Poesia georgica
Tra le correnti dell'Alfeo e le rive dell'Adige
Seduce l'immaginazione del cultore di storia delle lettere l'alternarsi, nella successione delle età dell'uomo, di epoche nelle quali la coscienza collettiva ha identificato nella poesia la forma in cui fissare memorie e cognizioni, di epoche in cui essa ha preferito affidare alla prosa la registrazione di eventi e circostanze, la formulazione di conoscenze e idealità. Senza affrontare i quesiti seducenti e insolubili sulle ragioni della preferenza, nelle epoche diverse, di una o dell'altra forma di espressione, la considerazione del cammino delle scienze agrarie induce a rilevare come sia in epoche particolarissime che gli scrittori di cose rurali preferiscono affidare al verso il messaggio che intendono diffondere. Alla poesia abbiamo visto consegnare lo scibile agronomico il primo scrittore rustico della letteratura europea, il greco Esiodo, abbiamo constatato il suo ruolo di strumento didattico all'apice della parabola economica e culturale della civiltà romana; abbiamo visto ristabilito quel ruolo nel Rinascimento, quando la poesia rurale conosce in Italia la perfezione classica dei versi di Alamanni, in Inghilterra la spontaneità popolare dei versi di Tusser.
Spentasi, nella decadenza di un paese asservito, la tradizione agronomica di cui Alamanni è stato l'alfiere, dopo un secolo di silenzio infranto dalla bizzarra originalità del trattato di Tanara, a metà del Settecento in Italia il sapere agrario ritrova nella poesia la forma della propria espressione. Sono gli anni in cui nei laboratori degli stampatori di Londra e di Parigi vedono la luce i primi elementi della grande costruzione dell'agronomia dell'Illuminismo: solo l'amenità del verso attrae ai temi agronomici l'attenzione di un pubblico più aduso alle rime del melodramma che alle analisi della scienza e alle metodologie della tecnica.
Fenomeno singolare, in un paese dove ogni impulso d'indagine agronomica è da tempo sopito, assistiamo nell'arco di pochi lustri al fiorire di una letteratura rurale in versi ricca di autori e di opere, che affronta con proprietà i temi fondamentali dell'economia agraria della Penisola: la sericoltura, la viticoltura, la risicoltura, la coltivazione della canapa, il governo dei boschi, la cura dei giardini e degli orti. Con la stessa subitaneità con cui è fiorita essa si spegne, tuttavia, al prendere forma, anche nella cultura italiana, di una letteratura tecnico - scientifica in prosa. Altrettanto singolare della brevità della sua fioritura la comunanza di origine degli autori, in grande maggioranza veronesi, con le eccezioni del palermitano Costantino Costantini, del sardo Antonio Purqueddu, del romano Testa e dei napoletani Colimpio Polino e Giuseppe Macrini tutti veneti, lombardi, emiliani.
Una scuola letteraria è sempre espressione della società in cui cresce e si alimenta: nella poesia agronomica del Settecento ritroviamo i caratteri peculiari della cultura italiana dell'epoca, una cultura pervasa dall'ansia di superare le forme barocche, toccata dai fermenti del razionalismo europeo, incapace di tradurre gli impulsi che la incalzano in espressioni originali. La meta più ambita dei suoi protagonisti è l'appagamento del bisogno di novità senza sacrificare piacevolezza e amenità, istanze supreme di una nobiltà che ha rinunciato, in un paese sottomesso, ad ogni ambizione politica e militare. Metro di giudizio di ogni opera dell'ingegno sono gli applausi delle accademie, istituite a gara dalla borghesia addottorata, le ovazioni dei teatrini delle ville nobiliari, ove il padrone di casa offre agli ospiti l'ultimo melodramma di trama arcadica.
Espressione di una cultura il cui proposito supremo è la rievocazione di vicende amorose sulle rive dell'Alfeo, in tutte le opere della poesia didascalica settecentesca verifichiamo l'osservanza di rigidi canoni compositivi: primo, tra tutti, l'inserimento di cognizioni e precetti in un complesso ordito mitologico e allegorico, l'assunzione, quindi, dei riti pagani a termini di scansione dell'annata agraria, la trasfigurazione della vita campestre in paradigma di gentilezza e armonia: sono gli elementi della poesia rurale di Virgilio, le cui opere agresti costituiscono il modello della poesia georgica di tutti i tempi, per i poeti dell'età dell'Arcadia parametro di perfezione formale, fonte di contenuti, orizzonte di valori spirituali. Anche il verso accomuna le composizioni didascaliche dell'epoca: l'endecasillabo, sciolto o rimato, tra gli strumenti metrici della lingua italiana il più vicino, si deve ancora notare, all'esametro virgiliano.
Ordito mitologico, ispirazione pagana, esaltazione dell'amenità della campagna, composizione in endecasillabi: sono gli stessi caratteri sui quali ha modellato la propria opera Luigi Alamanni, per il quale Virgilio è stato modello e termine di imitazione essenziale non meno che per i letterati del Settecento. La genialità di osservatore ha consentito al cortigiano fiorentino di penetrare nel concreto della vita e delle opere rurali con tanto acume da fare della Coltivazione un quadro di scienza e tecnica agronomica di originalità ineguagliata dalla pleiade delle composizioni georgiche settecentesche.
