Corsa alla terra

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Approfondimento
Dipartimento di Scienze agrarie e tessili





Fame di terra e fame del pianeta

Lettura integrativa di Storia dell'alimentazione

L'ultima corsa alla terra

La lunga fila di carri tirati, ciascuno, da quattro buoi, si arrestava, a fianco di un torrente: fino all'orizzonte si dispiegava, lambita dal vento vigoroso dalle foreste del Nord, la prateria senza confine. Il comitato eletto dai i capifamiglia si riuniva e decideva l'ordine delle operazioni. La mattina seguente i membri del comitato avrebbero esplorato la prateria e disposto, con rami di pioppo cui era stata tolta, perché fossero visibili da lontano, la scorza, cento lotti, tanti quanti i carri che si erano fermati disponendosi, contro le eventuali ostilità degli indiani, a cerchio.

Terminate le operazioni di delimitazione per due giorni i capofamiglia potevano visitare il terreno delle future aziende, al terzo o quarto giorno tutti i carri venivano disposti, fianco a fianco, in linea retta, a un colpo di Winchester del “presidente” del comitato i conducenti frustavano i buoi, che iniziavano la corsa furiosa per arrivare, per primi, su quelle che erano state considerate, dai competitori, le parcelle migliori, più elevate e più fertili. I membri del “comitato” seguivano i carri, a cavallo, per controllare che dove due conducenti giungessero insieme la competizione non si concludesse con un duello a colpi di Colt. Nei mesi seguenti sarebbero sorte le casette, costruite dopo avere abbattuto le querce del bosco più prossimo. Se gli indiani avessero creato disturbo tutti gli uomini, insieme, ne avrebbero raggiunto il villaggio, ucciso uomini, donne e bambini, sarebbero tornati, incendiato l'accampamento dei selvaggi, certi che non avrebbero più dovuto misurarsi con gli “usurpatori”.

Si realizzava, in queste forme semplicissime, gli ultimi episodi poco più di cento anni fa, l'occupazione della Prateria americana, con quella dell'Argentina e quella dell'Australia parte di un'immensa dotazione di terre vergini che alla fine dell'Ottocento il Pianeta offriva ancora ai coloni europei al modesto prezzo dei proiettili necessari a eliminare il fastidio degli ultimi selvaggi che la terra non sapevano, per pigrizia, sfruttare secondo i canoni dell'agronomia occidentale: Cheyenne oltre il Mississippi, Araucani in Argentina, Aborigeni, in Australia, braccati con i cani e uccisi come la tradizione britannica insegna a cacciare la volpe.

Occupate le immense pianure sui tre continenti di più recente conquista, terre vergini il Pianeta non ne offriva più, tra il 1950 e il 2000 le pianure coltivate sono state dilatate, tuttavia, da un immane abbattimento di foreste tropicali, 165 milioni di ettari, e da una parallela, gigantesca dilatazione delle superfici irrigue, 152 milioni di ettari, sui quali, soprattutto ai tropici, si possono realizzare due o tre raccolti invece di uno: il medesimo risultato della conquista di altrettanta terra vergine. Varcata la soglia del 2000, tuttavia, l'abbattimento di nuove foreste si scontra con obiezioni e remore sempre più gravi, la dilatazione delle aree irrigue con la crescente sete di città e industrie, che non consentono di destinare all'agricoltura le risorse ricavate da dighe di recente o di prossima realizzazione.

Siccome, contemporaneamente, le grandi scoperte che hanno determinato la straordinaria crescita dei raccolti nella seconda metà del Novecento, le scoperte di un secolo di progressi senza precedenti della chimica e della fisiologia vegetale, hanno esaurito il proprio potenziale, e la genetica, cui sono affidate le speranze degli incrementi futuri, non è ancora padrona degli essere vegetali di cui si propone la trasformazione, si è diffusa, nel Pianeta, la consapevolezza che la terra costituisce risorsa finita e irripetibile, per la sua disponibilità si sono percepite le avvisaglie di uno scontro che potrebbe imporsi, domani, tra le chiavi del confronto politico internazionale. La più evidente, e drammatica: la decisione della Cina, un paese caratterizzato da una disponibilità di terre tale da non permettere una dieta diversa da quella basata sulla ciotola di riso, di comprare terra in Africa, sottraendola, nella realtà, al continente che conosce la fame in forma più drammatica e permanente.

