L'Autorizzazione Maritale nel Codice Pisanelli

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L'Autorizzazione Maritale nel Codice Pisanelli
Tipo di risorsa Tipo: lezione
Materia di appartenenza Materia: Diritto di famiglia
Avanzamento Avanzamento: lezione completa al 100%

L' Autorizzazione Maritale rappresenta la manifestazione più importante della potestà maritale, un insieme di diritti spettanti al marito che influenzò la condizione giuridica della donna.

In Italia nacque una disputa dottrinale all'atto di realizzazione del Codice Pisanelli. Una parte della Commissione preparatoria. riteneva che il matrimonio non doveva aver per effetto il sorgere dell'incapacità della donna, opinione supportata dallo stesso ministro Pisanelli, l'altra si presentava favorevole all'istituto dell'autorizzazione maritale. L'epilogo fu l'adozione di un sistema medio fra l'austriaco che dava alla donna piena capacità di contrattare e il francese per il quale era in generale necessaria l'autorizzazione. Il codice italiano del 1865 stabilità l'incapacità della donna sposata a compiere atti giuridici e stare in giudizio senza l'autorizzazione maritale. Al contrario di quanto capitava in Francia dove l'incapacità è la regola la capacità l'eccezione, l'autorizzazione in Italia era presunta esistente. Questa perché essa non era simbolo della naturale inadeguatezza della donna ma uno strumento di garanzia dell'ordine e degli interessi della famiglia. Le Corti Italiane affermarono che la donna sposata potesse validamente compiere gli atti ordinari di semplice amministrazione (atti di conservazione e di garanzia dei suoi diritti: trascrivere gli atti di acquisto, iscrivere e rinnovare ipoteche) cosa che invece non era assolutamente ammessa nella giurisprudenza francese.

In Italia la donna maritata era limitata alla sola alienazione dei beni immobili mentre era libera di acquistare qualsiasi cosa mobile e immobile sia a titolo oneroso che gratuito.

Per quanto riguarda il divieto di donazioni, la giurisprudenza italiana lo riteneva non riferibile alle donazioni manuali di tenue intensità.

In Francia, invece, l'autorizzazione maritale era finalizzata non solo a far emergere l'autorità del marito ma anche a salvaguardare gli interessi pecuniari della famiglia.

L'autorizzazione era generale sia per l'alienazione sia per l'acquisto a titolo oneroso che gratuito. Per quanto riguarda la capacità della donna di stare in giudizio il Code prevedeva che doveva essere autorizzata in ogni tipologia di giudizio e in ogni grado dal marito, in Italia invece era limitato ai soli casi in cui la donna non poteva stare da sola in giudizio. Il Italia inoltre il marito poteva dare una autorizzazione generale a compiere tutti o alcuni degli atti che usualmente non poteva compiere senza autorizzazione. In Francia invece questa forma di autorizzazione non era concepita nel Code. Vigeva un principio di specialità della autorizzazione che voleva non solo una indicazione precisa dell'oggetto ma anche la specificazione delle principali condizioni dell'atto da compiere. Anche le forme in cui doveva essere concessa l'autorizzazione speciale erano diverse. In Italia la giurisprudenza affermo la libertà di forma. Anche la forma tacita era sufficiente (intervento nel contratto anche se non richiesto, assistenza alla moglie o sottoscrizione dell'atto per un obbligo suo proprio) pero' la semplice presenza dell'uomo nel luogo della stipula o l'utilizzo da parte della donna del bene acquistato per la famiglia non era sufficiente a fornire prova di autorizzazione.

Limiti della Potestà Maritale[modifica]

Il codice civile italiano, oltre a definire le ipotesi in cui era richiesta l'autorizzazione marita, definisce anche i casi in cui l'incapacità della donna doveva venir meno.

Inanzi tutto non vi si doveva far luogo all'autorizzazione maritale nel caso il marito era minore e interdetto. La giurisprudenza estensivamente allargo questa ipotesi anche ai casi di inabilità del marito. Ugualmente non doveva farsi luogo all'autorizzazione in caso di assenza del marito. Tale assenza poteva essere sia dichiarata che presunta. Idem per i casi di prolungata lontananza del marito in cui era difficile per la donna procurarsi il suo consenso. Nell'ordinamento francese invece la minore età, l'assenza e l'interdizione del marito non dava la piena capacità alla donna che doveva chiedere l'autorizzazione al giudice.