Utile ammaestramento o piacevole diletto?
Identificati i caratteri della poesia agronomica del Settecento, ci offre un metro prezioso per verificarne gli orizzonti ideali, all'inizio del secolo successivo, il veronese Ippolito Pindemonte. Presentando la riedizione padovana della Coltivazione del riso di Giovanbattista Spolverini, anch'egli veronese, il più celebre dei poeti georgici dell'epoca, il traduttore dell'Iliade traccia un dotto Elogio dell'autore conterraneo, proponendo di rispondere al quesito della preminenza, nella poesia didascalica, dell'intento didattico o di quello estetico. Nella risposta che formula reperiamo la testimonianza più eloquente del ruolo che ai poemi didascalici attribuiscono i protagonisti della cultura dell'epoca:
«Poeta... è colui, che tutto vede, concepisce, dichiara poeticamente; che la scienza medesima veste d'un corpo, la colora, l'atteggia, e d'immagini l'orna, e d'affetti, non che d'armonia; ed a cui ciò ancora non basta, ove tratto tratto non iscappi in digressioni, saltando fuori dell'argomento, e al più vivo estro, che il prende, non obbedisca...
Sarà dunque fine di questi poemi, benché didascalici si chiamino, il diletto, e non già l'ammaestramento come vuolsi comunemente. Perciocché se lo scrittore dee colorire, animare, illuminar tutto, e servirsi d'un parlar figurato, che spesso mal può accordarsi con la precision filosofica... con qual coscienza potremo noi affermare, che abbia per fine l'ammaestramento? Ed io già non sostengo, che nulla s'impari in tali opere: sostengo, che tanto è lungi, che un lettore possa addottrinarsi in ciò, di cui trattano, che poco anzi le intenderà, se in ciò, di cui trattano, non si sarà addottrinato prima.
E scarso diletto anche ne trarrà. Conciossiachè come potrebb'egli ammirar la difficoltà, che lo scrittore valorosamente vinse, in vestir gli oggetti, se questi oggetti medesimi è non ha prima nella lor nativa nudità conosciuti? Tutto ciò posto, io veramente non so vedere, perché didascaliche, cioè istruttive, si chiamino tali opere, quando assai meno insegnano di alcune altre, cui non dassi un nome così superbo...»
È la formulazione di una concezione della poesia di cui si può rilevare il fatuo estetismo, di cui non si può negare la coerenza alle proprie premesse: una conferma di quella coerenza Pindemonte ci offre riferendo, nel corso del proprio argomentare, il giudizio sulle Georgiche del maggiore degli agronomi italiani del suo tempo, Filippo Re, che commentando i versi del poema latino ha osservato che «la poesia... sfigura o rende men vera qualche regola, o qualche fatto».
Riconosciuta la fondatezza dell'osservazione di Re, coerentemente alle proprie enunciazioni Pindemonte ribadisce che l'alterazione della realtà nulla toglie alla levatura dell'opera, del cui valore di modello è anch'egli assertore immune da dubbi. E l'espressione inequivocabile delle proprie convinzioni offre quando, a conclusione del proprio elogio, dichiara l'opera di Spolverini superiore a quella di Alamanni. Pure riconoscendo, infatti, allo scrittore fiorentino proprietà e leggiadria, per Pindemonte il conterraneo sarebbe «scrittore più ricco di affetto, di vigoria, d'entusiasmo», siccome nei suoi versi «non discerni altro segno di fatica nel suo lavoro, che del lavoro la squisitezza.»
Assunta l'armonia delle forme quale canone di perfezione, nel lavoro di Spolverini, orpello meticoloso di immagini ridondanti e di pedisseque divagazioni, dovrebbe riconoscersi una composizione più coerente ai canoni del bello dell'opera geniale e frammentaria dell'Alamanni, segnata da tanto frequenti trascrizioni dai classici da essere definita da Pindemonte opera di letterato dedito a saccheggiare. La penetrazione dei fenomeni naturali, la precisa descrizione di strumenti e operazioni non valgono ad attenuare un giudizio ispirato a canoni estetici protesi ad un ideale di armoniosa, ineffabile vacuità.
Le fonti di ricchezza delle campagne padane
La constatazione, che impone la concezione poetica di Pindemonte, del carattere retorico delle composizioni didiascaliche di soggetto rustico non determina, peraltro, la loro esclusione dall'alveo delle espressioni del sapere agronomico: creature quanto si voglia evanescenti, sono l'espressione più significativa della cultura agronomica dell'Italia alla metà del Settecento. Protagonisti della vita intellettuale del proprio tempo, i poeti georgici sono interpreti dello spirito con cui il mondo delle accademie riflette sui temi della scienza, esprimono nelle proprie composizioni i convincimenti con cui i ceti colti affrontano i problemi dell'economia e dell'agricoltura. La loro opera ci offre una testimonianza insostituibile delle modalità di divulgazione dei temi della produzione agraria nella società settecentesca.
