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L'Ideologia della Magistratura

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L'Ideologia della Magistratura
Tipo di risorsa Tipo: lezione
Materia di appartenenza Materia: Storia della giustizia
Avanzamento Avanzamento: lezione completa al 100%

Nozione di Ideologia

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Che cosa è l’Ideologia ? Stando alle parole di Papaioannou Ideologia è un abnubilimento della mente che ha portato a copiere a dei soggetti comportamenti quasi come senza accorgersene e del tutto irragionevoli, si pensi alle teorie della razza del nazismo. Più mitigata è la posizione di Norberto Bobbio per la quale la nozione di ideologia è quella della Ideologia Debole e cioè un “sistema di credenze o di valori” utilizzato dalla politica per orientare le masse in una direzione piuttosto che un'altra. Più vicino al pensiero che si andrà a trattare in questo capitolo è però la nozione di Ideologia data da Pierre Bourdieu e ripresa da Orazio Abbamonte di una Ideologia come habitus e cioè come substrato di una cultura insita nel soggetto e non come qualcosa di esterno a lui. Il soggetto agirà in un determinato modo perché è il suo stesso “tratto genetico” a farlo agire in tal modo.

L’Ideologia della Magistratura nell’Ottocento

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Per comprendere qual era il tratto caratterizzante della ideologia della magistratura dell’Ottocento ci possiamo rifare a due autori del periodo: i due magistrati Adeodato Bonasi e Giovanni Pacifico. Adeodato Bonasi, Presidente del Consiglio di Stato oltre che Ministro della Giustizia, afferma che il giudice non può che riconoscere “altra superiorità che quella della legge” e deve attenersi al dettato della legge come ad “una formula algebrica”. Chiaramente si comprende come per Bonasi ogni qualsiasi influenza di una ideologia era da evitare. Ancora più facilmente si può capire come si relazionavano i magistrati alla propria ideologia nell’Ottocento se si leggono le parole del giudice Giovanni Pacifico. Pacifico afferma a chiare lettere che l’unica verità per il giudice è la legge. Il giudice è un sacerdos ius o ancor meglio sacerdos legis e deve approcciarsi al suo mestiere di magistrato come un sacerdote al proprio ministero. Il magistrato non può dare alcuna propria influenza alla legge ma deve unicamente attenersi al dettato della stessa. Dai due magistrati si comprende bene come in questa fase storia l’Ideologia è vista con molto sospetto da parte della magistratura stessa come qualcosa capace di influenzare la purezza della legge. Non dimentichiamoci che stiamo ancora nel pieno delle teorie positivistiche sorte a seguito della Rivoluzione Francese. Il Giudice è ancora visto come il mero giudice “Bocca della Legge”.

I Primi Anni del Novecento

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La situazione cambia già nei primi anni del Novecento anche a seguito di un desiderio, sempre più forte, da parte della magistratura di avere un suo ruolo ben distinto da quello di mero funzionario alle dipendenze degli altri poteri. Bisognerà aspettare gli anni Settanta e il Convegno di Firenze di Giuseppe Maranini dal Titolo Magistrati o Funzionari? Per avviare una seria riflessione sul ruolo della magistratura come potere, ma già con Guido Dorso e ancor meglio con Domenico Peretti-Griva si fa largo un idea di magistrato diversa. Peretti-Griva infatti da una parte invocherà maggiore riconoscimento, anche strettamente economico, all’attività del magistrato. Dall’altra, pur affermando chiaramente che il magistrato non può fare attività politica partecipando alla vita di un partito politico, ergo avere una ideologia politica, ugualmente non può non avere una sensibilità politica e ciò interpretare la legge tenendo conto a quelle che sono le reali contingenze storiche.