In caso di inabilità, la giurisprudenza ritenne che l'uomo non poteva autorizzare la donna a compiere atti che lui stesso non poteva compiere. Interpretando il Code si ritenne che per interdizione si intendesse anche l'inabilità al punto che per entrambe era richiesta l'autorizzazione del giudice.

Su questa eventualità anche la giurisprudenza italiana ritenne la necessità dell'autorizzazione del giudice che poteva avvenire in due forme:

  • suppletiva: si sostituiva all'autorizzazione del marito che non voleva dare.
  • surrogativa: quando il marito non poteva a termini di legge autorizzare la moglie.

A seconda dei casi il giudice era arbitro o un direttore succedaneo al capofamiglia o un tutore della moglie. Anche in caso di separazione secondo il codice civile del 1865 l'autorizzazione maritale era data in surrogazione dal giudice salvo nel caso in cui la colpa della separazione era del marito, in tal caso la donna era liberata dalla richiesta di autorizzazione. Nel caso in cui la separazione era colpa della moglie, o di entrambe, o consensuale, la donna rimaneva incapace soggetta all'autorizzazione del tribunale per quegli che non poteva compiere senza autorizzazione del marito. L'omologazione finale del provvedimento lasciava in capo alla donna la sola possibilità di richiesta di autorizzazione al giudice non avendo il marito più alcun potere.

La Donna Commerciante[modifica]

Interessante è la capacità riconosciuta alla donna che eseguiva attività commerciale.

In Italia la giurisprudenza ritenne, raccordando la disciplina del codice civile che prevedeva l'esonero dell'autorizzazione maritale e il codice del commercio che restringeva la piena capacità alle sole obbligazioni concernenti il commercio della donna, riteneva che la donna era pienamente capace di porre in essere gli atti commerciali inerenti a tale attività senza l'autorizzazione del marito.

Per garantire la certezza degli scambi commerciali si riteneva presuntivamente che gli atti posti in essere dalla donna fossero per la sua attività. Importante è la possibilità della donna di chiedere l'autorizzazione giudiziale in caso in cui ci fosse conflitto di interesse con il marito sui singoli atti commerciali che dovevano essere autorizzati dallo stesso. La Cassazione romana nel 1891 ribadì la libertà della donna anche dall'autorizzazione giudiziale poi ribadita da altre Cassazioni.

Non mancarano sentenze atipiche e opposte a quella romana come della Cassazione torinese del 22 novembre 1910. Il Code Napoleon prevedeva invece una deroga generale alla incapacità della donna. Infatti se il marito aveva autorizzato la donna allo svolgimento dell'attività commerciale, la donna era capace di compiere ogni atto inerente all'attività senza ulteriore autorizzazione. Ma per essere considerata commerciante la donna doveva però compiere una attività completamente separata da quella del marito. Una pesante limitazione era dovuta al fatto che la donna non poteva essere in giudizio né come attrice né come convenuta per le controversie relative alle sue transazioni commerciali senza preventivo consenso del marito. Tali barriere furono pero' rimosse dalla legge 13 luglio 1970 che riconosceva il diritto di amministrare, disporre dei prodotti del suo lavoro e dei beni anche immobili, che avesse acquistato con suo guadagno (i cosiddetti beni riservati) e di stare in giudizio senza autorizzazione in tutte le contestazioni relative a tali diritti alla donna che esercitasse una professione distinta da quella del marito.

Emancipazione femminile[modifica]

Anna Maria Mozzoni, una delle più importanti femministe italiane, a soli 20 anni nel 1865 denunciava apertamente le restrizioni e i reiterati e intenzionali soprusi e maltrattamenti statali posti in essere contro la donna.

Il Code prevedeva formalmente l'equiparazione sostanzialmente la discriminazione tra uomo e donna. Di fatto, nonostante nessuno articolo del codice lo prevedesse, la giurisprudenza ritenne che la donna non potesse intraprendere validamente alcuna attività senza il consenso del marito poiché si ritenne che se non vi era questa restrizione potevano essere leso l'equilibrio e la pace domestica. Estendevano la regola del diritto commerciale di fatto a tutte le professioni.

