La Letteratura latina tra la guerra Tarentina e le guerre d'Oriente (superiori)
I primi contatti tra il mondo romano e la cultura greca non furono privi di equivoci ed incomprensioni. La classe patrizia e dei ricchi plebei da prima usava la letteratura greca come schema su cui adattare i racconti celebrativi delle proprie gesta. Pensiamo a Livio Andronico che traduce i poemi omerici introducendo allusioni all'Occidente. Ennio che con i suoi Annales celebra le glorie patrizie dando forma omerica ai carmina convivalia. Livio Andronico, Pacuvio e lo stesso Ennio poi portarono a Roma la poesia drammatica greca. Ma la letteratura che si importò a Roma non fu quella greca contemporanea ma quella tradizionale dell'età ionica ed attica. Gli autori latini, infatti, come tutti gli autori periferici alla cultura greca, si sentivano legati più alla cultura tradizionale. Gli autori più ingegnosi, come Ennio, non si fecero scrupoli di portare a Roma e quindi di immettere nella cultura romana elementi della cultura greca (si pensi ai suoi scritti sulla teorie filosofiche di Epicarmo e di Evemero quando a Roma ancora non era ben vista la filosofia). Caso inverso invece avvenne con Nevio in Campania che invece adattò la cultura greca all'anima popolare. Nelle sue opere infatti il vetusto saturnio prende il posto del metro greco e negli stessi poemi di gesta leggendarie di origine greca non sono celebrate le gentes patrizie ma i cittadini afflitti dalla seconda guerra punica. Inoltre fonda la tragedia d'argomento romano, cioè la fabula praetexta. Nasce così anche l'opposizione alle classi aristocratiche e più in generale ai poteri precostituiti dell'ordine politico romano. A Nevio si affianca anche Livio Andronico e più in particolare Plauto che con la sua commedia (adatta la commedia attica nuova al gusto della plebe di Roma) dà dignità al teatro popolare italico. La latinità cerca di resistere alla grecità ma ben presto il gusto raffinato delle classi aristocratiche colte la soppianteranno.
Appio Claudio
[modifica]Appio Claudio, console nel 312 a.C., nel 307 a.C. e dittatore tra il 292 a.C. e il 285 a.C., diede per primo prova della mutata cultura romana grazie all'influenza greca. Cicerone ci parla di un carmen da lui scritto che conteneva, nei modi della poesia sentenziosa Greca, tracce della sapienza pitagorica. In questa opera tra l'altro si ricava la massima "ciascuno è artefice della propria fortuna" che va ad indicare proprio la nuova cultura incentrata sul culto della personalità. Un altro segno dei tempi mutati Appio lo diede nel 304 a.C. ordinando al suo scrivano Cn. Flavio la redazione di un libro che contenesse le procedure "giuridiche" che fino ad allora erano di esclusiva conoscenza della classe patrizia. L'opera, lo ius Flavianum, diede inizio alla volgarizzazione del diritto. Lo stesso Appio poi avrebbe redatto un'opera giuridica dal titolo De usurpationibus, Come detto Appio fu anche un politico. A lui si deve la realizzazione della via Appia, la regina viarum. Si ricorda poi il suo discorso in Senato nel 280 quando, ormai cieco, si oppose con un carismatico discorso di fronte a Cinea, ambasciatore di Pirro, alla pace con Pirro a meno che non lasciasse l'Italia. Il Senato diede ragione a Appio e, avviando una pratica che diventerà poi comune riscrisse il discorso che aveva pronunciato.
