La Costituzione in Età Moderna

Da Wikiversità, l'apprendimento libero.
lezione
lezione
La Costituzione in Età Moderna
Tipo di risorsa Tipo: lezione
Materia di appartenenza Materia: Storia delle costituzioni
Avanzamento Avanzamento: lezione completa al 100%

La Sovranità Contro la Costituzione[modifica]

Lo scontro tra assolutismo e costituzione mista diede modo alle dottrine sulla sovranità di diffondersi, in una prospettiva divergente rispetto alle teorie costituzionali, tanto che proprio nella costituzione mista si individuò la causa più rilevante del conflitto e della guerra civile.

Il primo teorizzatore del modello moderno di sovranità è sicuramente Jean Bodin (1576), che cercò di cogliere da subito la sintesi di quale fosse la qualità dei poteri che spettano al sovrano. Il re non è sovrano perché titolare di molti e vasti poteri, ma perché è dotato della sovranità, che è la detenzione di un potere perpetuo ed assoluto:

  • Perpetuo perché non revocabile, non conferito da alcuno, originario, se non fosse così sarebbe sottoposto al potere di qualcun altro (il popolo per esempio…)
  • Assoluto, perché privo di limiti, se non quelli che Bodin accoglie dalla tradizione medievale: il rispetto della Corona (immodificabilità delle norme che regolano la successione al trono e l’alienazione dei beni) e del diritto comune (“dei privati”) che regola i rapporti tra privati e che il re deve accettare quando entra in quella sfera. Assoluto perché non divisibile, condivisibile o soggetto a pattuizione, che sfugge al controllo o al bilanciamento di altri poteri.

Bodin, nell’elencare l’insieme di prerogative del monarca e nel definire le tre forme tipiche di éstat, regime, nega che ve ne sia una quarta, la forma mista, ideale. È il primo a definire, accanto al piano del regime (chi sia cioè il titolare dei poteri sovrani), anche il piano del governo, cioè quale sia il ruolo, accanto al sovrano, di tutti coloro che sono titolari di pubblici poteri. Quindi si spinge a dichiarare la forma di stato, di regime, che preferisce, la monarchia, la forma di governo invece è la presenza, accanto al re, di assemblee consultive, magistrati e ordini, un governo misto e temperato. La costituzione mista sopravvive quindi, ma solo come conveniente e collaudato modo di governare. Non si è ancora arrivati ad una vera e propria ricerca del fondamento della sovranità.

Questo ulteriore passo fu compiuto da Thomas Hobbes (1650), nel Leviatano, opera profondamente segnata dal drammatico momento storico, dalla deludente fine della costituzione mista, che aveva generato divisioni e fazioni. Andava individuato un solo ed unico soggetto titolare dei poteri sovrani, senza lasciar spazio a dubbi ed incertezze: l’individuazione di tale soggetto (sovrano, re, assemblea) è l’unica vera legge fondamentale. Si rompe definitivamente col medioevo: se la costituzione rappresenta un progetto di convivenza civile, stabile e durevole, non può esistere nessuna costituzione senza sovranità. Gli individui escono dallo stato di natura associandosi, delegando i propri poteri al potere sovrano, che è un potere artificiale, perché in origine generato dalla volontà degli individui, che però delegando, perdono definitivamente il proprio originario potere (e non possono opporlo al sovrano…). Ciò era impensabile per Bodin, sostenitore dell’originarietà del potere sovrano. L’homo lupus, il singolo, “autorizza” e cede il suo potere ad un ente terzo, purché lo facciano tutti i consociati simultaneamente. Ma oltre all’autorizzazione, si genera anche la “rappresentanza”, per cui un solo ente impersona l’unità, opporsi a lui significa indebolire il tutto.

