Genova vista da illustri viaggiatori

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Approfondimento
Dipartimento di Studi umanistici





Genova vista dal giardino del Palazzo del Principe, residenza di Andrea Doria, in un'incisione della prima metà del XIX secolo del francese Audot
(LT)

«Ianuensis, ergo mercator»

(IT)

«Genovese, dunque mercante»

(Poeta anonimo del XII secolo)

La città di Genova, come molte altre località italiane ricche di fascino e di storia, è stata visitata, raccontata, amata e talvolta anche criticata da numerosi viaggiatori illustri. Le sue strade, le sue fontane, i suoi palazzi, le sue gallerie d'arte hanno destato lo stupore di molti di essi. Talvolta ne hanno registrato anche il disappunto ma, più spesso, anche una celebrazione la più sfacciatamente iconografica se non improbabile.

Caratterizzata da un'orografia irregolare ed ampia e priva, perciò, di uno scenario che la faccia somigliare ad una cartolina illustrata – e con un territorio solo parzialmente modificato dalla mano dell'uomo in maniera tale da farla divenire un'inaccessibile città-fortezza - la città sembra avere fatto leva, per suggestionare i suoi ospiti, più sulle proprie contraddizioni che non sulle proprie peculiarità.

Quello che segue[1] è, dunque, uno spaccato di storia della città - e dei suoi abitanti - vista ai raggi X attraverso il racconto vivo, la poesia, talvolta la cronaca, dei viaggiatori illustri che l'hanno visitata respirando l'aria dei caruggi del suo centro storico fra Sottoripa ed il Molo, frequentando o abitando le lussuose ville della collina di Albaro, passeggiando per il Parco dell'Acquasola o ammirando i sontuosi palazzi di Strada Nuova.

«... Signora, questo desiderio - di santità - deve essere in voi come gli aranci della riviera di Genova che sono quasi tutto l'anno carichi di frutti, di fiori e di foglie ad un tempo...»

(Francesco di Sales, 3 maggio 1604, lettera a Jeanne de Chantal)

Turisti di buona memoria[modifica]

[[File:Genova-Persone.jpg|thumb|All'ombra del pronao del Teatro Carlo Felice

(LIJ)

«Umbre de muri muri de mainé / dunde ne vegnì duve l'è ch'ané»

(IT)

«Ombre di facce facce di marinai / da dove venite dov'è che andate»

(Fabrizio De André, Creuza de mä, 1984)

"Ho ricordato, lo confesso, i versi di Montesquieu sul piacere di lasciare Genova e il famoso proverbio italiano: "Mare senza pesci, donne senza bellezza, ecc. ecc.", scriveva Stendhal in Memorie di un turista (1837).

Una storia, quella del capoluogo ligure, scritta sui luoghi comuni che da sempre la accompagnano, ma - soprattutto - scolpita nei palazzi, nelle strade e nelle peculiarità degli abitanti che questi palazzi e strade hanno reso vivi con le febbrili attività delle rispettive sfere sociali.

[[File:Stendhal.jpg|thumb|left|upright=0.6|Stendhal]] Negli scritti consegnati al tempo, si può osservare come molti autori abbiano preferito riferire o, meglio, riferirsi alle persone piuttosto che ai luoghi che hanno fatto e fanno tuttora di Genova una città per certi versi unica, quasi per permettere di catturare una chiave di lettura originale che meglio aiuti a comprendere il perché - ma anche il come - di tante e tali bellezze frutto dell'ingegno e dell'arte dell'uomo, tutte assieme radunate.

Se per Cechov Genova è - lapidariamente - la città più bella del mondo (nelle parole di un personaggio del suo lavoro teatrale Il gabbiano), più sofferto deve essere stato l'approccio con la città per Nietzsche, secondo il quale Genova poteva essere paragonata a un sud che ha perso i colori e che nell'aprile del 1888 raccontava, scrivendo all'amico Peter Gast, di essersi aggirato [in città] come un'ombra fra i ricordi.

