Giovanni Boccaccio (superiori)

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Giovanni Boccaccio (superiori)
Tipo di risorsa Tipo: lezione
Materia di appartenenza Materia: Letteratura italiana per le superiori 1
Avanzamento Avanzamento: lezione completa al 75%

Giovanni Boccaccio è il primo grande scrittore italiano che usò in campo della prosa il volgare italiano. Le sue opere sono caratterizzate da un'esplicita consapevolezza teorica. Amico del più vecchio Petrarca e grande studioso di Dante, nella sua vita si impegnò, oltre che nella scrittura, nella costante ricerca e trascrizione di opere classiche.

La vita[modifica]

Della sua vita ci rimane un'autobiografia di dubbia attendibilità, abbiamo poche informazioni soprattutto sulla sua infanzia. Dopo tutto è possibile ricostruire la sua vita, che si può suddividere in sei fasi:

  • infanzia fiorentina (1313-1327)
  • adolescenza napoletana (1327-1340)
  • primo decennio di attività fiorentina (1340-1350)
  • secondo decennio di attività fiorentina (1350-1360)
  • ritiro a Certaldo (1360-1365)
  • ultimo decennio fiorentino-certaldese (1365-1375)

Infanzia fiorentina (1313-1327)[modifica]

Nacque presso Firenze o Certaldo all'estate (tra giugno e luglio) del 1313, un periodo in cui andava affermandosi il ceto mercantile. Egli stesso era un figlio illegittimo di un mercante, Boccaccino di Chelino, che lo riconosce e gli avvia gli studi e la carriera mercantile. Matura per la poesia dantesca una grande passione, contrariamente alla volontà del padre, che lo voleva avviare agli studi per farlo diventare mercante.

Giovinezza napoletana (1327-1340)[modifica]

Nel 1327 si trasferisce a Napoli, dove l'occupazione di commesso al banco sollecita in lui un penetrante spirito di osservazione. La scelta dello spostamento è dovuto al padre, che era un collaboratore di Bardi, un banchiere della corte angioina. Boccaccio inizia a fare pratica con l'attività di banchiere, ma non ha alcun interesse per la mercatura deludendo molte volte il padre, che decide poi di iscriverlo all'università di diritto canonico da Cino da Pistoia. Comunque la sua formazione umana va arricchendosi tra le esperienze nell'ambiente mercantile e la pratica dei testi latini e mediolatini reperiti nella biblioteca regia degli Angioini, e col maestro Cino da Pistoia ne approfitta per studiare le lettere e la produzione volgare. Inizia a scrivere le sue prime opere usando sia il latino, sia il volgare, che viene prediletto. Le opere in volgare che compone tra il 1333 ed il 1340 sono Rime, Filoloco, Filostrato, Teseide. Molte delle sue opere hanno un titolo in greco, egli è uno dei pionieri delle studio di questa lingua e la apprende da monaco Barlaam.

Primo decennio di attività fiorentina (1340-1350)[modifica]

Nel 1340 torna a Firenze, una volta che il padre ha terminato la collaborazione con Bardi. A Giovanni il ritorno non è accolto molto piacevolmente. A Firenze scrive la Commedia delle Ninfe o Ninfale d'Ameto, l'Amorosa vosione, l'Elegia di Madonna Fiammetta, e il Ninfale fiesolano. Attorno al 1348, per il poeta un periodo di intensa produzione letteraria, si diffonde anche a Firenze la peste, sulla quale è incentrato il Decameron (composto tra il 1349 e il 135i), la sua opera che ha ottenuto maggiore successo oggi. Per la peste muore suo padre, la sua matrigna Bice (seconda moglie di Boccaccino), e altri amici di Giovanni. Nel 1351 incontra Petrarca, dieci anni più grande di lui.

Secondo decennio di attività fiorentina (1350-1360)[modifica]

Grazie all'amicizia instaurata con Petrarca gli interessi umanistici diventano sempre più forti. Ottiene poi cariche prestigiose dal comune di Firenze. La sua voglia di ritornare a Napoli continua a persistere, tanto che riesce a trasferirsi grazie all'aiuto di Niccolò Acciaiuoli e diventa segretario di corte. Visitando le biblioteche trascrive alcuni codici.