Il potere sovrano protegge e tutela i consociati, permette l’esercizio dei diritti, ma è un mostro, temibile, che esprimerà la sua terribile forza durante tutto il periodo dell’assolutismo, fino alle soglie della Rivoluzione Francese, quando nel 1762, J.J. Rousseau, nel Contratto Sociale, attribuì il potere sovrano al popolo. Il suo errore fu quello di aver minacciato la costituzione, sostenendo che il popolo potesse mettere in discussione continuamente la sponsio medievale, il contratto sociale originario, in virtù di una scelta libera, continuo e costante sostegno ad un patto, che dà vita ad un corpo politico, il popolo. L’individuo perde la sua libertà naturale ed acquisisce la libertà civile, garanzia di essere governato da una legge generale che riconosce i propri diritti limitando il potere dei governanti. Questi agiscono solo per conto del popolo, ma solo in esso permane il potere di ratificare definitivamente le leggi.

Per Rousseau, come per Hobbes, la costituzione è nella sovranità, è legge fondamentale, generale ed astratta, ma presuppone l’ente sovrano, che esiste prima ed al di fuori di essa.

Il Costituzionalismo[modifica]

Dal XVII secolo, si sviluppa un insieme di dottrine che hanno inteso recuperare nella costituzione dei moderni l’aspetto del limite e della garanzia rispetto al potere sotto il nome di Costituzionalismo. I modelli di Hobbes e Rousseau non erano certo espressione di arbitrio, ma non erano ancora concepiti due principi che il costituzionalismo sostiene:

  1. La divisione del potere sovrano in un sistema di poteri in posizione di equilibrio e reciproco limite.
  2. Un limite legale ai poteri sovrani attraverso una norma fondamentale (magari assimilabile alla tradizione della costituzione mista medievale).

Ci si avviava a sostenere un nuovo ordine costituzionale equilibrato e bilanciato, rappresentativo di tutti gli ordini sociali.

Su questa linea si pone il repubblicano James Harrington (1650), sostenitore dell’equilibrio sociale, basato su un’equa distribuzione dei beni generata da una legge agraria che moltiplichi i proprietari e quindi elettori ed eletti, in un governo misto, che concetto che rappresenta l’evoluzione della costituzione mista. Il modello è chiaramente la Roma repubblicana, che si studiava grazie alle opere del Machiavelli, un sistema in cui popolo ed aristocratici potevano coesistere, come nel parlamento inglese.

Anche a seguito della Restaurazione monarchica in Inghilterra del 1660 e dopo la Gloriosa Rivoluzione, si ebbe nel 1689 la limitazione dei poteri regi con l’adozione del Bill of Rights, che ribadiva la centralità del parlamento, l’esclusione per il re dai poteri di normazione ed imposizione di tributi, di chiamata alle armi: una forma di governo bilanciata e moderata che si pose come modello per l’Europa intera.

Il primo ideatore di questo modello fu certamente John Locke (1690), che, partendo dall’analisi della condizione umana nello stato di natura, si discostava già in modo netto da Hobbes. Per Locke, l’uomo già allo stato di natura possedeva il senso della proprietà e dei diritti della persona, ma mancava di una regola fissa e consolidata valevole per tutti. Tale situazione si perfezionava con l’istituzione di una società politica, di una legge, di giudici, di un legislatore che non crea i diritti, ma li riconosce come preesistenti e li tutela. Nel governo stesso di una civiltà si ripropongono i limiti ad ogni potere: non è pensabile una monarchia assoluta, ma nemmeno un potere assoluto di una sola assemblea. Locke per primo formula la distinzione tra potere assoluto (che concentra in sé i poteri legislativo ed esecutivo) e moderato (in cui i var poteri sono distinti). Il modello moderato è preferito da Locke, sia il King in Parliament, ma anche qualsiasi forma di divisione e bilanciamento dei poteri.