Rendo grazie alla sorte - aggiungeva poi - che mi ha fatto capitare in quella dura, austera città durante gli anni della "décadence". Per concludere subito dopo: Quando uno va a Genova è ogni volta come se fosse riuscito ad evadere da sé: la volontà si dilata, non si ha più coraggio di essere vili. Mai ho sentito l'animo traboccante di gratitudine, come durante questo mio pellegrinaggio attraverso Genova.

Dalle pagine di La mort hereuse (opera minore di Albert Camus) ai lavori dei letterati e dei viaggiatori alle prese con il Grand Tour, la città ligure (scarsa lingua di terra che orla il mare, per Camillo Sbarbaro) emerge comunque mai banale, priva di fascino, forse in virtù di quel senso di altezzosa alterigia mista a trasandatezza che ancor oggi la caratterizza.

Donne genovesi e marinai di tutti i mari[modifica]

Mark Twain, in Innocenti all'estero, 1867:

«Mi piacerebbe restare qui, preferirei non procedere oltre. Può darsi che vi siano in Europa donne più graziose, ma io ne dubito. La popolazione di Genova è di centoventimila anime: di queste, due terzi sono donne, e almeno due terzi delle donne sono belle; ben vestite, fini, leggiadre quanto si può senza essere angeli. Gli angeli, però, non sono molto ben vestiti, mi pare: almeno quelli dei dipinti: non hanno che le ali.»

Immagine di donna genovese intenta all'arte del ricamo

E ancora:

«... queste donne genovesi sono incantevoli. La più gran parte di queste damigelle sono vestite di una bianca nube dalla testa ai piedi, sebbene molte si adornino in una maniera più complicata. Nove su dieci non hanno sul capo null'altro che un sottilissimo velo ricadente sulle spalle a guisa di bianca nebbia. Hanno capelli biondissimi e molte di loro occhi azzurri, ma più spesso si vedono occhi neri e sognanti occhi castani ...»

Nello scorrere del breve brano di prosa è racchiuso probabilmente il senso della bellezza mediterranea delle donne genovesi di metà Ottocento, coi loro vestiti ampi, il capo coperto da veli o talvolta, nelle fasce più popolari, mezeri multicolori di foggia mediorientale.

Ma Twain aiuta ancora a meglio conoscere e capire Genova, attraverso lo studio dei suoi abitanti, ampliando il suo punto di osservazione:

«Le signore e i gentiluomini di Genova hanno la piacevole abitudine di passeggiare in un ampio parco in cima a una collina al centro della città [ nota: il parco a Spianata dell'Acquasola ] dalle sei alle nove di sera; e quindi, per un altro paio d'ore, di prendere il gelato in un giardino adiacente.»

Nel medesimo anno, e più genericamente, Aleksandr Herzen poteva così stupirsi:

«I genovesi [...] è difficile osservarli: vi guizzano di continuo davanti agli occhi, corrono, si affacendano (sic), scorazzano (sic) di qui e di là, si affrettano. I vicoli verso il mare brulicano di gente, ma quelli che stanno fermi non sono genovesi, sono marinai di tutti i mari e di tutti gli oceani ...»

(da Passato e pensieri, 1867)

Marmo e ardesia: i palazzi di una città "solida"[modifica]

«Genova è la città di marmo»

(Vicente Blasco Ibanez, Nel paese dell'arte, 1896)