Egli approfondisce le proprie conoscenze del greco antico grazie al maestro Lorenzo Pilato, che tradusse alcuni libri dei poemi omerici e commentò Euripide e Aristotele. Boccaccio accoglie a proprie spese Pilato in casa.

Giovanni scrive in latino De casibus virorum illustrium, De montibus, silvis, fontibus... et de nominibus mari liber e in volgare il Trattatello in laude di Dante. Inoltre riceve da Innocenzo VI risorse economiche.

Ritiro a Certaldo (1360-1365)[modifica]

Nel 1360 si ritira a Certaldo essendo esonerato dalle cariche pubbliche. Continua a scrivere in latino De mulieribus claris, Gaenealogia deorum gentilium e in volgare il Corbaccio, che rileva un cambio di rapporto con le donne, da un approccio filogino passa a uno misogino.

Ultimo decennio fiorentino-certaldese (1365-1375)[modifica]

La città di Firenze ricomincia ad affidare a Boccaccio degli incarichi, tra cui quello di convincere il papa Urbano V a ritornare da Avignone a Roma. Inizia a soffrire di scabbia e di obesità, ma nonostante ciò accetta l'incarico di commentare la Divina Commedia di Dante. Arriva soltanto fino al XVII canto dell'Inferno.

Muore a Certaldo il 21 dicembre 1375.

Il profilo culturale di Boccaccio si delinea in tre filoni fondamentali:

  • Tradizione medievale e modelli cortesi
  • Insegnamento dantesco
  • Studi classici

Opere[modifica]

Busto del Boccaccio presso la Chiesa dei Santi Jacopo e Filippo a Certaldo

Nella produzione del Boccaccio si possono distinguere le opere della giovinezza, della maturità e della vecchiaia. La sua opera più importante e conosciuta è il Decameron.

Opere del periodo napoletano[modifica]

Per approfondire su Wikipedia, vedi la voce Opere della giovinezza di Giovanni Boccaccio.

Tra le sue prime opere del periodo napoletano vengono ricordate Filocolo (1336-38), Filostrato (1335), Teseida (1339-41), Caccia di Diana (1334/38) e le Rime (la cui composizione rimanda ad anni diversi). Tra le opere scritte durante la sua permanenza nella borghese Firenze emergono "La Comedia delle Ninfe fiorentine", "L'Amorosa visione" ed "Elegia di Madonna Fiammetta" (1343-1344).

Le opere della giovinezza riguardano il periodo compreso tra il 1333 e il 1346.

La caccia di Diana (1333–1334)[modifica]

Poemetto di 18 canti in terzine, che celebra in chiave mitologica alcune gentildonne napoletane. Le ninfe, seguaci della casta Diana, si ribellano alla dea ed offrono le loro prede di caccia a Venere, che trasforma gli animali, in bellissimi uomini. Tra questi vi è anche il giovane Boccaccio che, grazie all'amore, diviene un uomo pieno di virtù: il poemetto propone, dunque, la concezione cortese e [[../Lo stilnovo|stilnovistica]] dell'amore che ingentilisce e nobilita l'uomo.

Il Filostrato (1335)[modifica]

Il Filostrato (che alla lettera dovrebbe significare nel greco approssimativo del Boccaccio "vinto d'amore") è un poemetto scritto in ottave che narra la tragica storia di Troilo, figlio del re di Troia Priamo, che si era innamorato della principessa greca Criseida. La donna, in seguito ad uno scambio di prigionieri, torna al campo greco, e dimentica Troilo. Quando Criseida in seguito si innamora di Diomede, Troilo si dispera e va incontro alla morte per mano di Achille.

Nell'opera l'autore si confronta in maniera diretta con la precedente tradizione dei "cantari", fissando i parametri per un nuovo tipo di ottava essenziale per tutta la letteratura italiana fino al Seicento. Il linguaggio adottato è difficile, altolocato, spedito, a differenza di quello presente nel Filocolo, in cui è molto sovrabbondante.