Del significato di testimonianza è prova innanzitutto l'oggetto delle opere, dedicate ad attività caratteristiche dell'economia rurale padana: quasi tutti gli autori, abbiamo rilevato, sono veneti, lombardi o emiliani. Tra i temi che affrontano suscita un'autentica gara l'allevamento del baco da seta, oggetto di una pluralità di composizioni: ricordiamo quella di Gianfrancesco Giorgetti del 1752, quella di Zaccaria Betti del 1765, le più significative, Il Cavaliere, o sia Verme da seta di Panfilia, il trattato in prosa e in rima che Colimpio Polino stampa a Napoli nel 1762, l'opera in latino di Ludovico Lazzarelli, stampata nel 1765, quella in sardo con traduzione in versi italiani di Antonio Purqueddu, stampata nel 1779, quella latina, infine, di Luigi Miniscalchi, stampata nel 1792. Versificano sulla coltura della vite Francesco Alberti, Antonio Pellizzari, nel 1792, e, in latino, il napoletano Giuseppe Macrini. Scrive sulla coltura della canapa, nel 1741, il ferrarese Girolamo Baruffaldi, su quella del riso, nel 1757, il veronese Giambattista Spolverini. Giovanni Battista Roberti, il dotto religioso che ricolma un'intera biblioteca di operette morali, favole e raccolte poetiche, verga, nel 1754, un poemetto sulle fragole, il tema che riprende, nel 1791, Basilio Davico. Giambernardo Vigo versifica in latino, nel 1776, sulla raccolta dei tartufi. Pubblica, nel 1778, il poemetto Della coltivazione dei monti il sacerdote veronese Bartolomeo Lorenzi, pubblica Le piante, nel 1779, l'algarese Domenico Simon. Scrive sul contesto complessivo delle pratiche agrarie Pietro Agnoli, autore de L'agricoltura, La giornata villereccia è il tema della composizione di Clemente Bondi, stampata nel 1791, Il disseccamento delle paludi pontine del poemetto che pubblica, nel 1778, D. Testa.
Il proposito di penetrare lo spirito, e di misurare il valore delle cognizioni scientifiche e dei precetti tecnici dei poemi didascalici dell'età dell'Arcadia impone di esaminare il disegno ed i versi più significativi di quelli che si possano reputare espressione emblematica dell'intera costellazione. Avanzano la propria candidatura a rappresentare la poesia georgica settecentesca la composizione di Baruffaldi sulla canapa, quelle di Giorgetti e di Betti sulla bachicoltura, quella di Spolverini sul riso.
Lazzi contadineschi durante i lavori del canapaio
Segna, nel 1741, l'alba della stagione della poesia didascalica Il canapajo di Girolamo Baruffaldi, arciprete di Cento, il cui ricco beneficio consente al titolare, sulle orme di abati e canonici dei secoli passati, di vivere tra gli svaghi della lettura e della composizione poetica. Baruffaldi scrive di antichità ferraresi, si cimenta, contro Muratori, in indagini di storia giuridica, si dedica con passione alla poesia ditirambica, nella quale cerca, vanamente, di eguagliare lo spirito irridente di Francesco Redi. Il gusto del ditirambo informa anche il poemetto didascalico, che si distingue tra le composizioni coeve per la commistione ai moduli classici di un'espressività colorita e grossolana, per il piacere di tradurre in italiano il motto dialettale, le peculiarità che imprimono al Canapajo un tono colorito e popolaresco, facendone opera anomala tra le creazioni contemporanee, dalle quali si distacca avvicinandosi alla poesia farsesca.
Gli scambi di salacità tra contadini e contadine, risse e amori campagnoli, e, soprattutto, gli olezzi che salgono dalle concimaie e dal macero, sono per il poeta ferrarese i temi più fecondi di ispirazione:
«Lungi chi le narici ha delicate,
Lungi di qua: questo mio Canto è tutto
Puzzo, e lordura stomacosa, e grave,
Che non da tutti di leggier si soffre.
Ma qui, se tu nol sai, qui in questo lezzo,
..........................................................»
scrive il prevosto di Cento in apertura del settimo libro, compiacendosi del moto di ripulsa del lettore alla gamma di mali odori che si appresta a evocare.
Tema dell'opera, ripartito in otto brevi canti, il ciclo della canapa, la successione delle opere che abbiamo reperito, sintetizzata in poche, precise pagine, nell'Economia di Tanara. Tre arature intercalate a due somministrazioni di concime, un'eventuale vangatura, la semina, accompagnata dall'ultima distribuzione di concime, le scerbature, il taglio, l'essiccazione, la macerazione, la gramolatura: le fasi successive di un ciclo produttivo consacrato da una tradizione millenaria, sono illustrate da Baruffaldi con chiarezza e attenzione per ogni dettaglio operativo. Anche nella dovizia dei precetti tecnici non percepiamo, tuttavia, nelle pagine del poeta ferrarese, un solo verso che esprima la penetrazione dei processi biologici che si succedono nel corso della coltura, né un'annotazione originale sui procedimenti agronomici e manifatturieri che ne costituiscono i segmenti.
Un esempio significativo della capacità di osservatore empirico dell'autore ci offre, nel secondo libro, la descrizione del lavoro di vangatura:
«Chi vuol la terra sviscerar davvero,
E trar dal bujo le più occulte glebe,
..............................................