Dopo Locke non pochi si dedicarono a perfezionare e sviluppare il discorso costituzionalistico che egli aveva inaugurato, sempre più definendo la costituzione come lo spazio entro cui si equilibrano i poteri e si garantiscono i diritti, anzi il modello di costituzione ideale divenne sempre più quello inglese. Anche il conservatore Bolingbroke (1737) esalta la costituzione inglese, distinguendo il concetto di costituzione da quello di “buon” governo, che da quella discende e che quella deve seguire per essere tale. Sostenere la costituzione non significava però legittimare un’eccessiva “parlamentarizzazione” del sistema, come unica base di governo, impoverendo gli altri poteri, come per esempio l’esecutivo, nel quale il primo ministro era schiavo della propria maggioranza parlamentare e pertanto l’esecutivo ed il legislativo andavano a sovrapporsi. Comunque nel corso di tutto il ‘700 ancora la costituzione inglese rappresentava il solo modello capace di bilanciare i poteri: il parlamento fa le leggi, sottoposte al veto del re, che col governo regge l’esecutivo, che gestisce le risorse concesse dal parlamento, il potere dei giudici è svincolato.

Questo modello ebbe un formidabile divulgatore straniero, Montesquieu (1748), il quale seguendo il pensiero lockiano, fondò la sua analisi sulla distinzione fra potere assoluto e moderato, sui pericoli derivanti dall’accentramento del potere e sullo studio della costituzione ideale (quella inglese) che mantiene i poteri separati e bilanciati: “il potere che frena il potere”. I diritti degli individui sono riconosciuti dalla legge, all’interno di un regime moderato, sotto l’egida di una costituzione.

Stessi concetti ripresi dall’ultimo costituzionalista inglese del tempo, William Blackstone (1765), che pone l’accento sulla centralità e sovranità del parlamento, al fine di negare l’esistenza di altre sovranità (il popolo, per esempio) che potevano agevolare spaccature sociali. Infatti accanto alla costituzione (depositaria dei diritti) ed al parlamento, si sottolineava anche la titolarità regia del governo, altro pilastro del sistema.

Le Rivoluzioni[modifica]

Nella seconda metà del ‘700 il costituzionalismo era ancora forte ed autorevole, nell’ Enciclopedia francese Diderot trattava del contratto tra popolo e principe, del “limite” del potere per entrambi gli attori del sistema (che Blacksotne identificava nel parlamento). Concetti successivamente osteggiati da Rousseau, che vedeva in quel contratto un “limite” al potere del popolo, unico depositario del potere sovrano.

In Inghilterra tale impianto dottrinale iniziava a screpolarsi, grazie al contributo di Burke (1770), che nell’analisi della conduzione politica del governo, riconduceva tutto alla volontà degli elettori, organizzati e guidati da partiti, ma senza affermare una vera e propria sovranità popolare.

Jeremy Bentham (1775) attaccava addirittura Blackstone e il tanto decantato governo misto inglese: la differenza tra un governo libero ed uno tirannico non sta nei limiti opponibili a quest’ultimo in nome della costituzione, bensì nel modo di partecipare, da parte delle diverse classi sociali, al potere, nella responsabilità dei governanti, nel riconoscimento di diritti e libertà, cioè il potere deve essere legittimato dal consenso popolare e finalizzato al pubblico interesse, tanto che la costituzione possa divenire superflua.

Alla fine del ‘700 si riscontrano due indirizzi di pensiero:

  1. Il concetto di limitazione e separazione dei poteri, appartenente al Costituzionalismo Tradizionale.
  2. La discussione sulla forma politica, sulla sovranità, che sempre di più veniva ad essere attribuita al popolo.

I costituzionalisti discutendo di sovranità popolare vedevano in essa una causa di rottura dell’ordine sociale, i sostenitori della sovranità popolare vedevano la costituzione come un impaccio, un limite al potere sovrano e quindi temevano l’instabilità o il dispotismo.