Il Filocolo (1336-1339)[modifica]

Il Filocolo, che, secondo un'etimologia approssimativa, significa "fatica d'amore", è un romanzo in prosa, rappresentando così una svolta rispetto ai romanzi delle origini scritti in versi. La storia ha due protagonisti, Florio, figlio di un re saraceno, e Biancifiore, una schiava cristiana abbandonata da bambina. I due fanciulli crescono assieme e da grandi, in seguito alla lettura del libro di Ovidio "Ars Amandi" si innamorano, come era successo per Paolo e Francesca dopo avere letto "Ginevra e Lancillotto". Tuttavia il padre di Florio decide di separarli vendendo Biancifiore a dei mercanti. Florio decide quindi di andarla a cercare e dopo mille peripezie (da qui il titolo Filocolo=Fatica d'amore) la reincontra. Infine il giovane si converte al Cristianesimo e sposa la fanciulla.

Teseida delle nozze d'Emilia (1339-1340)[modifica]

Il Teseida è un poema epico in ottave in cui si rievocano le gesta di Teseo che combatte contro Tebe e le Amazzoni. L'opera costituisce il primo caso in assoluto nella nostra storia letteraria di poema epico in volgare e già si manifesta la tendenza di Boccaccio a isolare nuclei narrativi sentimentali, cosicché il vero centro della narrazione finisce per essere l'amore dei prigionieri tebani Arcita e Palemone, molto amici, per Emilia, regina delle Amazzoni e cognata di Teseo; il duello fra i due innamorati si conclude con la morte di Arcita e le nozze tra Palemone ed Emilia.

Opere del periodo fiorentino[modifica]

Comedia delle ninfe fiorentine (1341-1342)[modifica]

La Comedia delle ninfe fiorentine (o Ninfale d'Ameto) è una narrazione in prosa, inframmezzata da componimenti in terzine cantati da vari personaggi. Narra la storia di Ameto un rozzo pastore che un giorno incontra delle ninfe devote a Venere e si innamora di una di esse, Lia. Nel giorno della festa di Venere le ninfe si raccolgono intorno al pastore e gli raccontano le loro storie d'amore. Alla fine Ameto è immerso in un bagno purificatore e comprende così il significato allegorico della sua esperienza: infatti le ninfe rappresentano la virtù e l'incontro con esse lo ha trasformato da essere rozzo e animalesco in uomo.

Amorosa Visione (1341-1342 / 1342-1343)[modifica]

Si tratta di un poema in terzine suddiviso in cinquanta canti. La narrazione vera e propria è preceduta da un proemio costituito da tre sonetti che, nel loro complesso, formano un immenso acrostico nel senso che essi sono composti da parole le cui lettere (vocali e consonanti) corrispondono ordinatamente e progressivamente alle rispettive lettere iniziali di ciascuna terzina del poema.

La vicenda descrive l'esperienza onirica di Boccaccio che, sotto la guida di una donna gentile perviene ad un castello, sulle cui mura sono rappresentate scene allegoriche che vedono protagonisti illustri personaggi del passato. Più in dettaglio in una stanza sono rappresentati i trionfi di Sapienza, Gloria, Amore e Ricchezza, nell'altra quello della Fortuna.

Inevitabile segnalare lampanti affinità e influenza non latente con i pressoché contemporanei "Trionfi" del Petrarca. Inoltre la precisa descrizione degli affreschi ha permesso ad alcuni critici di identificare il castello boccacciano con Castel Nuovo di Napoli, affrescato da Giotto. Dopo essersi soffermato con sfoggio di erudizione sulle bellezze degli affreschi Boccaccio passa in un giardino dove incontra Madonna Fiammetta e tenta di abusare di lei nel sonno.

Il risveglio tempestivo della donna e il fatto che questa ricordi al poeta il pericolo dell'imminente ritorno della guida prevengono l'attuarsi del gesto. Di lì a poco infatti la "donna gentil" torna affermando che il poeta potrà giungere al pieno possesso dell'amata conducendo una vita improntata ai virtuosi precetti il cui apprendimento era stato scopo essenziale del viaggio.

