Classico Latino: Lucrezio (superiori)

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Classico Latino: Lucrezio (superiori)
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Busto ottocentesco di Lucrezio al colle Pincio, Roma

Di T. Lucrezio Caro (il praenomen ci è dato da San Girolamo mentre il cognomen è dato solo dai manoscritti ed è sospetto), il più grande poeta della sua età, non solo ignoriamo la data esatta della sua nascita ma anche di ogni altro evento particolare della biografia. Fonti principali sono il Chronicon di San Girolamo e la Vita donatiana di Virgilio. Il primo come data di nascita riporta in alcuni codici il 96 a.C., in altri il 94 a.C., raccontando che morì a quarantaquattro anni per suicidio a seguito della follia provocata da un filtro d'amore e che il suo poema fu pubblicato frettolosamente da Cicerone. La Vita donatiana afferma che Lucrezio morì nello stesso giorno in cui Virgilio prese la toga virile a diciassette anni. Da questi dati è incerta sia la data di nascita, 98-96 a.C., sia la morte, 55-53 a.C.. A stare a quanto ci dice il De rerum naturam e notizie contemporanee sappiamo che conobbe C. Memmio, al quale dedicò il poema. La sua opera fu letta ed edita post mortem da Cicerone. Fu lodato come grande poeta da Cornelio Nepote e dovette avere un rapporto con la scuola dei poeti novi. Si ignora anche il luogo di nascita. Che la sua formazione fosse avvenuta prevalentemente a Roma è probabile ma sicuramente non basta per dire che era proprio romano. Di recente si è cercata di rivendicare come patria Pompei e si è voluto per questo dire che era un poeta chiuso nel suo oscuro provincialismo e nella stretta esperienza d'ardente neofita della dottrina d'Epicuro, legato al culto dei poeti arcaici e all'oscuro dell'arte contemporanea. In realtà Lucrezio, nonostante apparga riservato e chiuso nel suo riserbo di esperienza teorica e morale, ugualmente non è un uomo di umile condizioni ma anzi è un signore dell'espressione e conscio del gusto contemporaneo. Resta però la stranezza del fatto che, in un'età in cui ai letterati piace parlare di se stessi, non sia ricordato nel mondo contemporaneo e immediatamente posteriore a lui se non da Cicerone, Cornelio Nepote e Vitruvio, mentre poeti come Virgilio e Orazio lo riecheggiano largamente. È fondato dubitare anche della notizia della sua follia e del suo suicidio. Certo alcuni aspetti della sua poesia come le improvvise pause d'opacità e le sue subitanee accensioni oppure l'appartenere alla filosofia epicurea ma allo stesso tempo essere molto pessimista sulla condizione e il destino umano di sicuro autorizzano a pensare alla notizia geronimiana che compose per intervalla insaniae. Non solo, il modo in cui si arride all'illusione amorosa e l'insopprimibile bestialità fondamentale, può addursi a riprova del filtro amoroso, che gli avrebbe ottenebrato il senno. Forse però la notizia di San Girolamo è viziata dal fatto che l'abbia confuso con Lucullo anch'esso morto, secondo Plutarco e Plinio il vecchio, a seguito della follia provocata da un filtro amoroso. Ciò spigherebbe come mai Arnobio e Lattanzio, i quali citano spesso Lucrezio, non sfruttino, per i loro fini apologetici, la notizia del suicidio.

De rerum natura[modifica]

Manoscritto del De rerum natura risalente al 1483

Il De rerum natura ("Sulla natura delle cose" o anche semplicemente "Sulla natura") è un poema didascalico latino di natura epico-filosofica, scritto da Tito Lucrezio Caro nel I secolo a.C.; è composto di sei libri raggruppati in tre diadi.

In questo poema il filosofo e poeta latino si fa portavoce delle teorie epicuree riguardo alla realtà della natura e al ruolo dell'uomo in un universo atomistico, materialistico e meccanicistico: si tratta di un richiamo alla responsabilità personale, e di un incitamento al genere umano affinché prenda coscienza della realtà, nella quale gli uomini sin dalla nascita sono vittime di passioni che non riescono a comprendere.