Le rivoluzioni della fine del ‘700 introducono un concetto nuovo: il Potere Costituente, esercitato dai coloni americani e dal popolo francese. L’esercizio di tale potere è assoluta espressione di sovranità popolare, un soggetto collettivo costruisce una nuova forma politica, una volontà sovrana si associa ad una costituzione, nella ricerca di un ordine stabile e legale. Sovranità e costituzione confluiscono, mediandosi. La rivoluzione è il momento storico portatore di una nuova forma politica e di una nuova costituzione, nasce sempre da una “rottura” con un ordine costituito non più basato sul consenso popolare, ma anzi che tradisce il popolo (vedi l’opposizione degli americani alla tassazione inglese imposta illegittimamente dalla corona). In America i coloni parlano di incostituzionalità delle tasse inglesi, per la prima volta tale termine è usato con un assunto legale, che pone un forte rilievo sul valore della costituzione, baluardo a salvaguardia dei diritti naturali degli individui che in essa sono riconosciuti e tutelati (fondamento giusnaturalistico del potere costituente). La rottura con la costituzione inglese è piena: non vi è più da comporre forze e realtà contrastanti, bensì unire stati federali, creare poteri, riconoscere e tutelare diritti, legittimare il tutto mediante il consenso popolare. Nacque una costituzione democratica e repubblicana allo stesso tempo che istituiva dei poteri limitati reciprocamente, non originari, ma sanciti dalla legge stessa e dal potere costituente del popolo sovrano. I limiti dei poteri non erano solo rigida e astratta separazione tra gli stessi, ma insieme di bilanciamenti e contrappesi, per cui ognuno di essi fosse dotato di strumenti di controllo e limitazione rispetto agli altri. Anzi i costituzionalisti americani, Madison ed Hamilton, ritenevano che il controllo maggiore dovesse essere effettuato sul potere legislativo, che per la forza e le competenze di cui è dotato può risultare tendenzialmente più accentratore. In tal senso è fondamentale il potere dei giudici ordinari e dei giudici costituzionali, strumenti della costituzione posti a vigilare sulla rispondenza delle norme alla costituzione stessa: il controllo di costituzionalità diviene un momento fondamentale della democrazia. L’esperienza americana insegna che il costituzionalismo senza democrazia produce l’assolutismo parlamentare, ma la democrazia senza costituzionalismo è parimenti pericolosa, poiché produce concentrazione dei poteri in mano ad assemblee popolari. Paine nel 1780 diceva che la costituzione non è l’atto di un governo, ma del popolo: un governo senza costituzione è potere senza diritto. Solo il popolo può modificare, quando lo ritiene giusto, una costituzione.

In Francia la spinta rivoluzionaria portò a conclusioni diverse: il popolo sovrano non può essere solo il fondamento della costituzione, ma deve essere “il sovrano”, che attraverso la costituzione sostiene il processo rivoluzionario. Sieyes (1780), il più lucido interprete della rivoluzione, sostiene che la costituzione deve limitare i poteri costituiti ma non può limitare il potere costituente del popolo (nazione): il popolo sovrano ha il potere di modificare continuamente la costituzione. Il problema è se mai la rappresentanza, che da una parte è fondamento del potere dei governanti, dall’altra è la condizione necessaria perché si possa parlare di popolo in senso unitario (senza potere espresso in modo unitario attraverso i propri rappresentanti politici e le istituzioni non abbiamo popolo, ma solo moltitudine di individui). Nel periodo rivoluzionario si afferma anche il filone di pensiero legato al riconoscimento dei diritti, esaltato con la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, che sancisce: ”ogni società, nella quale la garanzia dei diritti non è assicurate, né la separazione dei poteri determinata, non ha costituzione”. I diritti naturali lockeani e il giusnaturalismo arricchiscono la discussione. Malgrado queste premesse, in Francia non si ebbe una separazione dei poteri, ma venne esaltata la centralità del potere legislativo e si pose grande attenzione sul giudice costituzionale (La Cassazione). Il re fu confermato a seguito della restaurazione e non si arrivò al suffragio universale, né diretto: in sostanza la Rivoluzione produsse risultati imperfetti dal punto di vista democratico. Con la successiva rivoluzione giacobina, sparì il re e si instaurò il suffragio universale diretto, con una visione monistica del potere, tutta incentrata sull’assemblea. Tutte queste esperienze durarono pochissimo o videro appena la luce: solo col Direttorio (che vide sparire il suffragio universale e diretto e l’introduzione del bicameralismo) si introdusse un modello più stabile ma comunque monistico.