Usi la Vanga, e 'l Vomero abbandoni.
La ferrea vanga a morder fu la prima
Il terren duro nell'età d'argento,
E tolse al campo il natural suo seme.
..................................................
E 'l suppedaneo, o sia 'l ferreo vangile,
Su cui col destro piè si calca, e aggrava
Per conficcarla drittamente ingiuso,
Due palmi almen nel manico sovrasti;
Così che ogni fiata nullameno
D'un piè di terra penetri, e ricavi
…...........................................
Caggiono in tempo tal, briciole, e gromme
Nel solco fatto, e il prode Vangatore
Col medesimo ferro ha da ritrarle,
Sicché sia il taglio ognor pulito, e terso
Come canal, che per ruscel sia puro.
Rinculando così di filo in filo
Giusta la presa via, vedendo andrai
Sempre terra novella alzar la cresta,
E dir (se mai possibil fosse udirla)
Anch'io d'esser feconda ho disianza,
Anch'io sospiro di vedere il Sole.»
Non è meno efficace, nel sesto libro, l'immagine del taglio degli steli maturi, e della loro riunione in fastelli, che dopo qualche giorno saranno aperti a capannella per completarne l'essiccazione:
«E uno, e due, e quanti afferrar puoi,
Col pugno, e sottometter al tuo braccio,
Recidi pur sin dal più basso piede,
E quanto puoi, vicino alla radice;
E sappi, che la Canapa nel piede,
Piucchè altrove del corpo, have il suo pondo.
..............................................................
Pien che di questi tronchi 'l fianco avrai,
Piegali in terra su lo stesso campo,
Che t'avrai fatto raso: ivi deponli,
A bracciata, a bracciata, e ben distinti,
L'un vicin, ma non all'altro appresso,
Con la vetta visibile al difuori,
Sicché componga una catasta, a fascio
...................................................
Abbattuta così, così prostesa
In terra la tua Canape del tutto,
E dal cocente Sole arida fatta,
Nuovo lavoro a ripigliar t'accingi.
Dove già cominciasti 'l primo taglio,
Ivi ti porta, e così ogni altro al suo
Posto primier della primaria fila.
Ivi rialza pur da terra i fasci,
L'un dopo l'altro, e in rialzarli, scuoti
La vetta lor, sicché l'aride frasche
Spoglj, e non abbia più capellatura.
Poi dritto in piedi ogni tuo fascio pianta,
Che l'un d'appoggio all'altro serva, e in tanto
Fanne tu pira in quel medesmo campo,
In vetta aguzza, come nell'Egitto
Le Piramidi già soleano alzarsi.»
Compiuta l'essiccazione, gli steli dovranno essere riuniti in mannelli di lunghezza omogenea, che saranno a loro volta raccolti in fasci maggiori per essere immersi nel macero. Per la ripartizione degli steli secondo la lunghezza, i contadini di Cento usano un apposito pancone, che Baruffaldi descrive con tratti incisivi:
«Porti ogni squadra i fasci suoi nel campo
Nuovamente, e gli appoggi a cavalcioni,
O d'una scala, o d'un bancon, che quattro
Abbia piedi, e bicorni abbia i due capi.
.............................................................
Questo è 'l tempo, che 'l buon cultor distingua,
E scevri i brievi da i più lunghi arbusti,
Per la vetta ciascuno a se traendo,
(Perché non tutte ad un'egual misura
Suol natura produr l'erbe, e le piante)
Così le brievi con le brievi accoppia,
E le più alte con le gigantesche,
....................................................
Quelle manate, che fin'ora in pugno
Strigner potevi, tempo è d'impinguarle,
Sicché di trenta al più legate, e strette
Se ne componga un ben polputo fascio
Con arte tal, che le manate corte
S'inventrin dentro, e fuor rimangan sole
Le più eminenti, e facciasi eguaglianza,
La qual, perché non si disciolga, ai capi
Cinger forte convien di vinci, o rovi,
Che vagliano a durar tenacemente
Per tutto 'l tempo, che in maceratoio
Quai malfattori, rimarran sepolti.»
La macerazione, la stigliatura, la gramolatura
È dalla cura con cui si svolga la macerazione, lo ha sottolineato Tanara, che dipende l'esito di tutte le fatiche della coltura: le condizioni per il miglior svolgimento dell'operazione sono la disponibilità di un macerato io ben costruito, di acqua dalle caratteristiche convenienti, l'accurata disposizione dei fasci nello stagno, l'esatta a scelta del tempo dell'estrazione, che deve coincidere con il momento in cui gli agenti della fermentazione hanno consumato la lignina degli steli, senza averne ancora intaccata la fibra, che rappresenta il prodotto della coltura.
Ricordata la necessità di proporzionare le dimensioni del macero alla quantità di canapa coltivata annualmente nel podere, e ripetuti, per la scelta dell'acqua, i suggerimenti di Tanara, Baruffaldi dedica uno spazio particolare alla posa dei fasci sul fondo della fossa:
«Aperto un tal sepolcro, e di tant'acqua
Ricolmo sì, che da se stesso vaglia
De' tuoi fasci a coprir tutta la mole,
Fa, che di tratto in tratto, ivi piantate
Nel lezzo sien varie, dirò colonne,
In linea retta, e in pari ordin disposte,
....................................................