Nella Genova dei secoli scorsi - che doveva apparire, ai visitatori che la approcciavano tanto dal mare quanto da terra, come una austera nobildonna e una inespugnabile fortezza moresca al tempo stesso - i colori dominanti erano tre: il bianco, il grigio e il nero. Il bianco dei marmi splendenti delle sue chiese e dei suoi palazzi, ma anche delle statue che adornavano cortili e scalinate delle dimore destinate a diventare storiche e che ancor oggi punteggiano il percorso che si snoda dalla piazza delle Fontane Marose fino alla via Balbi, passando per l'attuale via Garibaldi, già Via Aurea. Il grigio delle costruzioni di solida pietra nelle quali i membri dell'oligarchia cittadina decidevano di volta in volta le forme di governo da adottare nella Repubblica di Genova. E, infine, il nero dell'ardesia, la pietra della vicina Val Fontanabuona che serviva per realizzare impenetrabili coperture e levigate scalinate. Solo qua e là facevano capolino le macchie rosse di case destinate al popolino ed edificate su semplici mattoni a vista, una forma di edilizia peraltro scarsamente usata anche nella Genova medievale.

Genova è la città dei contrasti, dei grandi palazzi e dei miseri "carruggi", scriveva nel 1896 lo scrittore spagnolo Vicente Blasco Ibanez. Per aggiungere poi:

«In alto, sulla cima delle colline, giardini lussureggianti, ville marmoree, veri nidi d'amore che fanno ricordare i voluttuosi alberghetti francesi del tempo della Reggenza; in basso, vicino al porto, quartieri che sono veri ghetti con viuzze strette e sotterranee, dove le grondarie si toccano e tre persone non possono camminare fianco a fianco per la rapida discesa dell'acciottolato.»

E più avanti:

«In nessuna parte d'Italia, né del mondo, si è usata tanto, sino all'abuso, questa pietra [il marmo], preziosa e carissima in altri paesi, ma qui trattata col disprezzo dell'abbondanza fino al punto da servire molte volte per acciottolare le strade [...] A notte inoltrata, quando l'illuminazione pubblica incomincia a venir meno, queste strade strette, con le loro pareti di marmo che sembrano risalire fino alle stelle che occhieggiano, ricordano al passante le sconvolte gallerie di una cava nella quale il piccone ha tracciato capricciosamente profili e rilievi: alla luce del sole queste ferite sono prodigi d'arte. Le antiche glorie della Repubblica genovese, la potenza che le dettero i suoi marinai e commercianti si rivela in questi grandi palazzi che erano abitati dai patrizi liguri, quelle famiglie che, con intrighi e cospirazioni, si disputavano le cariche di doge o di capitano della Repubblica ... Quarantasette palazzi, tutti splendidi nel loro interno, e tutti di marmo dalle fondamenta all'ultima balaustra, si contano nelle quattro vie che costituiscono la spina dorsale della città.»

Mark Twain

Ancora Twain [cit.]:

«La "Superba", la "città dai bei palazzi", sono da secoli gli appellativi di Genova. Certo essa è piena di palazzi, e questi dentro sono sontuosi ma esternamente molto malandati e senza pretese di grandiosità architettonica. "Genova la Superba", sarebbe un titolo indovinato se si riferisse alle donne. Di palazzi ne abbiamo visti parecchi: immensi molti dagli spessi muri, con grandi scalinate di pietra, pavimenti tassellati di marmo (talvolta lavori a mosaico, di disegno complicato, ornati di cristalli di rocca o di piccoli frammenti di marmo fissati con il cemento) e grandiosi saloni con alle pareti dipinti di Rubens, Guido Reni. Tiziano, Paolo Veronese, ecc., e ritratti di capostipiti della famiglia in elmi piumati e splendide armature, e di patrie in stupefacenti vestiti di secoli fa.»

L'autore de Le avventure di Tom Sawyer, a questo punto, non risparmia una tirata ai padroni di casa, che naturalmente - scrive - sono tutti in campagna per l'estate (aggiungendo poi, modesto: e se fossero stati qui, probabilmente non ci avrebbero conosciuti abbastanza per invitarci a pranzo).

