteratura sacra con l'immediatezza e l'impressionismo di un linguaggio popolare».[11]

Di temperamento mistico, Caterina ha svolto un'intensa attività di assistenza tra i poveri e si è impegnata anche sul piano politico. In particolare, si è battuta per la riforma della Chiesa e per il ritorno del papa a Roma. È stata inoltre al centro di un gruppo di allievi e letterati, per i quali ha rappresentato un punto di riferimento.[12]

Nell'ambito della produzione laudistica trecentesca, si distingue Bianco da Siena, contemporaneo e concittadino di Caterina da Siena, e autore di numerose laude.

La storiografia

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La storiografia in volgare rispecchia i caratteri principali della civiltà del Trecento con le sue storie o cronache che[13]

«escono fuori dai confini angusti e aridi della cronachistica medievale, dove così scarsi sono la comprensione e la scelta dei fatti, la cura dei nessi logici, il rilievo dei caratteri individuali... lucido specchio d'una civiltà, nella quale la lotta politica è più varia, mobile e appassionata, le relazioni commerciali più intense, la cultura sempre più ampia ed aperta.»

I più noti cronisti in volgare di questo periodo sono i due scrittori fiorentini Dino Compagni e Giovanni Villani rispettivamente autori, il primo, della Cronica delle cose occorrenti ne' tempi suoi, dove racconta le vicende a partire dal 1280 fino al 1312 e il secondo di una Nova Cronica divisa in dodici libri di cui i primi sei vanno dalla torre di Babele alla discesa in Italia di Carlo d'Angiò e gli altri sei dal 1265 al 1348.

Dino Compagni

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Degna di nota è la Cronica delle cose occorrenti ai tempi suoi di Dino Compagni, nella quale vengono narrati gli avvenimenti di Firenze tra il 1280 e il 1312.

Nato a Firenze prima del 1260 e morto nel 1324, Dino Compagni ha partecipato intensamente alla vita politica della città, ricoprendo più volte la carica di priore. Dopo la venuta di Carlo di Valois e la vittoria del Neri ha tenuto una posizione defilata, pur continuando a far sentire la sua voce. A lui si devono alcune rime di scarso valore e soprattutto la Cronica, scritta dopo il 1310, dopo la caduta dei Bianchi e l'arrivo in Italia di Arrigo VII.

Nel narrare gli avvenimenti storici Compagni dimostra la sua grande passione politica. Il racconto non esclude però elementi moralistici: come Dante, anch'egli considera la travagliata situazione della città come una punizione divina e una conseguenza delle malefatte dei suoi cittadini.[14]

Giovanni Villani

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Statua dedicata a Giovanni Villani nella Loggia del Mercato Nuovo a Firenze

Oltre a Compagni, un altro importante autore di cronache del periodo è Giovanni Villani. Nato a Firenze alla fine del XIII secolo e morto di peste nel 1348, guelfo di parte Nero, ricopre vari incarichi pubblici. La decisione di scrivere la sua Cronaca viene fatta risalire a un viaggio a Roma in occasione del Giubile del 1300: rimasto impressionato dalla grandiosità della città eterna, Villani concepisce il proposito di scrivere una cronaca di Firenze, considerata «figlia prediletta di Roma». Il lavoro inizierà nel 1308 e durerà fino alla morte dell'autore. A proseguire l'opera saranno il fratello Matteo e, dopo la sua morte nel 1363, il nipote Filippo.

La Cronaca di Villani segue un modello medievale: inizia dalla torre di Babele e prosegue con vari episodi tratti dalla Bibbia e dai classici, fino ad arrivare ai suoi giorni. Mano a mano che la narrazione tocca fatti contemporanei all'autore, il discorso diventa più concreto e ricco di dettagli sulla vita di quei tempi. Questo fa della sua Cronaca un esempio di commistione tra il modello antico e quello nuovo: la visione provvidenziale, tipica del Medioevo, si unisce con gli spunti provenienti dalla civiltà comunale.[15]

Note

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  1. Mario Sansone, Storia della letteratura italiana, Milano, Principato, 1960, p. 75.
  2. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2001, pp. 126-127.
  3. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2001, p. 130.
  4. Rosanna Bisacca e Maria Paolella, L'Altra Biblioteca, Torino, Lattes, 2000, p. 226.
  5. Natalino Sapegno, Introduzione ai Poeti minori del Trecento, in Pagine di storia letteraria, Palermo, Manfredi, 1960, pp. 197-200.
  6. Natalino Sapegno, Compendio di storia della letteratura italiana. Dalle origini alla fine del Quattrocento, Firenze, La Nuova Italia, 1956, p. 253.
  7. Natalino Sapegno, Compendio di storia della letteratura italiana. Dalle origini alla fine del Quattrocento, Firenze, La Nuova Italia, 1956, p. 260.
  8. Pasquale Stoppelli, Malizia Barattone (Giovanni di Firenze) autore dell'opera Il Pecorone, in Filologia e critica, II, 1977, pp. 1-34.
  9. Giuseppe Petronio, L'attività letteraria in Italia, Palermo, Palumbo, 1969, p. 170.
  10. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2001, p. 137.
  11. Roberto Mercuri, La letteratura del Trecento in Toscana, in Letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2007, p. 570.
  12. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, L'età cortese e comunale, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, p. 83.
  13. Natalino Sapegno, Compendio di storia della letteratura italiana. Dalle origini alla fine del Quattrocento, Firenze, La Nuova Italia, 1956, p. 282.
  14. Giuseppe Petronio, L'attività letteraria in Italia, Palermo, Palumbo, 1969, p. 66.
  15. Giuseppe Petronio, L'attività letteraria in Italia, Palermo, Palumbo, 1969, pp. 66-67.