Come prigioni, i fasci tu dovrai,
L'un presso l'altro, e sovraposti ancora,
Giusta 'l profondo sito, e giusta l'acqua,
Che vaglia a ricoprir quanto riponi.
Ma perché fitti stian i fasci, e immoti,
Né (perché legno son) galeggi alcuno,
D'uop'è aggravarli d'alcun peso, ond'abbia
Modo ciascuno d'ivi immobil starsi;
E intanto macerar le tue corteccie,
Senza, che vento le dibatta, o tragga
Da un lato all'altro, e si sfilacci 'l tiglio.
Or questo peso è ciò, da cui dipende
Del tuo felice macerar gran parte.»
La durata della macerazione dovrà essere misurata sull'andamento della stagione: se il tempo sarà caldo e sereno saranno sufficienti cinque giornate a liberare la canapa dagli steli, ne occorreranno otto se il tempo sarà più freddo e umido. In ogni caso dovrà essere cura dell'agricoltore controllare sistematicamente il corso del processo: a tal fine estrarrà periodicamente alcune verghe per verificarne lo stadio di macerazione.
Appena constaterà la separazione della corteccia dal midollo, i fasci dovranno essere tolti dall'acqua, e aperti di nuovo a forma di piccole piramidi ad asciugare al sole. Quando saranno asciutti verranno portati al coperto: potrà allora avere inizio la separazione della fibra dal canapulo. Nella descrizione di Baruffaldi l'operazione si realizza in due tempi: la prima consiste in una battitura mediante mazze, la seconda è costituita dalla gramolatura. Scrive l'arciprete di Cento nell'ottavo libro del poemetto:
«Un Panconcello dai tre piè, ma largo
Da un lato, e lungo sia fino all'estremo
Sempre più angusto, e ad un sol piè ridotto.
Al lato largo chiama una gagliarda,
E allegra insiem donna, o fanciulla, e questa
Sieda a schimbescio sulla sponta,...
Così i due prodi Garzoncelli alzando
O la mazzuola, o 'l mattarel che sia,
Stanno i lor colpi a scaricare intenti
Sulla manata prima, che lor porge,
La donna accorta al Panconcello in riva,
.............................................................»
La seconda operazione può essere realizzata, spiega Baruffaldi, con una gramola semplice, o cavallo, o con una gramola doppia:
«Que' fastelli, cui già rotte fur l'ossa,
E attortiglione in cumulo fur messi,
Passano ad altra man, per nuovo ancora
Soffrir martiro, e meglio raffinarsi.
Vedrai due nuovi Panconcelli in piedi,
Disposti sì, che l'un dia loco all'altro,
...................................................
Grametto uno s'appella, o sia maciulla,
Su quattro piè fermo così, che sembra
Il Cavallo, che tien scuola di salto.
Sul dorso apre un canale, od una fossa
Profonda sì, che non ha fondo alcuno;
E in essa (come 'l Bue nelle narici)
La lingua ognor chinando và bifulca
Lungo 'l canal, ed or s'alza, or s'abbassa,
.........................................................
Gramola è l'altra, ed è simile affatto
Ne' i piedi, ma nel dorso apre due fosse
Eguali a quelle del Grametto, e in tutto
Parallele così, che ben diresti
Nacquero tutte ad un medesmo parto,
In queste fosse anche due lingue vanno
Calando già nell'atto del lavoro,
…………………………………..»
Ripulita dalla gramolatura, selezionata secondo la lunghezza delle fibre, ravvolta in matasse, la canapa è pronta ad essere offerta ad un mercante, che la dirigerà a una delle cento città marinare della Penisola, «A Vinegia, a Livorno, a Sinigaglia», dai cui arsenali nessun vascello potrebbe prendere il mare se a sospingerlo non fossero vele e cordami ricavati dal prezioso prodotto dei poderi ferraresi.
Morfologia e anatomia del baco da seta
Il secondo ed il terzo dei poemetti agronomici della nostra rassegna sviluppano il medesimo tema, la coltura del baco da seta: Il filugello o sia il baco da seta di Gianfrancesco Giorgetti, religioso secolare, vede la luce a Venezia nel 1752, Il baco da seta di Zaccaria Betti viene pubblicato a Verona nel 1756. Oltre all'identità dell'oggetto è l'analogia tra più di una delle notizie riportate, persino tra le immagini proposte dalle due opere, a indurre a identificare nella seconda il frutto di un lavoro probabilmente iniziato, per coincidenza non inconsueta nel mondo delle scienze e delle lettere, prima della stampa dell'opera omologa, proseguito, dopo la pubblicazione della medesima, assumendone il contenuto come termine di riferimento, con le conseguenti, inevitabili assonanze.