La Costituzione Contro la Sovranità[modifica]

Le rivoluzioni monopolizzano ovviamente ogni discussione dalla fine del ‘700.

Burke molto puntualmente sostiene come in Francia la rivoluzione ha consentito di creare dal nulla una costituzione, mentre in Inghilterra ha permesso, un secolo prima, di preservare l’antica costituzione, unica vera garanzia e certezza di diritto. Da una parte quindi un progetto costituente, rivoluzionario (e quindi mutevole, instabile), dall’altra il patto, il contratto tra gli individui, il frutto di un equilibrio raggiunto storicamente, una tradizione che evolve e si rafforza. Burke critica l’Assemblea costituente francese, nuova forma di dispotismo senza nessun fondamento legale e costituzionale, mentre esalta la costituzione e l’ordinamento inglese che trova nei valori e nei limiti fondanti il sistema stesso, quella legittimazione necessaria alla propria sopravvivenza. I rivoluzionari francesi avevano, per Burke, seguito solo l’insegnamento di Rousseau, ma non quello di Montesquieu.

Più ampio ed universale appare il contributo di Kant (1800), che teorizza un futuro scenario basato su una costituzione repubblicana fondata su:

  • Libertà di perseguire la propria felicità ma mai a danno degli altri, di qui l’importanza della legge come strumento legittimo di riconoscimento e tutela dei diritti
  • Uguaglianza di tutti dinanzi alla legge.

Partendo dal fortunato distinguo tra forma di stato (in cui si distingue il soggetto che detiene il potere legislativo, se uno abbiamo la monarchia, se pochi l’aristocrazia, se tutti la democrazia) e forma di governo (attiene al rapporto che concretamente intercorre tra i vari poteri), Kant sottolinea appunto che su questo secondo scenario va improntata tutta la discussione, cioè vanno ad essere sviluppati i presupposti per una costituzione repubblicana. Occorreva una forma di governo antidispotica, con separazione dei poteri e con una forte senso della rappresentanza politica, che lasciasse la discussione critica all’interno delle istituzioni, senza scatenare mai l’intervento diretto del popolo, che poteva generare instabili rivoluzioni.

Dello stesso avviso di Kant è Constant (1815), che pur sostenitore dei principi e dei diritti sanciti con la rivoluzione, ricerca una sovranità limitata, disciplinabile da una costituzione basata sulla divisione dei poteri, soffermandosi sulle forme di governo più che di stato. Celebre è la sua definizione di sovranità popolare come fondamento del sistema ma solo come volontà generale che primeggia sulle volontà particolari, è la volontà del legislatore che produce la legge generale ed astratta che garantisce i diritti e l’uguaglianza. Ma tale sovranità popolare non è illimitata, essa è circoscritta nei limiti tracciati dai diritti individuali, sanciti dalla legge. Purtroppo nella sua mirabile opera manca un collegamento importante, quello tra diritti e costituzione (intesa come norma).

In America il collegamento diritti-legge-costituzione e quindi il controllo di costituzionalità erano concetti ben acquisiti, come dimostra il resoconto di Tocqueville (1835), che nell’opera dei giudici e della costituzione americani vede quel limite al possibile strapotere democratico che in Europa solo élite aristocratiche (non basate sul privilegio, ma sull’indipendenza dal potere politico, diremmo oggi i ceti medi, proprietari, benestanti, ecc.), le leggi e la costituzione possono bilanciare.