Livio Andronico
[modifica]Sappiamo molto poco di Livio Andronico. Fu originario di Taranto e fu fatto schiavo da un Livio Salinatore durante la guerra con cui i Romani conquistarono Taranto. Livio Salinatore gli diede l'incarico di educare i suoi figli e in seguito lo liberò ricevendone il nomen. Non conosciamo il suo praenomen né la data di nascita e la data di morte. Possiamo però azzardare la data della sua prima rappresentazione drammatica, che fu nel 240 a.C.. Livio Andronico diede inizio all'epica e alla drammatica romana modellata su esempi greci. Livio Andronico fece conoscere ai Romani in versione latina l'Odissea di Omero. I Romani preferirono sempre l'Odissea all'Iliade perché la prima era un monumento della tradizione romana fondata sul pater familias e l'attaccamento al focolare domestico, la seconda la celebrazione della sconfitta dei Troiani che si ritenevano progenitori dei Romani. Della traduzione ci sono rimasti sono dei frammenti usati dai grammatici. È certo che Livio Andronico avesse reso latina la sua versione sostituendo il metro greco con il saturnio e traducendo i nomi greci di carattere religioso in quelli romani. Delle tragedie di Livio Andronico possediamo, oltre che alcuni frammenti, i titoli di otto sue opere: Achilles, Aegisthus, Aiax mastigophorus, Andromeda, Danae, Equos, Troianus, Hermiona e Tereus insieme ad un nono titolo dubbio, Ino. Cinque di esse sono dedicate al ciclo troiano. Non sappiamo quanto Livio Andronico riadattasse le sue opere. Sappiamo però che fu attore delle stesse, tanto è vero che quando divenne vecchio e senza voce si limitava sul palco a compiere i gesti del personaggio interpretato. Livio Andronico fu importante anche per la commedia. Disegnò infatti la forma italica, per la quale prese a modello anche in questo caso i greci, non però la commedia di Aristofane, ma quella dell'attica nuova di Menandro e Filemone. Fu l'unica forma di poesia ellenistica che si impose a Roma prima dell'Età di Cesare, favorita dal fatto che Menandro a Roma riusci a soppiantare completamente Aristofane poiché quest'ultimo nelle sue commedie esponeva al pubblico dileggio illustri personaggi, cosa che a Roma non sarebbe stata tollerata dalle pubbliche autorità. La commedia latina prese il nome di fabula palliata, dal pallium che era l'indumento greco indossato dagli attori. Delle commedie di Livio Andronico conosciamo solo tre titoli, Gladiolus (lo spadino), Ludius o Lydius (l'istrione) e Verpus (il circonciso) o Vargus (l'uomo dai piedi in fuori) o Virgo, e un verso per ognuna delle tre commedie. Nel 207 a.C., su designazione dei pontefici, fu incaricato di comporre un carme in onore di Giunone a seguito dell'apparizione di paurosi prodigi. Data la fortuna che ebbe quest'opera il Senato concesse, come in onore di Livio Andronico, che gli scrittori e attori potessero radunarsi sul colle plebeo dell'Aventino nel tempio di Minerva. Livio Andronico usò per le sue commedie e tragedie il metro greco mentre per la traduzione dell'Odissea il metro latino del saturnio. Questo forse perché era vigente a Roma l'uso di quella metrica greca nel teatro popolare etrusco e latino (cosa di cui non possiamo essere certi non avendo fonti). È attestato però l'uso di metri greci e saturni da parte di uno stesso poeta dato anche la natura quantitativa del saturnio. La traduzione latina dell'Odissea di Livio Andronico fu studiata nelle scuole fino al I secolo a.C, ma già lo stesso Cicerone la definì antiquata e Orazio addirittura rabbrividiva di averla dovuta studiare nella scuola di Orbilio. Lo storico Livio definì invece incondito il carme in onore di Giunone. Ridiedero onore al poeta i grammatici arcaizzanti del secolo II d.C..