L'opera ha diversi debiti nei confronti di Dante e della Divina Commedia, soprattutto per quanto riguarda l'esperienza della "Visio in somnis" e la guida di una "donna gentil", ma va sottolineata anche la forte tendenza all'emancipazione del Boccaccio: mentre Dante segue in tutto e per tutto i dettami di Beatrice, Boccaccio in numerosi casi si ribella al patrocinio della guida, ad esempio nel preferire la via larga della mondanità, con le sue fatue attrattive a quella stretta e impervia che conduce alla virtù. Il tono sublime contrasta con la comicità di certe situazioni (in primis l'incontro con Fiammetta) cosicché alcuni critici hanno pensato ad un intento parodico da parte del Boccaccio nei confronti del poemetto allegorico didattico.

Elegia di Madonna Fiammetta (1343-1344)[modifica]

Romanzo in prosa suddiviso in nove capitoli che racconta di una dama napoletana abbandonata e dimenticata dal giovane fiorentino Panfilo. La lontananza di Panfilo le crea grande tormento accresciuto dal fatto che Fiammetta è sposata e deve nascondere al marito il motivo della sua infelicità. L'opera ha la forma di una lunga lettera, rivolta alle donne innamorate; la lunga confessione della protagonista consente una minuziosa introspezione psicologica. La vicenda è narrata dal punto di vista della donna, un elemento assolutamente innovativo rispetto ad una tradizione letteraria nella quale la donna era stata oggetto e non soggetto amoroso: essa non viene più ad essere ombra e proiezione della passione dell'uomo ma attrice della vicenda amorosa; vi è, quindi, il passaggio della figura femminile da un ruolo passivo ad un ruolo attivo.

Il romanzo racconta di Fiammetta che incontra Panfilo in una chiesa e ne diviene subito amante; segue un periodo felice, interrotto dalla partenza dell'innamorato per Firenze. La vicenda continua con una successione di peripezie: inizialmente viene a sapere che Panfilo si è sposato per cui si rassegna alla dolorosa verità; la notizia viene smentita e l'eroina scopre che il suo amato è felicemente fidanzato con una fiorentina. Presa allora dalla gelosia tenta di uccidersi, ma la nutrice glielo impedisce. A questo punto Fiammetta tenta di consolarsi rievocando amori infelici di personaggi mitici o storici, solo per scoprirsi più misera ed infelice di loro e giungere ad una rivendicazione del primato nella sofferenza. Alla fine si viene a sapere di un prossimo ritorno di Panfilo a Napoli, ed ella ritorna a sperare.

Ninfale fiesolano (1344 -1346)[modifica]

Ninfale fiesolano è un poemetto eziologico in ottave in cui si raccontano le origini di Fiesole e Firenze: l'opera è un cordiale omaggio alla città di Firenze. Il giovane pastore Africo, che vive sulle colline di Fiesole coi genitori, sorpresa nei boschi un'adunata di ninfe di Diana, si innamora di Mensola, che, con le altre ninfe della dea, è obbligata alla castità. Vaga inutilmente a lungo alla sua ricerca. Venere, apparsagli durante il sonno, promette di aiutarlo.

Della sua sofferenza e delle nascoste ragioni di tale sofferenza si accorge il padre di Africo, che con grande affetto lo ammonisce a non cercare le ninfe, ricordandogli con una storia la terribile sorte che colpisce coloro che osano sfidare la dea. Africo e Mensola, però, con uno stratagemma riescono ad amarsi ed innamorarsi. La ninfa però, resasi conto del suo errore, e del rischio in cui stava mettendo se stessa e il suo innamorato, decide di sfuggirgli. Africo, disperato, si uccide e il suo sangue cade nel fiume che poi assumerà il suo nome. La ninfa però è incinta, e nonostante si sia nascosta in una grotta, aiutata dalle ninfe più anziane, viene un giorno scoperta da Diana, che la trasforma nell'acqua del fiume che da quel giorno in poi assumerà il suo nome. Il bambino viene invece affidato ad una vecchia ninfa che lo consegnerà alla madre del povero pastore.

Verrà chiamato Pruneo e sarà il reggitore della città di Fiesole, fondata da Atlante, e il capostipite di una famiglia che sarà destinata a mischiarsi con i cittadini di Firenze. Con elegante semplicità riprende le cadenze e le formule linguistiche del "cantare" popolare toscano, a cui sovrappone fitti motivi di derivazione classica, specialmente da Ovidio. Non vi è l'erudizione che caratterizza le altre opere fiorentine; non ci sono allegorie. L'amore e il desiderio sono considerati sentimenti naturali che, per contrasto, fanno apparire barbare le ferree leggi della dea Diana che impone la castità alle ninfe.