Sigmund Freud

Sigmund Freud, che abitò a Rapallo, sulla riviera ligure di levante nel 1905, scriveva, in una lettera datata 17 settembre:

«Genova la conosci: è imponente, solida, quasi altera, pulita, benestante; notevolissima è la diffusione della lingua tedesca negli alberghi e nei negozi ... vi sono più insegne tedesche a Genova che a Trieste o a Praga ... Alla fine della settimana ritornerò, avendo consumato buona parte dei miei onorari editoriali, presto vedrò l'ultimo olivo, l'ultima magnolia e così via ...»

Da notare che due anni dopo, nel 1907, in Psicopatologia della vita quotidiana lo stesso Freud darà conto di una conversazione su Genova e i suoi dintorni avuta con un giovanotto che vuole nominare anche la località di Pegli ma riesce a ricordare questo nome soltanto dopo lunghi sforzi e solo grazie a fortuite assonanze fonetiche con un nome similare letto su un libro.

Genova vista dai poeti (con consigli da Flaubert)[modifica]

Cantata da poeti d'ogni nazionalità, fu definita da Francesco Petrarca regale, addossata a una collina alpestre, superba per uomini e per mura. Il suo solo aspetto era in grado di indicarla Signora del mare.

Oscar Wilde (la cui moglie, Constance Lloyd è sepolta a Staglieno) gli dedicò la sua Settimana Santa a Genova (1878), mentre Dino Campana le intitolerà un pezzo dei suoi Canti Orfici (Sotto la torre orientale, / ne le terrazze verdi ne la lavagna cinerea / Dilaga la piazza al mare che addensa le navi inesausto / Ride l'arcato palazzo rosso dal portico grande: / Come le cateratte del Niagara / Canta, ride, svaria ferrea la sinfonia feconda urgente al mare: / Genova canta il tuo canto!) - la città ligure affascinò in modo particolare uno scrittore raffinato e acuto come Gustave Flaubert.

Nel 1845 l'autore di Madame Bovary condensò la sua esperienza genovese in una raccolta di lettere che bene rende conto del suo sentimento verso la città ligure:

«Da Voltri a Genova si vedono sempre case, tutto annuncia una grande città. Presto il porto appare e si vede la bella città seduta ai piedi delle montagne: il faro della Lanterna, come un minareto, dà all'insieme qualche cosa d'orientale e si pensa a Costantinopoli»

Probabilmente, una bellezza che strazia l'anima, come avrà modo di scrivere successivamente da Milano ad Ernest Chevalier (lettera del 15 giugno).

Gustave Flaubert

E scrive ancora:

«Ho visto una bellissima strada, la via Aurelia, ed ora sono in una bella città, una vera bella città, Genova. Cammino sul marmo, tutto è di marmo: scale, balconi, palazzi. I palazzi si toccano tanto sono vicini e, passando dalla strada, si vedono i soffitti patrizi tutti dipinti e dorati. Vado a visitare le chiese, sento cantare suonare l'organo, guardo i monaci, osservo i paramenti sacri, gli altari, le statue; in altri momento (ma non so bene quali) forse avrei riflettuto di più e guardato di meno. Invece qui spalanco gli occhi su tutto, ingenuamente, semplicemente, e forse è molto meglio ...»

(da Lettera ad Alfred Le Poittevin, 1º maggio)

Nel resoconto fedele e visibilmente emozionato dello scrittore, vi è posto anche per una curiosa osservazione a proposito di un personaggio che alla fantasia nulla deve: Don Giovanni:

«Bisognerebbe pensare a lui soltanto qui: è bello immaginarlo mentre si vaga nelle chiese italiane all'ombra dei marmi ... Deve essere molto dolce amare in questi luoghi»

Flaubert tornerà a parlare di Genova in una lettera di pochi giorni successiva, data ancora da Milano, dove si era nel frattempo trasferito:

«Durante il mio viaggio ciò che ho visto di più bello è Genova. Ti consiglio di andarvi un giorno o l'altro ... Dopo aver visitato i suoi palazzi si ha un tale disprezzo del lusso moderno che viene voglia di abitare in una scuderia e di uscire vestiti da operai ...»