Nevio
[modifica]Cn. Nevio era un uomo libero. Era forse originario della Campania, in particolare di Capua, se vanno interpretate in questo modo le parole di Gellio che definisce il suo presunto autoepitaffio ricco di superbia campana. Da cittadino romano militò nella prima guerra punica. Varrone pone al 235 a.C. la sua prima rappresentazione drammatica. Coltivò sia la commedia che la tragedia. Delle sue tragedie, oltre che frammenti, ci sono rimasti sei titoli: Aesiona, Danae, Equos troianus, Hector proficiscens, Iphigenia e Lucurgus. Come si vede mostra predilezione per il ciclo troiano come Livio Andronico. Ma la sua più grande novità nel teatro tragico latino fu la creazione della tragedia d'argomento nazionale. Accanto alla fabula palliata greca nacque così la fabula praetexta o praetextata, dalla toga praetexta (orlata di porpora) che indossvano i re e i magistrati romani e quindi gli attori che li rappresentavano in scena. Due sono i titoli di praetexta di Nevio che ci sono rimasti: Romulus e Clastidium. Quest'ultima celebrava la vittoria conseguita sui Galli Insubri a Casteggio nel 222 a.C. ad opera del console plebeo M. Claudio Marcello. Si può capire che le opere di Nevio avevano un carattere plebeo e questo lo si ricava ancora di più dalle sue commedie. Dei titoli che ci sono rimasti alcuni hanno titoli e caratteri greci (Acontizòmenos, Agrypnuntes, Astiologa, Colax e ecc.) e quindi su modello greco altri hanno forma latina o richiamante alla farsa delle origini (Apella, Carbonaria, Corollaria, Figulus, Nautae, Personata, Tarentilla e ecc.). Questo ha fatto pensare che Nevio abbia creato non solo la tragedia di argomento romano ma anche la commedia d'argomento romano cioè la fabula togata. Nevio è molto originale. Un frammento della Tarentilla ci mostra come abbia plasmato la lingua latina per riuscire a raffigurare le civetterie e blandizie di una cortigiana. Tra l'altro nel prologo dell'Andria di Terenzio, Nevio è presentato come il primo autore ad aver introdotto nel teatro comico latino l'artificio della contaminatio cioè la rielaborazione delle commedie greche inserendo al loro interno scene tratte da altre commedie. Ma la più grande opera di Nevio fu il suo Bellum Punicum o Poenicum, poema sulla prima guerra punica che serviva a rianimare lo spirito dei Romani che stavano cedendo sotto i colpi di Annibale. Nevio, a differenza di Livio Andronico, non solo usò il saturno, ma realizzò con esso una nuova opera originale creando così il poema nazionale romano d'argomento storico combinando anche elementi di leggenda sulla preistoria romana e fungendo da base a quella che poi sarà la tecnica usata anche da Virgilio nell'Eneide. Il poema scritto da Nevio come un carmen continuum fu poi diviso in sette libri dal grammatico Ottavio Lampadione nel II a.C.. Confusamente si ritiene che la vera trattazione della guerra punica parta dal terzo libro mentre nei primi due sia narrata la storia di Enea e della fondazione di Cartagine. Si pensi che lo stesso Virgilio abbia preso ispirazione da Nevio per raccontare l'approdo di Enea nei lidi africani, l'amore di Didone, l'abbandono di Enea e la maledizione della regina che pose le basi alla inimicizia mortale tra il popolo cartaginese e romano. Un verso di Stesicoro testimoniava l'origine Troiana dei Romani ma Nevio ne fa addirittura la causa dell'inimicizia con i cartaginesi. Da un verso del Bellum Poenicum a noi pervenuto si vede una ostilità di Nevio nei confronti della classe degli ottimati (superbiter contemptim conterit legiones "con la sua superbia e il suo disprezzo egli consuma la legione"). Questo verso contrario agli ottimati e in particolare il saturnio tramandato da Cicerone nelle Verrine e da Cesio Basso nel De metris (I Metelli diventano consoli per il destino di Roma), che poteva essere letto in due modi, di cui uno in senso di rovina di Roma, provocarono verso di lui l'ira dei Metelli che non solo fecero circolare un verso in risposta (I Metelli provocheranno guai al poeta Nevio) ma lo fecero esiliare nell'Africa da poco conquistata. Gellio ci racconta che fu anche incarcerato e in prigionia scrisse due commedie, l'Hariolus e il Leon, in cui fece ammenda delle sue ingiurie e per questo sarebbe stato scarcerato. A confermarlo interviene anche il Miles gloriosus di Plauto che raffigura proprio Nevio in carcere custodito da due aguzzini. Gellio ci parla anche di un verso contro Scipione l'Africano e proprio l'ira dei Metelli e di Scipione portarono alla sua carcerazione e dopo la scarcerazione, ancora perseguitato da essi, fu costretto all'esilio ad Utica dove sarebbe sicuramente morto dopo il 202 a.C, data della vittoria di Zama e quindi della conquista di Utica. Nevio fu un profondo innovatore, avendo un carattere versatile e audace. Creo la tragedia d'argomento romano e forse anche la commedia d'argomento romano, nella commedia reagì al carattere ellenizzante di Livio Andronico ispirandosi alla farsa italica e tenne d'occhio con i suoi attacchi la tradizione aristofanea. Introdusse la contaminatio e creò il poema nazionale romano. Sostenne sempre la classe plebea anche se durante la prima e seconda guerra punica celebrò e supportò gli animi di tutti i romani. Non si fece però scrupoli a denunciare che dopo la fine della guerra ci potesse essere il rischio di una riconferma dell'inferiorità della plebe a seguito della nuova ambizione e prepotenza della aristocrazia. La sua fortuna fu simile agli altri autori arcaici. Prima fu in onore poi decadde (anche se non del tutto) nel periodo aureo per poi risorgere nell'arcaicizzante Età degli Antonini. La sua più grande gloria fu di aver stimolato la fantasia di Virgilio.