In sostanza dopo la rivoluzione si identifica un solo avversario, sempre quello, ma descritto in forme diverse: per Burke è il potere costituente della rivoluzione, per Kant e Costant è la sovranità popolare che oltrepassa il limite della legge quale strumento di garanzia e tutela dell’uguaglianza e dei diritti, per Tocqueville il livellamento egualitario sociale, con concentrazione del potere e straripamento dell’espansione democratica verso lo strapotere dello Stato. Si cerca cioè di opporre al nascente concetto di sovranità popolare il valore della costituzione, intesa non come norma, ma come valore di garanzia delle pluralità, delle individualità, delle differenze.

Lo Stato e la Costituzione[modifica]

Il costituzionalismo dopo la Rivoluzione ne accetta alcuni principi ma delimitandone i confini: la supremazia della legge e l’eguaglianza di tutti dinanzi ad essa sono due capisaldi imprescindibili. Però si affaccia una paura nuova, quella di un potere costituente illimitato nelle mani del popolo: Burke vi contrappone la tradizione equilibrata del modello costituzionale inglese; Kant e Constant la sovranità limitata e il modello antidispotico; Tocqueville la forza di una classe dirigente autonoma, contrappeso tra il livellamento popolare e lo strapotere delle istituzioni.

La preoccupazione maggiore era la stabilità del tessuto sociale e la radicalizzazione democratica della rivoluzione, tanto che nacque un pensiero controrivoluzionario che vide in De Maistre un fervido portavoce. Egli sostenne che il torto fu di separare società e sovranità, indebolendole entrambe e riducendole a moltitudine e anarchia, per cui ogni modello di costituzione scritta ed ogni riconoscimento dei diritti entrano in secondo piano.

Con Hegel (1800-1830) si introdusse un principio cardine, la Costituzione statale, che innovò completamente la materia. Egli partì dalla critica profonda al sistema tedesco, in cui la costituzione rappresentava il prodotto pattizio, consuetudinario, di un insieme di diritti acquisiti alla maniera diritto privato, impedendo al paese di esprimersi in modo unitario come nazione. La costituzione giuridica, instabile e frammentaria cioè, non era ancora costituzione statale, espressione di uno stato e di un unico principio ispiratore, mancava cioè di quegli elementi che caratterizzano uno stato. Invece la Francia, per Hegel, pur soccombendo sotto la disgregazione rivoluzionaria che aveva cancellato la costituzione, non aveva però perso il senso dello Stato, aveva ricreato esercito, amministrazione, burocrazia. In sostanza la Francia era uno stato ala ricerca della costituzione, la Germania, attaccata alla propria costituzione feudale e consuetudinaria, non aveva ancora le fondamenta di uno stato, mancava cioè di un diritto pubblico statale, di un’amministrazione, di una burocrazia, di un esercito. La costituzione statale è una norma di diritto pubblico che sovrasta ogni spinta privatistica (dei ceti e dei singoli), non è la norma che difende la proprietà ed i diritti naturali, secondo la concezione per la quale lo Stato è al servizio dei cittadini, ma il fondamento giuridico dello Stato, inteso come insieme universale di interessi permanenti e generali. Racchiude in sé i vari poteri: il monarca, le assemblee, la burocrazia. L’affermarsi della costituzione statale è dato dalla sovranità dello Stato, che esclude qualsivoglia sovranità di soggetti estranei ad esso. La costituzione non viene “fatta” o imposta da alcuno: ma è norma (ordine) fondamentale opposta a tutti i soggetti. La teoria hegeliana servì per molti anni a bilanciare le spinte accentratrici del monarca e l’evoluzione in senso democratico-popolare, fu soprattutto il fondamento per la nascita del diritto pubblico e per la teoria dell’”organo” o della personalità giuridica dello stato e dei suoi enti.

Un’altra teoria, sostenuta dal Bismarck, si affiancava a questa: essa affermava la primazia dello stato dinanzi alla costituzione, lo stato è sovrano in quanto ordinamento originario che sussiste prima e malgrado la costituzione è la casa di cui la costituzione rappresenta l’arredamento.