(da Lettera a Ernest Chevalier, 13 maggio)

Anche George Byron apprezzò il suo passaggio per Genova. In via Albaro, una lapide ricorda ancora il suo soggiorno nella villa in cui abitò.

Staglieno[modifica]

Per approfondire questo argomento, consulta le pagine Cimitero monumentale di Staglieno e Staglieno.

Al cimitero di Staglieno - uno dei vanti cittadini e vero e proprio museo a cielo aperto - non potevano rimanere indifferenti neppure i grandi viaggiatori del passato. Della meraviglia che destò in molti di loro la necropoli che si staglia alta sulla collina omonima viene dato conto nella voce ad essa dedicata.

Statua al cimitero di Staglieno

Qui si riprende un passaggio - controcorrente e di epoca più recente - di Pio Baroja (letterato spagnolo definito dai biografi inquieto e contraddittorio, 1872 - 1956) che nel 1949 in Il volto degli italiani scriveva, a proposito del cimitero monumentale:

«Mi fu raccomandato di andare a vedere i cimiteri di Genova. Raggiunsi in tram un antico camposanto in una valle del fiume Bisagno, molto amena e placida, e mi riferirono che a poca distanza ve n'era un altro, pieno di statue. Lo vidi e non mi piacque per niente. Mi diede l'impressione di un baraccone di figure di cera, prive di colore.»

Va detto che il giudizio di Baroja non fu - almeno in quella occasione (e non si sa se ce ne sia stata un'altra) - benevolo nei confronti di Genova (che fin dall'antichità ha cercato di trarre vantaggio dal mare e dal commercio), tanto da definire piuttosto mediocri le statue moderne qui presenti, al pari di quelle delle città italiane, e un patriota italiano violento e focoso Giuseppe Mazzini che, a Staglieno, appunto, riposa.

Infine, ma con una qualche verità in questo caso: E se a Napoli la gente che discute sembra che canti, a Genova pare sempre che bisticci .... E le grida delle popolane al mercato del pesce o attorno agli orti della Valbisagno ne dovevano essere una neppure troppo indiretta testimonianza.

L'Hotel sulla collina del Principe[modifica]

Per approfondire questo argomento, consulta la pagina Hotel Miramare di Genova.

Se fino a tutto l'Ottocento lo spostamento da una città all'altra o, ancor più, da una nazione all'altra era privilegio di pochi, ugualmente nelle prime decadi del XX secolo la parola turismo non avevo assunto ancora quel significato di fenomeno di massa cui convenzionalmente gli si attribuisce oggi. Ma se fino ai primi anni dell'era moderna ad essere gettonata da parte della nobiltà anglosassone o mitteleuropea era soprattutto la riviera di ponente, fino all'estrema periferia di Pegli, con i suoi palmizi e le passeggiate lungo il mare, dal 1920 lo spostamento del flusso di illustri visitatori verso il centro di Genova si fece più massiccio. La città scopriva all'improvviso una vocazione turistica che non l'avrebbe più lasciata.

In questo contesto poteva nascere un piccolo fenomeno di costume come quello dell'Hotel Miramare, meta di attori, teste coronate, statisti, un albergo - si direbbe oggi - da quattro stelle, destinato ad una clientela non comune, e del quale uno scrittore del calibro di Francis Scott Fitzgerald, che nell'Hotel trascorse assieme alla moglie Zelda, una notte del 1924, darà in L'età del jazz (1934) una descrizione illuminante:

«Il Miramare di Genova inghirlandava la curva oscura della spiaggia con festoni di luce e la sagoma delle montagne faceva spicco sullo sfondo nero grazie al riverbero delle finestre degli alberghi più in alto ...»