Ognuno dei due scritti rivela comunque caratteristiche specifiche, pregi e limiti peculiari: sviluppando un disegno espositivo alquanto sintetico, Giorgetti, dotto traduttore di poemi stranieri, ripartisce la materia in tre brevi libri, i primi due dedicati alla coltura del gelso e all'allevamento dei bachi, il terzo alla lavorazione della seta. Proposto, nel primo libro, l'esame dell'anatomia dell'insetto negli stadi vitali diversi, che illustra secondo le cognizioni più aggiornate, affrontando i temi di carattere più propriamente agronomico, non illustra pratiche di coltura né regole di allevamento sostanzialmente nuove rispetto ai precetti di bachicoltura di Gallo e Olivier de Serres. Propone qualche ragione di interesse, invece, nell'ultimo libro, la descrizione delle apparecchiature impiegate nella trattura e nella filatura. Riconosciute nelle cognizioni anatomiche la parte più originale del poema, apprendiamo, dalle annotazioni raccolte nell'appendice, che l'autore le ha tratte dagli studi di Antoine de Réaumur, Anton van Leeuwenhoek, Johannes Goedaert, e, soprattutto, dal capolavoro sul filugello di Malpighi. Traducendo in versi nitidi e decorosi, seppure non privi di qualche dissonanza, analisi morfologiche tanto dettagliate, Giorgetti offre una prova indiscutibile di abilità letteraria. Esemplare di quell'abilità, nel primo libro, la descrizione dell'apparato respiratorio e di quello circolatorio:
«Innoltre le trachee, che son que' vasi,
Che a guisa di catena il corpo tutto
Sino all'estremo vanno trascorrendo
Dall'una all'altra parte, con le varie
Lor produzioni vengono a formare
Gli pulmoni, onde scorgesi fornito
Ogni anello del Baco; in quella guisa
Che nelle Vespe si ravvisa e l'Api,
E in altra fatta di simili Insetti.
Ciascun pulmone ha il proprio suo orificio;
E in quelli si ravvisa neri punti,
Per i quali l'aere s'introduce ed esce,
Per luogo dare ad altro aere novello.
..................................................
Lungo il dorso tra i muscoli e i pendenti
Pulmoni, vi sta il cuore collocato;
Che per il corpo tutto si dilunga
Dall'uno all'altro estremo, insiem tessuto
Di membrane sottil che in varj tempi
Veggionsi tinte a diversi colori.
.........................................
Nel Filugello è un tubo sol rotondo,
Ch'or allargato sembra, ed or ristretto:
E il proprio moto, come avvenir suole
Nei Sanguigni animali, anch' esso serba,
Voglio dire di sistole e diastole.
Veggionsi serpeggiare intorno ad esso
Delle trachee gli rami...»
Proseguendo la descrizione dell'insetto, non è meno penetrante l'illustrazione che il poeta veneto propone dell'apparato digerente, delle ghiandole serifere, del sistema nervoso. Delineate le trasformazioni morfologiche dell'insetto nel succedersi delle mute che ne scandiscono la vita larvale, con la medesima penetrazione Giorgetti descrive l'anatomia della crisalide, lo stadio della vita in cui, avvolta nel bozzolo, la larva si trasforma in farfalla:
«Di forma ovale è la Ninfa, e composta
Di transverse sezioni, che scemarse
Del capo e l'ano veggionsi agl'estremi.
La parte superior fregiata viene
D'un certo corpo alquanto sollevato,
Che a uno scudo potrebbe assomigliarsi.
Sopra d'esso v'è il capo, e d'ambi i lati
Due prominenze vanno in giù scendendo,
Che inverso il basso ventre terminate,
Ne ascondon l'ali, e tutto il rimanente
Del corpo giunto insiem con otto anella;
E una citrina linea il dorso addita.
Nel corpo tutto, e più nel basso ventre
Si osservano cert'altre prominenze,
Che servono a nasconder l'altre parti
Del novello animale, in cui ben presto
Trasformare si deve il Filugello...»
La medesima abilità che ha mostrato nell'esame dell'anatomia dell'insetto nelle diverse fasi della vita Giorgetti rivela, nel terzo libro, nella descrizione degli apparecchi e delle procedure per la trattura, la filatura e la tessitura della seta, un tema cui ha dedicato la propria attenzione, abbiamo rilevato, Olivier de Serres. Per chi dal confronto dei testi volesse desumere, tuttavia, i progressi che la tecnica sericola ha realizzato dall'epoca dello scrittore francese, i versi pure nitidi e precisi di Gianfrancesco Giorgetti non costituiscono fonte sufficiente né completa. Al poeta veneziano deve comunque riconoscersi il merito di enucleare con lucidità le ragioni del primato padano nell'industria sericola europea. Favorite dal clima più propizio per la crescita dei gelsi, le pianure bagnate dal Po, dall'Adige e dal Brenta producono i filati che, acquistati dalla Francia, dall'Austria e dalla Germania, si trasformeranno in veli, damaschi e broccati nelle manifatture di Vienna, di Dresda e di Lione: una constatazione che palesa la ragione della ricchezza che la produzione sericola, un monopolio conteso invano dalla Francia e dalla Spagna, assicura, nel Settecento, alle campagne della Penisola.