Intervista a Norman Borlaug che ha posto al centro della sua attività la lotta alla fame Biblioteca Nuova terra antica

E' significativo che la Cina abbia intrapreso la propria politica di acquisizione di intere regioni africane contestualmente allo stanziamento dei fondi di entità maggiore destinati alla ricerca agronomica da qualunque paese della Terra, e alla decisione di tutelare dall'urbanizzazione una superficie di 120 milioni di ettari, il minimo necessario per assicurare l'approvvigionamento in cereali essenziali: se il riso si può produrre “in casa” la carne per i cinesi verrà dalle “colonie” africane

La terra agricola, è, quindi, con intensità senza precedenti, oggetto di contesa, di tutela, di programmi scientifici per accrescerne la produttività. Sono le circostanze che dissolvono, rendendoli risibili, i convincimenti che nell'ultimo trentennio hanno diffuso, nell'opinione pubblica europea, responsabili agricoli, opinion leaders di diversa formazione e la colorita compagnia di gastronomi e letterati che si sono improvvisati, nei lustri recenti, maestri di alimentazione e di sfruttamento delle risorse agrarie.

Mentre in paesi diversi, ricordiamo la Francia e gli Stati Uniti, non sono mancate le voci che hanno annunciato, con chiarezza, che si avvicinava il momento in cui la terra sarebbe stata la risorsa essenziale che ogni società politica avrebbe dovuto tutelare per assicurare le condizioni di vita delle generazioni future, in Italia il verbo di vati giornalistici e pseudoscienziati delle risorse naturali ha conosciuto un successo che ne ha imposto il credo anche ai ministri che vantavano competenze specifiche.

Una sola voce si è, in pratica, staccata da coro, quella di uno storico delle conoscenze agronomiche, Antonio Saltini, impegnato, vanamente, a richiamare l'attenzione sui dati degli istituti americani, che, sulla base dei rilievi, sempre più pervasivi, di cento satelliti, e delle relazioni degli addetti agricoli di cento ambasciate, il più agguerrito corpo di agronomi operanti al mondo, hanno continuato ad annunciare l'inevitabilità del momento della (cruda) verifica dei rapporti tra gli abitanti del Pianeta e la disponibilità di terre coltivabili.

L'attenzione di Saltini per quei rapporti aveva una matrice precisa: all'alba della propria attività di giornalista agricolo era stato incaricato, nel 1972, di studiare, per illustrarla sulle pagine di un periodico di agricoltura dal nome, allora, augusto, la prima seria crisi dei mercati cerealicoli del dopoguerra.

Alla cronaca aveva unito il commento degli studi di agronomi ed economisti agrari dei paesi diversi, dai quali non era difficile desumere che i fattori della crisi, che veniva risolta dall'esplosione delle produzioni, non erano elementi accidentali, ma permanenti del quadro agropolitico globale, e che, esauriti gli effetti delle grandi scoperte che non avevano espresso per intero il proprio potenziale, si sarebbero riproposti, entro pochi lustri, con drammaticità nuova a causa del numero maggiore degli uomini che avrebbero chiesto cibo alla Terra.

Visitando, nel 1980, l'agricoltura americana quale ospite del Department of agriculture degli Stati Uniti, Saltini riceveva dal sottosegretario di Stato Starkey, delegato dal presidente Carter ai rapporti con gli organismi della politica agricola comune europea, una delle prime dichiarazioni di guerra degli Stati Uniti alla politica della sicurezza alimentare varata, all'alba della Comunità, alla Conferenza di Stresa.