Altri tempi e, evidentemente, altri alberghi verrebbe da pensare. E dalle alture sopra il porto, fra i palmizi del giardino del Miramare, il remare per ritrovarsi proiettati verso il passato - alla maniera del Grande Gatsby - doveva sembrare un esercizio dolce anche per lo scrittore che stava segnando un'epoca letteraria.

Appena pochi anni prima, non molto distante da lì, era possibile incontrare, passeggiando per l'elegante Galleria Mazzini - proprio nel cuore del centro cittadino, a pochi passi dal Teatro Carlo Felice e dal fontanone di piazza De Ferrari - due compositori fra i più apprezzati dell'epoca della scapigliatura: Giacomo Puccini (che forse si soffermava a pensare al suo Pinkerton e alla Nagasaki di Madama Butterfly), e Pietro Mascagni, entrambi ghiottissimi delle gustose zuppe di frutti di mare che i ristorante della galleria erano usi servire.

Genova "non" vista[modifica]

Fra le molte celebrità che hanno visto, raccontato e cantato Genova, ve ne sono evidentemente molte che con la Superba hanno avuto un incontro mancato ma che su Genova e i genovesi (genti diverse, a parere di Dante) hanno scritto.

Michel de Montaigne

Si dà conto qui - uno per tutti - di un testo di Montaigne risalente al 1581 (Giornale di viaggio in Italia) che bene restituisce l'idea di qualcosa che poteva essere e non è stato:

«[In viaggio da Massa Carrara] - Per andare a Milano c'è poca differenza di passar per Genoa [testuale], o per l'altra via, e torna a uno. Desiderava veder quella città e l'imperatrice che ci era. Mi disturbò che, per andarci, sono due strade, l'una lunga di tre giornate di Sarrezana [l'odierna Sarzana], la quale ha quaranta miglia di cattivissima ed alpestrissima via di sassi e precipizi, e male osterie: poco si bazzica quella via; l'altra è per Lerici discosto tre miglia di Sarrezana, dove si mette per mare e si passa in dodici ore in Genoa. Io, non sopportando l'acqua per il difetto del stomaco, e non tanto sospettando il disagio di quella strada, quanto il stentare d'alloggiare per la gran calca ch'era in Genoa; e di più, che si diceva, che la strada di Genoa a Milano non era troppo sicura di ladri; e non avendo altro in testa che il mio ritorno; mi risolsi di lasciar Genoa da parte, e segui la strada a man dritta fra molte montagne, tenendo sempre il fondo e vallone, il lungo del fiume Magra. Et avendola a man stanca, passammo adesso per il Stato di Genoa, adesso del duca di Firenze, adesso dei signori di casa Malaspina. Infine, per una via comodamente bona, fuori di qualche passi scoscesi e diripiti, giunsimo a dormire a Pontremoli

Il parco dell'Acquasola in un'incisione dell'Ottocento

Ma Genova è stata per taluni un'occasione mancata, in tempi più recenti, pure in ambito cinematografico. Come naturale location non è stata vista, o vista in maniera errata, anche da due famosi registi come Alessandro Blasetti e Folco Quilici: il primo, nel 1934, scelse di girare per il film 1860 la partenza della spedizione dei Mille in una spiaggia fra Roma e Civitavecchia anziché dallo scoglio di Quarto dei Mille (da dove realmente Giuseppe Garibaldi salpò con le sue camicie rosse); il secondo ambientò la partenza di Marco, il piccolo protagonista nel suo film del 1960 Dagli Appennini alle Ande tratto da un racconto del libro Cuore di Edmondo De Amicis, anziché dal porto di Genova dal più piccolo borgo marinaro di Boccadasse (peraltro ricostruito in studio).

In compenso, Genova è stata - sia pure all'epoca del muto - una finta Napoli in due film dell'epoca del muto - A Marechiaro e Addio felicità (entrambi del 1914) - e una finta Trieste in Trieste o l'impero della forca, di due anni più recente. In tutte queste occasioni la città ligure si sostituì perfettamente agli scenari originali, mutuando dal capoluogo campano la sua struttura obliqua e dalla città giuliana l'austero aspetto mitteleuropeo.