Non meno interessante del poemetto la lunga Dissertazione sopra l'origine della seta che Giorgetti colloca in appendice: tema anch'esso affrontato da Olivier de Serres in pagine ricche di notizie preziose, a metà del Settecento la storia della coltura è al centro dell'attenzione e delle ricerche della nuova storiografia illuminista. Le acquisizioni assicurate dagli studi di eruditi e filologi consentono al religioso veneziano di svilupparne l'ordito raccogliendo con dovizia testimonianze di fonte greca e latina: il frutto del suo lavoro è un panorama dovizioso e multiforme di quanto è stato scritto nel mondo antico su una produzione che un rilievo tanto significativo ha rivestito nella storia dell'agricoltura, dell'industria, dei commerci del Vecchio Continente.
Cura dei gelsi e igiene dei bachi
Tra gli elementi che distinguono dall'opera di Giorgetti il secondo dei poemi settecenteschi sulla sericoltura, Il baco da seta del veronese Zaccaria Betti, possiamo identificare il più appariscente nello spazio maggiore che Betti dedica alla coltura del gelso, oggetto dell'intero primo canto. Seppure ampi e dettagliati, i precetti di gelsicoltura dell'autore veronese non ci offrono elementi originali: proposta una classificazione delle varietà coltivate più elementare di quelle di Gallo e Olivier de Serres, il poeta formula alcuni precetti per l'esecuzione dell'innesto, insiste sulla necessità che lo sfruttamento delle piante non abbia inizio prima del terzo anno, sottolinea l'utilità dell'accurata vangatura delle piante all'inizio della primavera e della loro rincalzatura in autunno. Conclude il canto il suggerimento di utilizzare il secondo manto di foglie della pianta per l'alimentazione invernale del bestiame, e l'illustrazione dei pregi del legno di gelso per i lavori di ebanisteria.
Il secondo canto è dedicato alle prime fasi dell'allevamento, innanzitutto la scelta del seme, la cui buona qualità rappresenta la prima delle condizioni per l'esito della coltura. Nell'alternativa tra produzione domestica e acquisto di seme forestiero, Betti sostiene con calore che ricavando dai propri filugelli il seme necessario per l'anno successivo l'agricoltore eviterà l'inganno dei mercanti, le cui frodi rendono affare insicuro anche l'acquisto del rinomato seme di Bergamo, di Bologna e della Sicilia.
Dopo aver invitato a diffidare dei raggiri dei negozianti, l'autore veronese sottolinea che per ottenere nuovo seme l'agricoltore non dovrà nemmeno fidarsi della credenza superstiziosa secondo la quale i bachi da seta potrebbero prendere vita dalla carne putrida di un vitello alimentato con foglie di gelso, il sortilegio di cui abbiamo veduto proclamare l'efficacia Olivier de Serres:
«Ben già vi fu chi con crudele inganno
Sparse menzogne a' creduli cultori;
E insegnò lor di rinnovare il gregge
Con l'ossa putrefatte di vitello,
Che per venti girar di giorni e notti
Sol di fronda di Moro ebbe suo cibo.
Ma tu saggio che sei, del teso errore
Fuggi da lunge il danno, e a miglior opra
Col giovin Toro i tuoi sudor riserba.»
Comunque siano state procurate le uova, per essere certi della loro vitalità Betti ripropone l'accorgimento di Gallo di immergerle in un bicchiere di vino, che per l'autore veronese dovrà essere vino frizzante di Valpolicella:
«E tu con le tue man spumante coppa
Porta del grato umor, che a noi produce
L'amena Pullicella a Bacco sposa,
In cui lavi il Pastor l'ova novelle,
E per tre volte cautamente immergale;
E se scorge egli mai fra l'aurea tazza
Chi nel puro liquor galleggi e s'erga,
Lunge, deh lunge sia, che indarno ei tenta
Farlo sacro a Ciprigna, e l'offre in vano.»
Sottolineato che l'antica usanza di provocare la schiusa delle uova affidandole al calore del seno di una contadina deve ritenersi più sicura dell'uso di una stufa, Betti si preoccupa che l'incubazione venga iniziata quando i germogli dei gelsi siano sul punto di aprirsi, così che al momento della schiusa delle larve siano disponibili le foglie necessarie alla loro alimentazione. Se, tuttavia, l'allevatore vorrà anticipare i tempi della schiusa, un'operazione nei cui confronti Gallo ha raccomandato la maggiore cautela, potrà impiegare foglie di rovi o di lattuga, o indurre, tramite un ingegnoso espediente, i gelsi a germogliare precocemente:
«Guarda però che la già estinta prole
A la dolce vitale aura non chiami,
Prima ch'apran le fronde i tardi Mori;
....................................................
Non disperar però, che 'l Cielo aita
Darti ancor puote, e le novelle cime
Sfronda de' verdi rovi, o pur li pasci
Con fronde di lattuga, o d'agrifoglio.
....................................................
Che se pascergli ancor de la lor fronde
Cerchi il saggio Villan, di pochi Gelsi,
Ch'abbian veduti cinque verni, intorno
Di caldo umor sì che non porga offesa,
Le radici egli innaffi, e posto in moto
Da opportuno calore il freddo sangue,
Romperà la corteccia il picciol germe,
Che neghittoso pria vinto dal freddo
Si facea d'essa veste; e poi raccolte
Le molli foglie, al suo desir seconde.»