Il manoscritto venne riscoperto nel 1417 in un monastero tedesco, non meglio precisato, dall'umanista Poggio Bracciolini. Explicit del De rerum natura di Lucrezio, trascritto da Niccolò Niccoli, amico di Poggio Bracciolini.

Si ipotizza in ambito accademico che Dante (1265-1321 CE) possa aver letto l'opera di Lucrezio (il De rerum natura), dal momento che alcuni versi della Divina Commedia mostrano una grande affinità con dei versi del De rerum natura, il che risulterebbe difficilmente spiegabile diversamente. Si ipotizza che Dante possa avere letto forse solo alcuni frammenti dell'opera, anche se la maggior parte degli studiosi è più tesa a rigettare piuttosto che a confermare l'ipotesi che Dante conoscesse Lucrezio, non essendoci prove certe. Cionondimeno è stato dimostrato da Giuseppe Billanovich che l'opera di Lucrezio era ben nota nella sua interezza in un circolo di preumanisti padovani raccoltisi attorno a Lovato Lovati già dalla metà del tredicesimo secolo.

Struttura e argomento del poema

Il poema di Lucrezio inizia con un inno alla dea Venere, simbolo della voluptas, cioè del piacere.

L'opera è dedicata a Gaio Memmio; riproduce il modello prosastico e filosofico epicureo e la struttura del poema Περὶ φύσεως (Sulla natura) di Parmenide (anche un'opera di Epicuro aveva il medesimo titolo).

Secondo i filologi vi sono corrispondenze e simmetrie interne che corrisponderebbero ad un gusto alessandrino. L'opera infatti è suddivisa in tre diadi, che hanno tutte un inizio solare ed una fine tragica. Ogni diade comincia con un inno ad Epicuro e l'ultimo libro termina con un altro inno ad Epicuro, mentre il secondo libro inizia con un inno alla scienza e il terzo libro con l'esposizione dell'estetica di Lucrezio.

Essendo un poema didascalico, ha come modello Esiodo e quindi anche Empedocle, che aveva preso il modello esiodeo come massimo strumento per l'insegnamento della filosofia. Altri modelli potrebbero essere i poeti ellenistici Arato di Sicione e Nicandro di Colofone, che usavano il poema didascalico come sfoggio di erudizione letteraria.

Il poema ha tre argomenti principali:

  • La dilacerante antinomia fra ratio e religio: La ratio è vista da Lucrezio come chiarità folgorante della verità «che squarcia le tenebre dell'oscurità», mentre la religio è ottundimento gnoseologico e bovina ignoranza. Lucrezio scrive che occorre trattare la struttura fondamentale del cielo e degli Dei per capire i principi delle cose, si tratta di spiegare razionalmente i fenomeni naturali senza considerare l'intervento degli Dei o con la convinzione che l'uomo sia lo scopo ultimo della volontà degli Dei. Lucrezio afferma che bisogna dimostrare le nefaste conseguenze della religione e adduce come esempio il caso di Ifigenia, dicendo poi che il mito è una rappresentazione falsata della realtà (si veda l'evemerismo).
  • Dottrina epicurea: Riprende i temi principali della dottrina epicurea, che sono: l'aggregazione atomistica e il clinamen (vita e morte), la liberazione dalla paura della morte, del dolore e degli Dei e dalla spiegazione dei fenomeni naturali. La sostanza è unica, predefinita ed eterna. Gli atomi si muovono in una dimensione infinita, il vuoto, attraversando tutto l'universo. L'universo è composto solamente da atomi e vuoto. (Per questa ragione Lucrezio è un atomista). L'anima dell'uomo è anch'essa costituita da atomi che, quando il corpo muore, si disperdono nell'universo, per essere riutilizzati dalla natura.
  • L'uomo e il progresso: Lucrezio nega ogni sorta di creazione, di provvidenza e di beatitudine originaria e afferma che l'uomo si è affrancato dalla condizione di bisogno tramite la produzione di tecniche, che sono trasposizioni della natura. Un dio o degli dei esistono, ma non crearono l'universo, tanto meno si occupano delle azioni degli uomini. Lucrezio afferma che i saperi razionali sulla natura ci mostrano un universo infinito formato da atomi che segue delle leggi naturali, indifferente verso i bisogni dell'uomo, che si può spiegare senza ricorrere alle divinità.

