La "Giustizia Politica"
La Corte costituzionale è competente a Giudicare il Presidente della Repubblica per i reati funzionali di alto tradimento e di attentato alla Costituzione (rimanendo la competenza dell'autorità giudiziaria ordinaria per i reati comuni, e l'irresponsabilità presidenziale – cui si affianca un obbligo morale di dimissioni, posto che, a norma dell'art. 54 secondo comma «i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore [...]» – per i restanti reati commessi nell'esercizio delle sue funzioni).
In tale ipotesi, il Presidente della Repubblica è messo in stato di accusa dal Parlamento in seduta comune (richiedendosi la maggioranza assoluta dei membri), e giudicato dalla Corte costituzionale, integrata nella sua composizione da 16 membri estratti a sorte da un elenco di 45 eletti dal Parlamento ogni 9 anni fra i cittadini aventi i requisiti per l'eleggibilità a senatore.
La pena inflitta non può superare la pena massima prevista per legge al momento della sentenza. L'esecuzione della sentenza è affidata alla Corte d'Assise d'Appello di Roma.
La Vecchia Competenza sui Reati Ministeriali
[modifica]Inizialmente, sino al 1989, la Corte era competente anche per i Reati Ministeriali. Oggi tale funzione, pur con procedure particolari, è assolta dalla giustizia ordinaria.
I reati ministeriali sono una fattispecie di reato disciplinata direttamente dall'articolo 96 della Costituzione della Repubblica Italiana.
Si tratta di reati commessi nell'esercizio delle funzioni ministeriali (solitamente contro la pubblica amministrazione) dal presidente del Consiglio o da un ministro.
Prima del varo della legge di revisione costituzionale 1/1989, l'articolo 96 prevedeva che il presidente del Consiglio e i ministri potessero essere messi in stato d'accusa dal Parlamento in seduta comune per quanto atteneva ai reati commessi nell'esercizio delle loro funzioni. Con lo scandalo Lockheed del 1977 - che portò alla condanna di fronte alla Corte costituzionale del ministro della Difesa Mario Tanassi - si ravvisarono i non pochi limiti insiti in tale procedura.
Nel 1987 un referendum popolare abrogò del tutto le disposizioni legislative riguardanti le cosiddette commissioni inquirenti, ossia quelle commissioni bicamerali che istruivano le denunce pervenute a carico dei ministri.
Anche a seguito dell'esito referendario del 1987, la disciplina procedurale per questi reati è mutata con apposita revisione costituzionale: l'attuale formulazione dell'art. 96 afferma che sui suddetti reati giudica la magistratura ordinaria e non più la Corte costituzionale integrata, previa autorizzazione della camera a cui l'indagato appartiene. Se l'inquisito non è un ministro parlamentare, l'autorizzazione a procedere verrà richiesta al Senato. Le stesse Camere devono poi autorizzare le necessarie misure limitative della libertà personale, negandole nel caso in cui l'inquisito «abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante o per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell'esercizio delle funzioni di governo». Nella fase di giudizio, comunque, nei confronti del presidente del Consiglio dei ministri e dei ministri non può essere disposta alcuna pena accessoria che comporti la sospensione dal loro ufficio.
Per qualsiasi altro reato non commesso nell'esercizio delle proprie funzioni, il ministro o il presidente del Consiglio ne risponde al pari di qualsiasi altro cittadino. In questo caso saranno possibili anche l'irrogazione provvisoria o definitiva di pene che portano alla decadenza dell'incarico ministeriale.