La Svolta degli Anni Sessanta

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Ma la vera svolta si avrà solo negli Anni Sessanta e coinciderà con la sempre più pressante presenza istituzionale della magistratura. Non a caso la svolta si avrà proprio con l’istituzione di una corrente all’interno dell’ANM e cioè la costituzione di Magistratura Democratica nel luglio del 1964 a Bologna. I giudici di magistratura democratica si rifacevano strettamente ad un idea di magistratura attiva nel concreto. Illuminanti su questo punto sono le parole di Giuseppe Borrè. Borrè a chiare lettere afferma l’intento suo e dei suoi amici di Magistratura Democratica è “Da un lato, il rifiuto del conformismo, come gerarchia, come logica di carriera, come giurisprudenza imposta dall’alto, in una parola come passività culturali; dall’altro, il sentirsi dalla parte dei soggetti sottoprotetti, e sentirsi <<da questa parte>> come giuristi, con le risorse e gli strumenti propri dei giuristi”. L’intento dei magistrati come Borrè, quindi, è quello di usare la legge per uno scopo e cioè per la difesa delle categorie sottoprotette. In che senso usare la legge? Se fino all’Ottocento e a Pacifico la legge era vista come un testo sacro a cui non poteva essere dato un fine diverso da quello della letteralità stessa della legge, con Borrè e gli altri (si ricordi Giovanni Colli e Romano Rocciotti) la legge può anzi deve essere interpretata in che modo? Secondo la Costituzione che si presenta come parametro superiore a cui tutti i giudici devono rifarsi e tendere alla sua piena esecuzione. Non è singolare che Borrè si rifaccia proprio alla Costituzione e marchi il punto sul fatto che tutti i magistrati sono soggetti si alla legge ma ancor prima alla Costituzione e che quindi non solo la legge deve essere interpretata secondo Costituzione ma anche le stesse gerarchie interne alla magistratura non possono vincolare il magistrato da attuarla. Un pensiero molto forte in netto contrasto con il pensiero di Pacifico il quale in un certo senso rimarcava anche il ruolo delle gerarchie interne come ulteriore freno all’Ideologia. Interessante è anche la difesa che Borrè fa di questa posizione di MD. A chi attacca MD definendola come una magistratura che fa politica e quindi Indipendente Borrè risponde che è chi applica la legge senza interpretarla secondo Costituzione ad essere Indipendente perché di fatto attua una legge così come voluta dalla maggioranza di governo e quindi è subordinato al pensiero della maggioranza danneggiando la minoranza più debole.

Gli Anni Settanta e lo Statuto dei Lavoratori

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Il vero punto di svolta, però, si avrà negli anni Settanta con l’emanazione del famoso Statuto dei Lavoratori (l.n. 300/1970). Al di là del contenuto di tale legge (che prevede norme di tutela rafforzate per il lavoratore addirittura prevedendo un meccanismo di tutele in caso di licenziamento e di diritti all’interno delle fabbriche) il dato caratterizzante è il fatto che per la prima volta questa legge dava adito ai magistrati, soprattutto di Magistratura Democratica, di poter avere un appiglio normativo per mettere in atto quell’obbiettivo caro agli stessi di tutela dei sottotutelati. Interessante è quanto avvenne nella Pretura di Milano raccontato in maniera magistrale da Romano Canosa. Fu proprio a Milano che si ebbe infatti il maggior numero di sentenze contro i datori di lavoro in attuazione di tale legge. Sentenze che il più delle volte si spingevano anche oltre al dato strettamente previsto dalla legge ma che la usavano come base normativa per poi andarla ad implementare con i principi presenti in Costituzione. Un fermento che portò presto i vertici alti della Magistratura, il CSM, e lo stesso Ministro della Giustizia a richiamare i magistrati di Milano ad attenersi alla legge.

L’Ideologia della Magistratura Oggi

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Con lo Statuto dei Lavoratori termina di fatto anche l’evoluzione dell’idea del Magistrato ha di se nel rapportarsi alla propria ideologia. Certo non sono mancati casi controversi dove il Magistrato ha spesso usato la sua Posizione a scopi politici (vedi casi Berlusconi, Andreotti, e in ultimo forse il caso del Padre di Renzi). Non sono mancati casi in cui il Magistrato è andato ben oltre il proprio ruolo di interprete della legge creando di fatto legge, si pensi ai casi di diritti civili come l’eutanasia, le coppie di fatto, ecc.. Ma in sostanza il ruolo di un magistrato interprete della legge secondo Costituzione con una propria sensibilità politica, o meglio un substrato cultura, un habitus che lo influenza anche inconsciamente nel proprio giudizio è un dato acquisito. Molto più rilevante però è la tendenza, almeno negli ultimi decenni, a sostanziale inversione di rotta sul proprio atteggiarsi come Magistrato e non come Funzionario. Se è stato messo da parte il proprio essere succube al Governo e al Legislatore si sta invece affermando un idea di Magistratura come “Impresa” tendente quanto più all’efficienza più che alla tutela dei diritti. Posizione che si può comprendere benissimo se si leggono due Circolari della Corte di Cassazione che a distanza di pochi anni (1989 e 2001) invitano alla sinteticità delle Sentenze della Corte. Ma se nell’89’ il Presidente Brancaccio lo faceva per aumentare la chiarezza del giudicato in modo tale da difendere i più deboli da eventuali sentenze oscure, il Presidente Lupo invita ad emanare sentenze in forma semplificata affinché il loro numero fosse maggiore così da combattere l’arretrato giudiziario anche se questo fosse fatto a danno della tutela dei diritti stessa.