I primi annalisti
[modifica]Nell'età delle guerre puniche nasce anche una prima forma di storiografia romana. Agli Annales pontificum si sostituiscono gli scritti privati. I primi annalisti scrissero in greco per far conoscere la storia romana agli stranieri. Roma infatti non aveva ancora una sua influente cultura e il latino era poco conosciuto. Per diffondere la storia e la stessa cultura romana bisognava pertanto usare il ben più noto greco. A questo va sommato l'avanzare delle truppe romane alle soglie della Grecia. I Greci si erano mostrati ostili alla cultura romana ed è per questo che queste opere annalistiche hanno anche obiettivo propagandistico. Obiettivo che non raggiungeranno in pieno: basti pensare al grande storiografo greco Polibio che non ritiene attendibili gli annalisti romani. Il primo annalista fu Q. Fabio Pittore che combatte nella guerra contro i Galli svoltasi tra la prima e seconda guerra punica e scrisse gli annali dalla venuta di Enea nel Lazio fino ai suoi tempi. L'opera intitolata 'Ρωμαίων πράξεις, ebbe anche una versione latina (Rerum gestarum libri) che ebbe molta autorità in ambito romano, al punto che gli stessi Virgilio e Livio se ne servirono nelle loro opere. L. Cinicio Alimento fu il secondo annalista romano in greco. Combatté nella seconda guerra punica, fu fatto prigioniero di Annibale e questo fa pensare che l'ultima parte della sua narrazione rivestisse un particolare interesse. Nonostante questo i suoi Annali non arrivarono mai alla fama di Fabio Pittore. Delle opere di entrambi non ci è rimasto nulla.
Cecilio Stazio
[modifica]Originariamente era un gallo insubre, forse di Mediolanum, che fu fatto schiavo e condotto a Roma da un certo Cecilio. In seguito fu affrancato e prese il nome. Si ritiene nato intorno al 220 a.C. e morto nel 167 a.C. ma è più plausibile come data di nascita il 230 a.C. e che fosse ancora vivo nel 166 a.C, se sono vere le informazioni dateci dalla Vita donatiana di Terenzio, secondo la quale questi sarebbe stato invitato a leggere a Cecilio la sua prima commedia, l' Andria, che è, dalla didascalia, del 166 a.C.. Non è invece attendibile la notizia di S. Girolamno secondo cui fu contubernalis, cioè abitante insieme nel tempio di Minerva sull'Aventino, di Ennio. Conosciamo di Cecilio circa una quarantina di titoli di commedie e alcuni frammenti. Si pensa che, dato che nella sua prima fase fu ispirato da Plauto, i titoli in latino si collocassero proprio in questa fase. In seguito ha associato allo stesso il titolo greco per poi, quando si avvicinò a Terenzio, usare il solo titolo in greco. Cecilio in un primo momento non ebbe fortuna presso il pubblico e riuscì ad affermarsi grazie al suo grande attore L. Ambivio Turpione. Questo perché le sue commedie erano totalmente diverse da quelle di Plauto che era il beniamino del pubblico. Nelle sue commedie vediamo, infatti, elementi che lo avvicinano a Terenzio. Il suo modello preferito è quello di Menandro. L'ethos dei personaggi è studiato con cura e ha una visione più cordiale della vita. Si afferma la predilezione per le sentenze ricche di morale. Si intravede l' humanitas che sarà poi al centro del circolo degli Scipioni. Gli mancano la vivacità d'azione e bizzarria di Plauto, l'uso della contaminatio, avversata da Cecilio, e inoltre la piena padronanza della lingua essendo lo stesso di origine gallica. Non bisogna pensare che però si discosti totalmente da Plauto, anzi. Egli lo segue a ruota. Lo stesso uso del modello menandreo non è totale. All'idea astratta di Menandro si sostituisce l'immagine concreta con immagini che richiamano Plauto. Non per questo Volcacio gli assegna la palma del primo posto tra i poeti comici e lo chiama mimicus. Da quello che possiamo dedurre dai pochi frammenti e dai giudizi degli antichi le opere di Cecilio, insomma, erano dotate di notevole pathos che si sfogava su un rude accozzo di particolari realistici che non erano però ravvivati dalla potere di trasmutazione della lingua di Plauto.