L'autorizzazione era generale infatti una volta consentito l'esercizio della professione la donna era autorizzata a compiere ogni atto affine a quella attività.

Se un datore assumeva la donna senza l'autorizzazione del marito, il marito poteva agire contro il datore per un risarcimento danni. In Italia, la donna che voleva esercitare una professione diversa dalla commerciale non era soggetta al consenso del marito limitandosi l'incapacità ai soli casi previsti per legge.

Ciò nonostante l'autorità dell'uomo si dimostrava nelle condizioni di lavoro in cui viveva la donna e la inferiorità di fatto della stessa. Pur se era impiegata molto nel campo agricolo, manifatturiero e tessile, ugualmente era sotto pagata e compiva turni estenuanti. Anche nel campo dello studio la donna era discriminata. Se le era concesso l'accesso agli studi universitari ugualmente essa non era ammessa alle professioni che costituivano lo sbocco di tale studio.

Esemplare i casi di Lidia Poet e Teresa Labriola che affrontarono il giudizio "sessista" delle Corti di fine Ottocento.

Lidia Poet, giovane donna piemontese, laureata in giurisprudenza nel 1883, dopo aver fatto la pratica e superata l'abilitazione chiese ed ottenne di essere iscritta all'albo avvocati di Torino. La notizia fece molto scandalo al punto che due membri del Consiglio, Spantigati e Chiaves si dimisero dal ruolo. Sostenuta dallo scandalo la Procura generale della Corte di Appello di Torino impugno la delibera del Consiglio e la stessa Corte di Appello con sentenza dell'11 novembre 1883 accolse la richiesta della Procura generale affermando che le donne non potevano esercitare la professione di avvocato. La Corte di Cassazione di Torino respinse il ricorso della Poet dichiarandosi difensore dell'assetto tradizionale.

Medesima cosa avvenne per Teresa Labriola dove la Corte di Appello di Roma con sentenza del 31 ottobre 1912 dichiarò nulla la decisione del Consiglio dell'Ordine degli avvocati di Roma sulla sua iscrizione all'albo citando Papiniano e Ulpiano in forza di un principio generale del diritto comune che non ammetteva la donna nell'esercizio delle funzioni pubbliche.

L'interdizione non si limitava alla sola avvocatura ma anche ad altre professioni. La Corte di Roma con decisione dell'8 aprile 1914 ad esempio proibì alla donna l'esercizio della pratica notarile. Il Consiglio di Stato il 27 dicembre 1910 invece l'aveva esclusa dal poter essere nominata segretaria comunale.

La donna divenne effettivamente emancipata e sottratta all'autorizzazione maritale solo il 7 luglio 1919 quando le fu consentito anche l'accesso alle libere professioni e i pubblici impieghi venendo meno le norme del Codice Civile e Codice Commerciale in materia e ammettendo la donna nel Consiglio di Famiglia. Vi permanevano però ancora limitazioni sul pubblico potere. La donna non poteva ottenere incarichi che implicavano poteri pubblici giurisdizionali, l'esercizio di diritti e potestà politiche o attinenti alla sfera militare dello Stato.

Nel 1920 fu emanato un provvedimento che escludeva espressamente la donna dal Consiglio di Stato, dalla Magistratura, dall'Ordine Giudiziario e dal personale di Pubblica Sicurezza, né poteva essere prefetto, ministro, appartenente al Regio Esercito o alla Regia Marina, nella carriera diplomatica o consolare, né ammessa ai pubblici impieghi riservati a coloro che possedevano la dignità di Grande Ufficiale del Regno d'Italia. La parità della legge del 1919 era in realtà non applicata nei fatti dato che l'accesso al pubblico impiego era molto basso per le donne e dovuto al fatto che si poteva porre una percentuale di ammissione femminile al concorso pubblico o escludere le donne se ritenute non adeguate alla mansione. La donna era di fatto ancora esclusa dalla vita pubblica tanto che si esaltava la naturale riservatezza della donna.

Così nonostante la legislazione si apriva ai problemi femminili sul piano sostanziale non cambiava quasi nulla.

Terminava così, all'alba della Regime Fascista e delle nuove emergenze, un settantennio post unitario di buoni propositi e di inattuati progetti.