Il Decameron (1348 - 1351)[modifica]

I protagonisti del Decameron in un dipinto di John William Waterhouse, A Tale from Decameron, 1916, Lady Lever Art Gallery, Liverpool

La sua opera maggiore è il Decameron, il primo libro di novelle della letteratura europea. Volto ad alleviare le pene amorose delle fanciulle, contiene cento novelle, dieci al giorno per dieci giorni (da qui il titolo, dal greco deka, "dieci", ed hemérai, "giorni"), ognuna introdotta da una rubrica, narrate da dieci giovani (sette ragazze e tre ragazzi, di cui ognuno ogni giorno sceglieva il tema delle novelle per quel giorno) rifugiati a Fiesole per sfuggire alla peste di Firenze, che fa da cornice all'intera opera.

Per cornice si intende un racconto entro il quale si sviluppano le cento novelle, fornendo loro un contesto; la cornice del Decameron fornisce una descrizione della peste fiorentina del 1348 che l'autore ha vissuto in prima persona e da cui è rimasto sconvolto sia per l'orrore della morte sia per il decadimento di tutti i valori civici e morali dei cittadini. L'antitesi di tutto questo si rispecchia nella vicenda della brigata in fuga a Fiesole (descritta come locus amoenus), simbolo di rinnovamento di tutto ciò che in città stava andando perduto. Così alla confusione fiorentina si contrappone l'ordine, nella pianificazione delle giornate, come nei re e regine che a turno scelgono il tema delle novelle; il periodo di convivenza, seppur all'insegna del diletto, diviene esemplare sotto il profilo etico, morale e virtuoso. Questo è il secondo fine dell'opera, l'utile, mentre il primo era quello dilettevole.

La lingua utilizzata è il volgare fiorentino, a volte affiancato da espressioni di altri dialetti italiani. Stile e registro sono molto vari, tuttavia i più utilizzati sono il comico e il realistico.

In accordo con l'epoca in cui fu scritto, dove sempre maggior rilievo assumeva il ruolo dei mercanti, nella società del Decameron predominano le capacità personali rispetto alla posizione sociale: ogni personaggio, anche se di bassa estrazione sociale, può riscattare se stesso con la sua intelligenza e abilità, spesso usate come strumento di affermazione personale: nasce in questo modo la beffa, una storia falsa architettata per raggiungere un'utilità pratica. Ricorrenti sono inoltre i temi del viaggio e dell'avventura e, immancabile, la denuncia della corruzione, malvagità e ipocrisia del clero, evidenziando come la profonda spiritualità della fede fosse ottenebrata da superstizione, idolatria e falsi miracoli.

Struttura[modifica]

Il Decameron ha per sottotitolo Il principe Galeotto (ad indicare la funzione che il libro avrà di intermediario tra amanti) e il cui titolo fu ricalcato dal trattato Hexameron di sant'Ambrogio. Il libro narra di un gruppo di giovani (sette ragazze e tre ragazzi) che, durante l'epidemia di peste del 1348, incontratisi nella chiesa di Santa Maria Novella, decidono di rifugiarsi sulle colline presso Firenze. Per due settimane, l'«onesta brigata» si intrattiene serenamente con passatempi vari, e in particolare raccontando a turno le novelle. Poiché il venerdì e il sabato non si narrano novelle, queste, disposte in un periodo di dieci giorni come indica in greco il titolo dell'opera: Ta tòn deca emeròn biblìa, ossia I libri (Ta biblìa) delle (tòn) dieci (deka) giornate (emeròn). Quindi il libro è composto da cento novelle narrate dai dieci protagonisti, più una narrata da Boccaccio stesso nell'introduzione alla IV giornata.

I nomi dei dieci giovani protagonisti sono Fiammetta, Filomena, Emilia, Elissa, Lauretta, Neifile, Pampinea, Dioneo, Filostrato e Panfilo. Ogni giornata ha un re o una regina che stabilisce il tema delle novelle; due giornate però, la prima e la nona, sono a tema libero. L'ordine col quale vengono decantate le novelle durante l'arco della giornata da ciascun giovane è prettamente casuale, ad eccezione di Dioneo (il cui nome deriva da Dione, madre della dea Venere), che solitamente narra per ultimo e non necessariamente sul tema scelto dal re o dalla regina della giornata, risultando così essere una delle eccezioni che Boccaccio inserisce nel suo progetto così preciso e ordinato.