Malgrado questa parentesi, era ormai predominante nella cultura costituzionale dell’800, che la sovranità dello Stato dovesse coincidere con quella dell’ordinamento giuridico, trasformando ogni potere (popolare, monarchico, ecc.) in un elemento giuridico incardinato nell’ordinamento, nasceva in pratica lo “Stato di diritto”, che assunse la sua forma teorica definitiva grazie a Georg Jellinek (1850-1910). Egli afferma l’equivalenza tra Hobbes e Rousseau in quanto teorici di una legittimazione assolutistica del potere, privo di un limite formale e sostanziale. Solo la sovranità di un ente terzo, lo Stato, e del suo diritto, garantiscono i cittadini e le istituzioni da ogni possibile rischio di strapotere dispotico e di instabilità politico-sociale, garantiscono la tutela giuridica dei diritti ed il corretto funzionamento delle istituzioni stesse. Non si può avere stato senza costituzione e viceversa.

La Democrazia e la Costituzione[modifica]

La teoria dello Stato di diritto ebbe benefici influssi sia nell’Italia sabauda (il governo parlamentare idealizzato da Vittorio Emanuele Orlando) che in Francia (Carrè del Malberg).

In Inghilterra, con Venn Dicey (1880) si ridisegna il concetto del King in Parliament, si configura cioè una nuova concezione di Parlamento come luogo ove confluiscono le istituzioni, ma che non rappresenta la sovranità popolare e non ne riceve il mandato, esso è di per sé sovrano ed originario, per cui è intangibile la sovranità della sua legge. Tutto il diritto pubblico europeo si afferma in opposizione al principio democratico della sovranità popolare, che si sostanzia in sovranità dello Stato o del Parlamento (inglese): manca ovunque, fino al primo decennio del ‘900, il concetto di costituzione democratica.

Solo successivamente, a seguito dei conflitti, la costituzione avrà bisogno di contenere nuovamente le scelte del potere costituente, scelte politiche, principi, diritti. Come nel periodo rivoluzionario, la costituzione torna ad avere un valore politico, direttamente collegato alla volontà costituente del popolo sovrano, e quindi avrà anche un contenuto democratico.

La costituzione tedesca di Weimar del 1919 è l’antesignana di questa nuova concezione, contenendo in sé gli elementi della “nuova” costituzione: in primis un esplicito potere costituente, come fondamento della nascita di un nuovo stato, il popolo sovrano fonda lo stato e ne definisce i principi e la forma nella costituzione stessa. Non ci si limita più a definire limiti e funzioni dei poteri, e rimandare alla legge la tutela dei diritti: la costituzione stessa fonda lo stato, i suoi poteri e il suo funzionamento, legittimandolo, stabilisce e istituisce diritti e doveri, riconoscendo i diritti fondamentali e la loro tutela giuridica (inviolabilità), l’uguaglianza di tutti dinanzi alla legge.

L’esperienza di Weimar rappresentò un inizio timido e contraddittorio, ma fu il presupposto per l’affermazione di nuove teorie, la prima fu espressa da Carl Schmitt (1930), il quale afferma che una costituzione è democratica quando rappresenta politicamente ed istituzionalmente il soggetto che le ha dato vita, ovvero il popolo. Schmitt riscopre così l’esperienza rivoluzionaria, esalta l’aspetto politico della costituzione, recupera i concetti di separazione ed equilibrio tra i poteri, il parlamentarismo, la tutela giurisdizionale dei diritti. Il filone statale tedesco ed il parlamentarismo inglese hanno per lui derubato la costituzione del vero contenuto politico, il potere democratico e costituente del popolo. Però, malgrado tali presupposti innovativi, il suo pensiero arrivò a teorizzare il principio della continuità dello Stato e della sua primazia rispetto alla costituzione, cioè l’esatto opposto dei presupposti da cui partiva, quando tratta dell’elezione diretta del Presidente da parte del popolo. Il presidente rappresenta il popolo, la continuità, per cui un’altra costituzione, che può soppiantare quella ormai entrata in crisi, abbracciando quindi le tematiche più radicali già analizzate da Rousseau e che hanno prestato il fianco alla critica che nel principio democratico vi fosse qualcosa di instabile, inconciliabile la costituzione intesa come momento di stabilità e limitazione. Ed è proprio con questo problema che si infervora la dialettica nel Novecento: l’incontro tra democrazia e costituzionalismo, la ricerca di una forma costituzionale adeguata al principio democratico.