Era un'intervista storica: la guerra degli Stati Uniti alla sicurezza alimentare europea sarebbe stata dura e insistente, tutti i giornali europei si sarebbero schierati, unanimi, contro la politica della Comunità, di cui l'opinione pubblica avrebbe preteso, convinta dai maestri di giornalismo di tutte le ispirazioni, la dissoluzione. Avendo verificato, a Washington, nei giorni dell'incontro con Starkey, l'entità dei mezzi a disposizione delle lobbies agricole americane, gli organismi che gli agricoltori finanziano con qualche centesimo per bushel delle astronomiche produzioni federali, e la potenza dei grandi merchants of grain, Saltini si sarebbe sempre chiesto quale ragione nascosta avesse indotto l'intera stampa europea a schierarsi, unanime, contro i surplus europei, consentendo agli Stati Uniti di imporsi come l'unica potenza che disponesse di scorte utilizzabili in una futura crisi delle disponibilità mondiali, l'unica in grado, quindi, di negare o assicurare gli approvvigionamenti che avrebbero consentito, in un quadro di penuria, la persistenza o la dissoluzione del benessere in interi continenti.

Se l'opinione pubblica europea era stata condotta, dai media, a condannare, per surplus che la ragione diceva essere temporanei, la politica di sicurezza europea, favorendo, quindi, la strategia dell'agripower a stelle e strisce, quanto la scelta, una scelta strategica di valenza storica, poteva essere attribuita al potere di convincimento delle onnipotenti lobbies di Washington, quanto a miopia, o ottusità, della classe di governo europea? Del mondo politico, in particolare, del Bel Paese, dove gli aforismi brillanti, purtroppo infondati, di un gastronomo di successo si sono convertiti nel pensiero politico di almeno dieci ministri dell'agricoltura?

Sono gli interrogativi che oggi, di fronte all'esaurimento delle disponibilità dei suoli agricoli che può tradursi, domani, in penuria alimentare, i libri di Saltini, raccolte di studi, volumi sulla storia delle conoscenze agronomiche, un romanzo di fantapolitica del grano, propongono, con nuova, drammatica cogenza, al lettore convinto, dalle circostanze nuove, che prospezioni e riflessioni di un cultore di storia della tecnologia agraria per anni additato come un bizzarro ribelle ai maestri del pensiero collettivo, fossero l'analisi preveggente di una realtà che le amenità del gastronomo più brillante non sono più in grado di esorcizzare.

Allegato Comunicato stampa[modifica]

Scompare la terra: la causa? Gli astri malefici Il lettore rilegge il titolo, tre volte, incredulo, fino a dover riconoscere che quanto legge non è illusione. La cover story dell'ultimo numero di Agricoltura, il mensile dell'Assessorato regionale dell'agricoltura titola, esattamente, Il consumo del suolo è una minaccia inarrestabile.

I dati con cui il solerte redattore dimostra la drammaticità del fenomeno sono obiettivamente inquietanti: conquistando un ambito primato nazionale, la regione Emilia Romagna avrebbe coperto di cemento, nell'arco temporale compreso tra il 2003 e il 2008, dieci ettari di suoli agricoli ogni giorno.

È sufficiente una semplice moltiplicazione per verificare che il dato corrisponde alla sottrazione, alla sola agricoltura emiliana e romagnola, ogni quattro anni, della potenzialità produttiva di un milione di quintali di frumento. Siccome il pane quotidiano degli italiani corrisponde al fabbisogno di 70 milioni di quintali annui, e la sottrazione del suolo agricolo ha privato l'agricoltura nazionale, negli ultimi venti anni, della superficie equivalente a 60 milioni di quintali, che, per non rinunciare a colture diverse, l'Italia sarà per sempre costretta a importare, il contributo emiliano romagnolo alla distruzione della risorsa necessaria alla prima esigenza di qualunque società umana è palese e inquietante.

Se consideriamo la travolgente rivoluzione imposta ai mercati mondiali delle derrate dalla nuova domanda asiatica, e dalla decisione americana di convertire in carburante un quarto della propria produzione cerealicola, dobbiamo riconoscere di essere di fronte a un autentico delitto contro le generazioni future. Misurata l'entità della minaccia incombente sugli italiani di domani, il lettore del foglio regionale torna al titolo e l'incredulità si converte in un sentimento diverso. Il periodico ufficiale dell'Assessorato all'agricoltura della Regione proclama che la conversione dei campi sarebbe una minaccia inarrestabile, che significa tale che nessuno potrebbe arrestarla. Rilegge il titolo, verifica, in prima pagina chi diriga la preziosa pubblicazione, constata che è l'autorevole assessore all'agricoltura Tiberio Rabboni.