Pacuvio
[modifica]M. Pacuvio nacque a Brindisi nel 220 a.C. da una sorella di Ennio. Oltre che poeta fu pittore. Anzi sembra che fosse stato prima pittore poi poeta. Plinio il vecchio narra che una sua pittura murale era ancora visibile nel vecchio tempio di Ercole al Foro Boario al suo tempo. Da alcune testimonianze di Cicerone si sa che appartenesse al Circolo degli Scipioni e fosse molto amico di Scipione Emiliano e di Lelio minore; questo sarebbe confermato dal fatto che il Paulus, una praetexta di Pacuvio, celebrava la famiglia d'origine dell'Emiliano. Ma ragioni di carattere cronologico ci fanno pensare che lui fosse ben accetto nella famiglia di Scipione Africano e Lelio maggiore e che questo abbia determinato la confusione. Egli appartiene all'età di Panezio e Polibio, educatori dell'Emiliano non membri della sua famiglia. Quando nel 140 a.C. sorse l'astro di Accio nella poesia tragica, Pacuvio, ormai vecchio e stanco, si ritirò a Taranto, nelle terre dei suoi avi. Qui, narra Gellio, gli fece visita Accio che gli lesse il suo Atreus. Pacuvio osservò che l'opera gli sembrava un po' dura e Accio gli avrebbe risposto con insolenza dicendogli che gli faceva piacere la critica perché quando un frutto nasce duro e acerbo può diventare in seguito saporito e piacevole, se nasce già flaccido e molle può diventare solo fradicio (si riferisce all'abbondanza pittoresca e sentimentale della poesia di Pacuvio). Morì a Taranto intorno al 130 a.C., prope nonagenarius ci dice S. Girolamo. Gellio ci ha tramandato un suo presunto autoepitaffio inciso sulla sua tomba che ne indica l'urbanità, la verecondia e il dignitoso riserbo. Pacuvio, nel solco dello zio Ennio, scrisse anche saturae di cui non c'è rimasto nulla. Possediamo invece circa quattrocento versi dei quattordici drammi di cui ci è stato conservato il titolo e sono la praetexta Paulus e tredici tragedie d'argomento mitologico. Pacuvio sceglieva come argomenti delle sue opere sempre i meno comuni, i più marginali della tragedia greca, al punto tale che oggi si può dire che i drammi pacuviani fossero del tutto originali. Componeva personalmente poi la musica da usare nei suoi drammi e stando a quanto ci dice Cicerone era anche molto suggestiva (si ricordi la musica che accompagnava il canticum di Difilo che appare in sogno alla madre e i primi accordi di flauto che introducevano l' Antiopa). Da questo si capisce che il patetico è il carattere predominante della tragedia pacuviana come il πάθη, le passioni, erano della commedia di Cecilio. Il Dulorestes fu accolto trionfalmente fin dalla sua prima rappresentazione, in cui Oreste e Pilade istituivano una gara di generosità tra di loro. Pacuvio riesce attraverso le parole stesse della cantica e dei dialoghi a scenografare il dramma. Per queste sue doti e per la sentenziosità che punteggia l'azione drammatica sarà il primo germe dello sviluppo della tragedia latina fino a Seneca. Ma a lui, secondo Cicerone e Marziale, mancava la dota più importante, cioè la padronanza della lingua. Come Cecilio, era abilissimo nella varietà dei metri, ma lo esprimeva in un linguaggio sciatto e approssimativo a volte forzato da certe arditezze barocche che ricordano lo zio Ennio. Questa mancanza non segnò però la fama di Pacuvio ancora letto in età neroniana. Durante i funerali di Cesare fu rappresentanta l' Armorum iudicium: " Ed io li ho salvati perché ci fosse qualcuno che mi spingesse a rovina !" Nelle parole di Aiace il pubblico romano sentì il grido dello spirito di Cesare.