In questo scenario occorre citare Hans Kelsen (1880-1970), sostenitore del concetto che la costituzione democratica si è assunto il compito, dalla rivoluzione in poi, di demolire progressivamente ogni potere privo di esplicito fondamento normativo o costituzionale (necessario fondamento normativo di ogni potere). La costituzione è democratica perché tende ad escludere poteri autocratici, che cercano cioè di autolegittimarsi, non dipendendo dalla norma costituzionale. La costituzione democratica quindi deve essere antimonarchica innanzitutto, ma anche pluralistica, cioè non deve promanare da un solo soggetto (fosse anche il popolo, inteso come soggetto, astrazione, persona), bensì deve essere il prodotto di un processo evolutivo, di una mediazione, sintesi e composizione di molteplici spinte ed interessi affermatisi storicamente. Anzi, quanto più una costituzione è capace di esprimere una mediazione, un equilibrio, la partecipazione sociale di tutti, tanto più essa è solida e duratura. La costituzione infine deve essere parlamentare, poiché solo con questo organo si esprime il suo valore mediatore degli interessi pluralistici, mediante la politica, il dialogo e la mediazione dei partiti, scelti secondo il metodo proporzionale (rappresentatività). La centralità del parlamento non è mai sovranità dello stesso, poiché la legge che da esso promana è in posizione di supremazia sull’organo stesso e su tutte le fonti del diritto, tranne che sulla costituzione. Infatti quella legge, per quanto sacra e rispettabile, è il prodotto della volontà di una maggioranza, per cui va posto un limite ad essa: questo limite è la norma costituzionale, e lo strumento di controllo è il sindacato di costituzionalità ad opera di una corte a ciò destinata. Ciò significa che la maggioranza parlamentare è subordinata alla rappresentatività totale, generale della costituzione, ciò in aperta antitesi con l’idea di Schmitt, che vedeva nel presidente eletto dal popolo il vero custode della costituzione.

Le due concezioni sono opposte: per Schmitt tutto deriva dal potere costituente, la costituzione è democratica perché voluta dal popolo e permane come atto unitario che evolve , vive e che va difesa dai processi involutivi e corrosivi. Per Kelsen la costituzione è democratica perché rifiuta ogni concezione unitaria precostituita,è la sintesi dei pluralismi e vive proprio del compromesso tra le varie forze, rifiuta quindi il potere costituente del popolo. Storicamente, delle due concezioni, la prevalenza di una o dell’altra è dipesa dalla storia di ogni singolo paese. Da un certo punto di vista quasi tutti i paesi europei hanno perseguito un tipo di democrazia basato sui concetti esposti da Schmitt, esaltando il potere costituente del popolo. Da un altro verso, però, viene sposato insieme anche l’assioma di Kelsen, per cui si tende a preservare anche il pluralismo politico e sociale, nell’ottica di una costituzione democratica che non consente assolutismi, ma pacifico riconoscimento. Sono nate così ed inedite, che hanno recuperato anche la cultura giusnaturalistica votata alla difesa dei diritti. Insomma, quale che sia la forma costituzionale adottata, sono nate a partire dalla seconda metà del ‘900 molteplici forme di democrazie costituzionali, giusto equilibrio tra questi due concetti, democrazia e costituzione, entrambi forti ed in continua dialettica.