Per quanto riguarda l'indifferenza della Natura per l'uomo, Leopardi si ispirerà nella composizione dell'operetta Dialogo di un Islandese con la Natura, ad un passo simile nel III libro del De rerum natura.

Riassunto dei libri

Primo libro

Il poema si apre con l'inno a Venere, di cui si celebra l'azione fecondatrice nel cielo, nel mare e nel nostro mondo e di cui si esalta la potenza, come principio fondamentale che governa la vita. Proprio per questo il poeta ne invoca l'aiuto nella composizione dell'opera che dedica a Memmio e ne chiede l'intervento pacificatore a favore dei Romani. Dopo un breve passo sulla concezione della divinità secondo Epicuro, Lucrezio incoraggia l'amico allo studio della vera ratio e gli promette di parlare dell'essenza della realtà nel suo complesso e di svelargli l'origine delle cose. Segue quindi l'elogio di Epicuro, presentato come il vero maestro, superiore agli altri uomini. Questi ha il grandissimo merito di aver liberato l'umanità dal timore religioso che nasce dalla credenza nella possibilità di una punizione dell'animo dopo la morte e in un intervento divino nelle vicende del mondo. Con la sua razionale indagine sulla natura, ha dimostrato che gli dei esistono negli "intermundia", ma non hanno alcun interesse per le questioni umane: perciò l'uomo può venerarli, ma non attribuire loro la responsabilità di quei fenomeni, che seguono, invece, le inflessibili leggi della natura. Accentuando la polemica antireligiosa, Lucrezio arriva a presentare la religio come una specie di mostro che, accovacciato nell'alto dei cieli, schiaccia e umilia l'umanità. Gravissimi sono i misfatti che produce: basta pensare al sacrificio di Ifigenia, immolata dal padre per placare l'ira di Artemide e favorire la partenza delle navi greche verso Troia: è un delitto che offende la stessa divinità, dal momento che ciò che appare pietas ne costituisce invece una grave violazione. Contro le menzogne dei vati che alimentano la paura della morte, Lucrezio sottolinea la necessità di conoscere i fenomeni fisici, celesti e terrestri e quindi l'importanza di un'indagine scientifica della natura ai fini della liberazione dalle passioni che sconvolgono la vita e allontanano le gioie pure. A questo punto il poeta mette in rilievo le difficoltà del suo compito e lo zelo con cui affronta il lavoro legato all'interpretazione dei testi greci e alla povertà della lingua latina, ancora inadeguata a nuovi argomenti; comunque, mosso da un forte senso d'amicizia per Memmio, è impegnato a trovare le parole giuste, rifiutando tecnicismi e neologismi e scegliendo termini già in uso, adatti a scoprire il mondo della natura. Del resto, come dirà alla fine del libro, la difficile impresa sta riuscendo visto che "su una materia oscura scrivo versi luminosi, tutto aspergendo della grazia delle Muse". Con la fisica ha quindi inizio l'esposizione della dottrina epicurea. Lucrezio fissa anzitutto il principio che nulla nasce dal nulla e ogni essere è costituito da una particolare aggregazione di elementi fini, semplici e si forma secondo specifiche modalità di tempi e di ambienti, con esclusione di ogni intervento divino. Niente può essere generato dal niente, altrimenti tutti gli esseri nascerebbero a caso e ciò che è generato sarebbe indipendente dal generante. Allo stesso modo nulla si riduce al nulla, dal momento che l'annullamento delle cose sarebbe spontaneo e non ci sarebbe bisogno di cause disgregatrici, mentre la distruzione ha bisogno di forze disgreganti, proporzionate alla dissolubilità delle cose. Se avvenisse l'annullamento, i corpi non potrebbero più rinnovarsi; nascita e morte delle cose è invece aggregamento e disgregamento di parti, perciò esiste una materia fondamentale ed eterna, la quale è costituita da corpi minimi e invisibili. Esistono anche realtà