L'incredulità si converte in sconcerto, lo sconcerto assume le connotazioni dello sgomento. L'assessore Rabboni, erede di una lunga successione di “ministrini” della medesima formazione politica, che da un trentennio imboniscono gli elettori assicurando che il “modello di sviluppo” cui conformano la politica regionale dell'ambiente sarebbe un modello “sostenibile”, sottoscrive l'allarme per un processo che condannerebbe alla fame gli italiani di domani definendolo inarrestabile, cioè fuori da ogni possibilità di controllo da parte di chi governa la società e l'economia regionale.

Ma lo sviluppo regionale è processo di cui è possibile il controllo, ed è legittimo che vi sia chi proclama di indirizzarlo secondo i criteri della “sostenibilità”, o è fenomeno che si sottrae ad ogni umano potere, soggetto alle influenze di astri malevoli? Si dica agli elettori, allora, che non esiste assessorato regionale in grado di controllare il divenire dell'ambiente, e si riconosca, per coerenza, che chi si proclama tutore dello sviluppo “sostenibile” mente, mente giocando sul soddisfacimento dei bisogni essenziali delle generazioni future: una menzogna moralmente ripugnante.

Suggerito dalle riflessioni su un aggettivo, il dubbio della menzogna assale, prepotente, il lettore. Ma che davvero Tiberio Rabboni e, prima di lui, i predecessori nella pratica dello “sviluppo sostenibile” non abbiano mai percepito che l'entità della sottrazione dei suoli agricoli che si verificava in Emilia Romagna costituiva un autentico delitto verso la sicurezza delle generazioni future?

Che l'Assessore sostenga che la minaccia inarrestabile gli era ignota non è, verosimilmente, credibile: nel 2003 il presidente dell'Associazione regionale delle bonifiche, Emilio Bertolini, spiegava alla stampa che negli ultimi tredici anni nella Regione erano stati sottratti all'agricoltura 157.000 ettari, l'equivalente dell'intera provincia di Ravenna (la più piccola della Regione, ma è una consolazione?).

L'Assessore non legge quello che proclama urbi et orbi uno degli organismi più autorevoli che condividono con lui la gestione del territorio regionale? Siccome non è credibile che non abbia letto, che scriva che il processo è inarrestabile non è, obiettivamente, prova di onestà intellettuale. Dopo il dato pubblicato dal dottor Bertolini l'onestà avrebbe imposto a chi governa l'agricoltura regionale di proporre alla Giunta la revisione di tutti i piani comunali di sviluppo edilizio. Non lo ha fatto? Abbia il buon gusto di non imbonire più i cittadini ignari proclamandosi paladino della “sostenibilità”! Proposte le domande imposte da un titolo suggestivo sull'onestà intellettuale di chi amministra l'agricoltura regionale, una postilla è d'obbligo sulla tessera della medesima agricoltura costituita dalla provincia di Modena, la cui Giunta ha proclamato, in circostanze diverse, la propria ferma determinazione ad arrestare la conversione in cemento dei suoli agrari, pubblicando, peraltro, che quella conversione si misura, sul territorio provinciale, in 350 ettari all'anno (2005), entità enorme per un territorio in parte cospicua montagnoso, nel quale i suoli di reale valore agrario costituiscono peculio tanto minore, e tanto più prezioso. Se sono lodevoli, peraltro, i proclami, attraversare le campagne modenesi su una qualsiasi delle strade che le solcano impone il quesito sull'autorevolezza, la coerenza, l'onestà di chi li emana.

Percorriamo la Fondovalle Panaro: un piccolo borgo quale Marano ha sepolto, con una sola operazione edilizia, i meravigliosi terreni su cui fiorivano orti e frutteti tanto da raddoppiarne la propria ampiezza: se l'impresa è stata possibile dopo il solenne impegno degli amministratori provinciali a frenare la distruzione del territorio agricolo, o coloro che governano il paesucolo sul Panaro hanno violato regole che lo vincolavano, o chi, a Modena, ha bandito l'arresto dell'urbanizzazione selvaggia ha sparso al vento parole vane. Gli uni, o gli altri, hanno mancato, irreparabilmente, alla propria onorabilità. In un paese realmente democratico sarebbe ineludibile dovessero interrompere, al prossimo atto, la recita.