Quando nel giugno 1965 i Beatles tennero uno dei loro tre concerti in Italia al Palazzo dello sport di Genova, da poco inaugurato, il loro arrivo e la loro partenza avvennero in grande segreto per evitare le scene di follìa collettiva che abitualmente suscitavano i loro tour. Non si seppe mai se videro - e come - qualcosa della città: qualcuno disse o scrisse che, garantendosi in qualche modo l'incognito, riuscirono a trascorrere la sera antecedente il concerto bevendo in un locale della passeggiata a mare di corso Italia. Ma la notizia non venne mai realmente confermata e, presumibilmente, la si può annoverare fra le numerose leggende metropolitane che sempre hanno accompagnato il quartetto di Liverpool. Di sicuro, dal superblindato Hotel Colombia di piazza Acquaverde nel quale erano asserragliati, a poca distanza dalla stazione ferroviaria di Piazza Principe, riuscirono a vedere ben poco.

Florilegio[modifica]

Piazza De Ferrari e il Palazzo Ducale

«Se gli architetti che hanno costruito Genova avessero avuto spazio, se avessero potuto abbandonarsi alla fantasia e senza ostacoli ai loro capricci, non avrebbero potuto trovare le infinite risorse e la multipla varietà di motivi, di disegni e disposizioni ai quali la facciata dei loro palazzi deve un'originalità di carattere, e che introduce in ogni anfratto l'inatteso della grandezza.»

(da Breve vision hivernale d'un voyageur normand, 1850, Louis Enault)