di cui non ci accorgiamo: per esempio una forza enorme è il vento che agita cielo, mare e terra e non si vede; allo stesso modo sentiamo (ma non vediamo) gli odori, il caldo, il freddo e il suono che eppure sono corpi perché agiscono sui sensi. Esiste dunque la materia eterna ed esiste il vuoto incorporeo: essi sono entità essenziali, dotate di qualità essenziali (che non si possono cambiare) e qualità accidentali (il cui mutamente non determina una modificazione fisica). La qualità propria della materia è fare resistenza e senza il vuoto tutto sarebbe immobile, visto che se la materia occupasse tutto non ci sarebbe né movimento né vita. Il principio enunciato da Lucrezio è che dov'è vuoto non c'è materia, dov'è materia pura, non c'è vuoto, ma tutti i corpi (anche quelli più compatti) hanno in sé del vuoto: se un gomitolo di lana e una palla di piombo hanno peso diverso, questo dipende dal fatto che il gomitolo contiene più vuoto e meno materia della palla. La quantità di vuoto è ciò determina la facilità della disgregazione di un corpo: più un corpo è leggero (cioè contenente molto vuoto), più è facile da separare e disgregare. Della materia fanno parte i corpora certa cioè gli atomi che, dunque, non possono essere distrutti e disgregati. I corpi primi solidi e senza vuoto sono eterni e, se non lo fossero, tutte le cose ritornerebbero al nulla. Gli atomi sono semplici e indissolubili, perché non contengono vuoto e formano un complesso omogeneo e indivisibile di minimi indifferenziati oltre i quali è il nulla. I minimi per se stessi non potrebbero esistere: si trovano nell'atomo che è un insieme omogeneo e coerente di queste particelle e dal numero e dalla posizione dei minimi derivano le varie forme degli atomi. Gli elementi primari sono dunque solidi e semplici, tutti assai piccoli uniti da forti legami: non sono miscugli di cose, ma unità definite elementari a cui nulla si può aggiungere o togliere, compatti e immortali. Quando un corpo finisce il proprio ciclo vitale, essi ritornano ad essere liberi e si scambiano con altri. Del resto esiste un termine per ogni ciclo di vita: infatti vediamo che sempre le cose rinascono e ogni specie ha un periodo preciso nel quale raggiunge la sua acme e uno fisso entro il quale completa il proprio destino. Dopo l'ampia trattazione sulla fisica atomica, Lucrezio avvia la polemica contro gli avversari del pensiero epicureo: si inserisce così la confutazione di Eraclito che aveva visto nel fuoco l'origine di tutte le cose e si accomuna poi la condanna per quanti hanno visto nei vari elementi naturali (dall'aria alla terra e all'acqua) il principio di tutte le cose. Non si risparmia neppure Anassagora il quale riteneva che, alla base di tutto, ci fossero le omeomerie, particelle minutissime dalla natura perfettamente identica alle cose e agli esseri a cui avrebbero dato vita. Il libro si avvicina alla conclusione con l'invito rivolto a Memmio a seguirlo con attenzione, mentre si aggiunge nuova materia ad un canto che vuol far conoscere la vera natura delle cose. Infinita è la materia, infinito è lo spazio. Una cosa finita ha un limite e il limite deve essere segnato da un'altra cosa; ma all'infuori del tutto c'è il niente e il tutto è infinito. Se l'universo avesse un limite, la massa della materia, tratta dal peso dei suoi elementi solidi, si sarebbe nel tempo accumulata nel fondo e non esisterebbero più né le cose né la vita del mondo. Ma i corpi elementari non hanno riposo e gli atomi si rinnovano senza tregua, le cose che vediamo si limitano tra loro: l'aria fa da confine ai colli, le montagne all'aria, la terra al mare e il mare alle terre. Ma al di la di tutto non c'è niente che faccia da confine. La natura limita la materia con il vuoto e il vuoto con la materia; così alternando, essa rende tutto infinito.

