Il pensiero economico greco
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I primi tentativi di studiare e teorizzare la vita economica (o almeno alcuni dei suoi aspetti) delle comunità umane, risale fin dall'antichità. Il primo periodo che consideriamo va approssimativamente dall'800 a.C fino al XVI secolo e comincia con la società dell'antica Grecia e alcuni dei suoi pensatori.
Nell'antichità, la struttura economica era prevalentemente di tipo schiavistico e, comunque, si trattava di una società prevalentemente agraria e dedita all'autoconsumo e all'autosufficienza; gli scambi sia con altri produttori che con altre popolazioni di altri territori, pur presenti, occupavano un ruolo marginale nella vita economica di allora. Occupando il mercato e gli scambi una posizione di così poco rilievo, gli antichi si occupavano più di questioni di ampia portata, dal carattere marcatamente filosofico, come la giustizia e l'equità dell'attività economica. Una teoria dei prezzi, che spiegasse quindi il perché di certe proporzioni di scambio tra merci, ha cominciato a occupare un posto di primaria importanza nel pensiero economico soltanto quando ha preso il via la società degli scambi, la divisione del lavoro, il mercato: cioè, soltanto quando la produzione ha acquisito il carattere sociale, dove il prodotto dei produttori è qualcosa solo se connesso con il lavoro di tutti gli altri, dove quindi i rapporti tra uomini e l'allocazione delle risorse del sistema sono determinate dagli scambi e dai conseguenti prezzi.
I pensatori greci, in particolare Esiodo e Senofonte, erano interessati all'amministrazione della produzione che sovente era di carattere familiare. Esiodo elaborò il concetto di efficienza applicato all'ambito familiare, mente Senofonte lo estese a livello dell'intera società. In lui troviamo probabilmente il primo fautore della divisione del lavoro, sostenendo infatti che la società avrebbe potuto migliorare la sua efficienza produttiva attraverso una specializzazione delle mansioni.
Democrito, anche lui sostenitore della divisione del lavoro, sostiene che legata a tale divisione si accompagni la proprietà privata (dei mezzi di produzione e quindi del prodotto) come incentivo fondamentale all'attività economica.
Per Platone, è necessario distinguere non solo tra proprietà privata e proprietà pubblica, ma tra la funzione privata e quella pubblica. Chi amministra la cosa pubblica (come, per esempio, le funzioni di governo appartenenti ai filosofi, o i soldati) non deve essere influenzato e distratto da questioni di produzione materiale, che lo distoglierebbero dagli importanti compiti (funzioni) che la società ha dato loro. Per questo, chi svolge funzione pubblica non dovrebbe avere proprietà privata, essendo oltretutto compito dei produttori privati "mantenere" materialmente soldati e filosofi nella loro vita di pubblici amministratori.
Aristotele va più a fondo e pone nuovi problemi di tipo filosofico: per lui gli uomini hanno bisogni e desideri, ma se i primi sono naturalmente limitati, gli ultimi sono illimitati, sconsiderati. Di conseguenza ritiene giusta la produzione per i bisogni, ma innaturale (e forse immorale) quella per soddisfare i desideri. Il punto è che, secondo Aristotele, la forma di scambio del baratto è adatta e adeguata alla soddisfazione per i bisogni, mentre quella per i desideri, rappresentata dal denaro e dal lucro, va condannata. La sua conclusione è, dunque, che in presenza di scarsità di risorse, la risposta è la riduzione del consumo.
In questo c'è (o almeno appare) una contraddizione: da una parte elogia la proprietà privata, ritenendo che svolga una funzione utile alla società e che quindi non vada limitata, ma dall'altra teme che questa (e il mercato) conducano a una produzione non più tesa alla soddisfazione di bisogni umani "sani", ma una produzione (anarchica?) il cui unico scopo è la ricerca del guadagno monetario.