Dalla schiusa delle uova l'alimentazione delle larve dovrà costituire il primo impegno dell'allevatore: la foglia deve essere somministrata ai bombici in quantità proporzionata alle necessità della fase della crescita, che procede scandita dalla successione delle mute. Oltre a misurare la quantità, l'allevatore dovrà prestare la propria attenzione anche alle caratteristiche dell'alimento, alle quali Betti dedica l'ultima parte del secondo canto: le foglie dovranno essere raccolte ogni giorno per l'impiego in quello successivo, così da essere somministrate leggermente appassite, una precauzione che già abbiamo rilevato tra le raccomandazioni di Gallo.
Il terzo canto illustra la successione delle mute, che il poeta veronese descrive con penetrazione anatomica e morfologica alquanto inferiore del predecessore. Un certo interesse riveste, peraltro, l'esame di alcune delle malattie che possono colpire le larve, determinandone la morte e vanificano il lavoro del coltivatore. Alla descrizione dei sintomi Betti aggiunge la prescrizione dei medicamenti di cui dispone la pratica del tempo:
«Che se de l'Adria minacciosa i campi
Lasci carco di pioggia Euro, e discorra
Con l'umid'ale i mal guardati alberghi,
O lunga pioggia, o trista nebbia invecchi,
Lasciato il cibo, e lucida la pelle,
Fattosi pigro il sangue, il verme cresce;
Quindi poi si vedrà che un pigro umore
Versa dal corpo, e con l'umor la vita.
Vidi tal volta a ciò giovar chi al Cielo,
Se sia puro e seren, gl'infermi espose;
Perché il placido orezzo il tristo bea:
E chi di parco cibo ornò le mense,
Onde il molto digiun lor purghi il sangue;
E giovò ancor con timo accender fiamma,
Che sveglia spirto l'odorosa auretta.»
In un'apposita nota Betti spiega che la malattia che descrive è stata definita dai naturalisti leucoflegmazia: la precisione della descrizione dei sintomi ci consente di identificarla con quella che i primi biologi che studieranno le parassitosi dei bachi da seta definiranno idropisia. Alla sua descrizione il poeta veronese aggiunge quella di malattie diverse, della maggior parte delle quali identifica l'origine in turbe fisiologiche causate dalla disattenta osservanza delle regole dell'allevamento: somministrazione di foglie umide, negligenze nel ricambio dell'aria, o nel controllo della temperatura, nei locali che ospitano le bigattiere, dove è indispensabile conservare l'aria pura ed una temperatura costante.
Concludendo la descrizione del ciclo d'allevamento, il quarto canto illustra le operazioni con le quali dai bozzoli si ricava il primo semilavorato dell'industria serica: la seta greggia. Anche sul terreno della tecnologia sericola i versi di Betti non offrono elementi particolari di originalità: le operazioni che illustra sono, ancora, quelle descritte da Olivier de Serres, riproposte, meticolosamente, da Giorgetti, le pratiche cui gli autori dei decenni successivi dedicheranno analisi tecnologiche assai più organiche e minuziose. Il poeta veronese ripete, ad esempio, l'esame delle cause di deterioramento dei bozzoli, che possono essere guastati dall'impropria esecuzione della devitalizzazione, che suggerisce di eseguire mediante l'esposizione al sole o il riscaldamento in una stufa. Annota altresì che sussiste il pericolo della colonizzazione dei bozzoli da parte di un parassita che per nutrirsi della ninfa perfora la galletta infrangendo il filo di seta:
«Talvolta suol possente il foco i chiostri
Penetrar de la ninfa, e quella accesa
Da l'ardente virtù s'agita, e sveglia:
Curvasi in mille guise, ed ampie bocche
Aprono al sangue ed a la vita il varco;
E poi restan così macchiate e tinte
De la tabe crudel tutte le fila.
Ne l'immondo liquor serpeggia intanto
Picciol verme, e si pasce, e i chiusi alberghi
De l'estinto animal vince e penetra,
E si fa d'altrui spoglia ed esca e tetto.»
Anche il poema di Betti è seguito, in appendice, da una lunga Dissertazione istorica intorno la seta: una prova, ancora, del proposito dell'autore veronese di emulare l'opera di Gianfrancesco Giorgetti. Rispetto al saggio storico del sacerdote veneziano lo scritto di Betti propone, comunque, più di un elemento originale: come abbiamo notato confrontando il disegno espositivo dei due poemetti, se il contenuto del secondo induce a supporre l'imitazione, le differenze, pure non trascurabili, impongono di prosciogliere Betti dall'imputazione di plagio.
Il confronto delle dissertazioni offre la conferma dei parallelismi, prova, insieme, la relativa autonomia delle due opere. Non può non rilevarsi, anzi, come le notizie proposte dai due saggi compongano, insieme, una raccolta probabilmente completa dei dati e delle notizie sulla bachicoltura e sull'economia della seta che è possibile reperire nei testi classici e medievali, una fonte di informazione e di dati bibliografici di precipuo valore per chi si proponga di approfondire la storia di una produzione che un ruolo tanto essenziale ha svolto nella storia dell'economia europea. Integrano l'appendice quattro dotte lettere dell'autore ad Antonio Zanon, il saggista friulano nella cui opera economica identificheremo il manifesto della nuova enologia italiana.