Nell'immagine: il Palazzo Ducale e la fontana di piazza De Ferrari}}

  • Superba ardeva di lumi e cantici / nel mar morenti lontano Genova / al vespro lunare dal suo / arco marmoreo di palagi (Giosuè Carducci, "Odi barbare")
  • Genova, nido di predoni, mercanti-guerrieri ... (da Il comandante del porto, Osip Ėmil'evič Mandel'štam, letterato russo)
  • Genova giace presso il mare come lo scheletro di un gigantesco animale buttato lì dalla risacca. (Heinrich Heine)
  • ...in una Genova assordante che scoppiava di salute davanti al suo golfo e al cielo in cui fino a sera lottavano il desiderio e la pigrizia. (Albert Camus)
  • Genova viene, per così dire, incontro al viaggiatore ... Una città che s'è data da sola il soprannome di "Superba" e che da sei o sette leghe già si scorge all'orizzonte, distesa in fondo al suo golfo con la noncurante maestà d'una regina ... Quale fu la causa del lusso quasi incomprensibile di palazzi che il viaggiatore trova sparsi sulla sua strada con la stessa profusione delle villette nei dintorni di Marsiglia? Furono le leggi sumptuarie della Repubblica [di Genova] che proibivano di dar feste, di abbigliarsi di velluti e di broccati e di portar diamanti; tali leggi non si estendevano oltre le mura della Capitale e perciò il lusso di quei turbolenti ed orgogliosi repubblicani si era rifugiato in campagna. (da Genova la Superba, 1841, Alexandre Dumas)
  • Ah Mimuccia! Mimuccia! Non ho mai visto nulla come questa Genova! È qualcosa d'indiscutibilmente bello, grandioso, caratteristico: Parigi e Londra al confronto con questa divina città scompaiono come semplice agglomeramento di case e di strade senza alcuna forma. Davvero non saprei dove cominciare per darti l'impressione che mi ha fatto e continua a farmi: ho riso come un fanciullo e non potevo nascondere la mia gioia! Tutti debbono vedere Genova! (da una lettera, 1º settembre 1853, Richard Wagner)
  • I Genovesi non sono affatto socievoli; e questo carattere deriva piuttosto dalla loro estrema avarizia che non da un'indole forastica: perché non potete credere fino a che punto arriva la parsimonia di quei principi. Non c'è niente di più bugiardo dei loro palazzi. Di fuori, una casa superba, e dentro una vecchia serva che fila ... I Genovesi di oggi sono tardi quanto gli antichi Liguri. Non voglio dire con questo che non intendano i loro affari: l'interesse apre gli occhi a tutti ... C'è una cosa ancora: che i Genovesi non si raffinano in nessun modo: sono pietre massicce che non si lasciano tagliare. Quelli che sono stati inviati nelle corti straniere, ne son tornati Genovesi come prima. (da Viaggio in Italia, 1728, Charles de Montesquieu)
  • Case alte fino a tredici piani, vie strettissime nella città vecchia, fresche e maleodoranti, di sera una fitta folla, durante il giorno quasi solo bambini. (da Diario italiano, 1901, Paul Klee)
  • Genova austera, vibrante, ampia! Luogo unico dai trecento ripiani a terrazza sul mare, ornata di parchi stupendi! Genova, dove i tramways sono gli ascensori! Le strade ed i quartieri, sovrapposti, si aggrovigliano, si superano, si ricongiungono, si dividono ancora ... Città a sorpresa!, il cui uso insinua un'astuta saggezza: una scalinata, un àndito, un archivolto, una passerella, una galleria conducono in pochi minuti ad un palazzo, ad una piazza alla quale non si sarebbe giunti che in un'ora, seguendo le strade. (da Ex voto: San Zorzo, Valery Larbaud)
  • Il posto è bello [ Napoli ], ma molto meno di quanto la gente non dica. Il famoso golfo, secondo me, come veduta, è incomparabilmente inferiore a quello di Genova, che è quanto di più bello abbia mai visto. Nemmeno la città, dal canto suo, è paragonabile a Genova, con cui in Italia nessuna regge il confronto, salvo Venezia. Quanto ai palazzi, nessuno uguaglia le Peschiere per architetture, collocazione, giardini o stanze. È un gran trionfo per me, tra l'altro, scoprire quanto l'affitto ne sia conveniente. (da Lettere dall'Italia, Charles Dickens)
  • ... l'abilità nautica di Genova è tenuta in tale reputazione e stima in tutto il mondo che i genovesi sono detti signori del mare. (Descrizione di Genova, Cronache del Regno di Luigi XII di Francia, 1502, Jean d'Auton)
  • Genova, una delle città più belle che abbia mai veduto. Alcuni suoi edifici erano in marmo bellissimo e avevano un che di assai nobile, molti poi avevano davanti delle fontane di foggia oltremodo bizzarra. Le chiese erano ricche e sontuose, con stravaganti decori sia all'interno che all'esterno. Ma ai miei occhi tutta quell'imponenza era rovinata dagli schiavi ai remi delle galee, le cui condizioni lì e in altre parti dell'Italia sono davvero pietose e miserabili. (da L'incredibile storia di Olaudah Equiano, o Gustavus Vassa, detto l'Africano, 1789, Gustavus Vassa)
  • ...Splendida città che ti specchi nelle acque azzurre del Mediterraneo. Le rocce e i promontori, il cielo luminoso e gli allegri tuoi vigneti erano il mio mondo... (Mary Shelley)[2]

Note[modifica]

  1. Fonte: Giuseppe Marcenaro, Viaggio in Liguria, Genova, La Stampa SpA/Consiglio Regionale della Liguria, 1979
  2. Alberto Maria Vedova, Mary Shelley, una targa per la casa che la ospitò ad Albaro, su Ilsecoloxix.it. URL consultato l'11 giugno 2014.

Bibliografia[modifica]

Per approfondire questo argomento, consulta la pagina Bibliografia su Genova.

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Collegamenti esterni[modifica]

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