Temi[modifica]

L'opera presenta invece una grande varietà di temi, di ambienti, di personaggi e di toni; si possono individuare come centrali i temi della fortuna, dell'ingegno, della cortesia, dell'amore. Le novelle sono inserite, come si è detto, in una cornice narrativa, di cui costituiscono passi importanti il Proemio e l'Introduzione alla prima giornata, con il racconto della peste, e la Conclusione che offre la risposta dell'autore alle numerose critiche che già circolavano sulla sua opera. La sua originalità ha però avuto seguaci nella storia della letteratura, anche europea.

Riguardo alle sue censure, nonostante fosse stato considerato un testo proibito (ciò fin dal 1559), con l'introduzione della stampa il capolavoro del Boccaccio divenne uno dei testi più stampati; intorno al Cinquecento il cardinale Pietro Bembo lo definì il modello perfetto per la prosa volgare.

Stile[modifica]

Dal punto di vista stilistico, presenta un eccellente gioco di simmetrie nel quale rientrano per analogia alcune delle tematiche predilette dal Boccaccio, come per esempio l'amore, la beffa, la fortuna, le peripezie. In particolare già nelle stesse novelle narrate si possono comprendere alcune concezioni dello stesso autore, ma contemporaneamente anche le relazioni tra gli stessi membri della brigata, spesso segnati da interessi amorosi o rivalità.

Opere della vecchiaia[modifica]

Per approfondire su Wikipedia, vedi la voce Opere della vecchiaia di Giovanni Boccaccio.

Il Corbaccio (o Laberinto d'amore) viene inizialmente datato tra il 1354 e il 1356, calcolando l'età del protagonista (quindi Boccaccio) basandosi sul passo. viene cioè effettuato il calcolo della stesura del Corbaccio sommando quarantuno anni (viene aggiunto un anno perché è l'età alla quale non si è più in fasce) all'anno di nascita di Boccaccio. Il filologo Giorgio Padoan però espone diverse e valide critiche al metodo utilizzato per la datazione dell'opera posticipando al 1365 o 1366 valutando la similitudine con le altre opere di quegli anni, in particolare le Esposizioni sopra la Comedia. Riguardo al titolo, il significato di Corbaccio non è mai stato del tutto chiarito, molti studiosi avvalorano la tesi che possa provenire da corvo, viste le molteplici analogie fra l'animale, che prima mangia gli occhi delle proprie vittime per poi cibarsi del cervello, e l'amore che rende prima ciechi e poi privi di senno.

La narrazione è incentrata sull'invettiva contro le donne. Il poeta, illuso e rifiutato da una vedova, sogna di giungere in una selva (che richiama il modello dantesco) nella quale gli uomini che sono stati troppo deboli per resistere alle donne vengono trasformati in bestie orribili: il Laberinto d'amore o il Porcile di Venere. Qui incontra il defunto marito della donna che gli ha spezzato il cuore, il quale dopo avergli elencato ogni sorta di difetto femminile, lo spinge ad allontanare ogni suo pensiero da esse lasciando più ampio spazio ai suoi studi, che invece innalzano lo spirito.

Questa satira si basa in particolare sulla concezione medievale, e tutto il pensiero giovanile del Boccaccio viene capovolto. Soprattutto nel Decameron, infatti, l'amore era visto al naturale, come forza positiva e incontrastabile e quelle opere stesse erano dedicate proprio alle donne, un pubblico non letterato da allietare con opere gradevoli; ora invece l'amore è visto come causa di degrado e le donne sono respinte in nome delle Muse, emblema di una letteratura più elevata e austera. Questo capovolgimento è da attribuire in particolar modo ai turbamenti religiosi propri di Boccaccio negli ultimi periodi della sua vita e il trasporto maggiore che egli ebbe per una letteratura di alto livello, i cui destinatari non potevano che essere solo ed esclusivamente dotti.

Note[modifica]

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