Secondo libro

Il libro secondo si apre con un dettagliato e significativo elogio alla serenità del sapiente il cui corpo è esente dalla fatica e dal dolore che invece affliggono gli uomini stolti: la dolcezza e la serenità stanno proprio nell'assenza di timori e affanni che di natura non apparterrebbero al corpo, per questo è necessario che lascino spazio alla gioia. Quest'ultima può essere raggiunta solo dalla dottrina filosofica e dallo studio della natura stessa che il poeta si accinge a descrivere. Lucrezio spiega infatti il moto con cui i corpuscoli della materia producono le varie cose o le dissolvono e aggiunge che la stessa materia nel complesso rimane in “somma quiete”. Le particelle elementari e i loro moti non si possono percepire in quanto inferiori alle facoltà sensitive; sono perciò invisibili insieme ai loro moti. D'altro canto anche le cose visibili celano spesso i loro movimenti, se lontane da chi le osserva. Gli atomi si muovono appunto in modo travagliato e incessante con la stessa velocità, secondo la teoria del clinamen; infatti nel cadere verticalmente, trascinati dal proprio peso, nel vuoto, deviano leggermente e anziché precipitare in basso, danno luogo a scontri permettendo alla natura di creare le cose. I corpuscoli primordiali delle cose hanno forme e figure molto diverse, poiché ognuno di essi ricerca quella che gli è “propria e ben nota” e grazie a questa caratteristica generano le sensazioni. Le particelle moleste ed aspre come quelle “dell'assenzio e dell'acre centaurea”, sono strutturate dalla ruvidezza della materia, per questo, penetrando, lacerano il corpo e creano una sensazione sgradevole. Invece quelle che accarezzano i sensi, cioè quelle rotonde e buone al tatto sono formate dalla levigatezza della materia. Esistono poi dei corpuscoli che non sono né pungenti, né piacevolmente levigati, e che provocano solo “solletico” ai sensi. Un esempio sono le particelle rotonde e levigate da un lato e ruvide dall'altro dell'acqua del mare, che diventa così una sostanza fluida e amara allo stesso tempo. In ogni caso Lucrezio ritiene fermamente che il senso più importante del corpo sia il tatto, tanto nel godimento quanto nel fastidio, provocato dall'urto, nel corpo stesso, dei germi che si agitano tra loro disturbando il senso. Infine il poeta indaga le trasformazioni del mondo e si sofferma brevemente sulla fine o morte delle cose che esso contiene, che non è corretto chiamare “distruzione” perché non è altro che la disgregazione delle loro coesioni. “Il cielo, la terra, il sole, la luna, il mare” e tutto quanto esiste, che non è affatto unico nell'universo né è certamente opera degli dèi, è attraversato da tre fasi dopo la nascita: la crescita, lo sviluppo fino all'estremo, e il declino, che Lucrezio individua nell'età attuale.

Terzo libro

Il terzo libro inizia con un grande elogio del filosofo greco Epicuro visto come il salvatore di tutta l'umanità. Lucrezio celebra la ratio, la quale consente una visione esatta del reale, libera dalle interpolazioni date dalla paura della morte e degli dei. Per rendere più comprensibile il suo messaggio usa la metafora delle mura: queste non sono altro che la forma concreta dell'ignoranza. Proprio gli ignoranti, insieme ai superstiziosi e agli innamorati, vengono denominati “miseri”, poiché non conoscono la recta ratio. Lucrezio tratta poi dell'anima e della sua natura mortale: l'intento dell'autore è quello di distogliere l'uomo dal timore della morte. Attraverso molte argomentazioni dimostra che anche l'animus e l'anima periscono con il corpo; il primo viene identificato con la mente, mentre il secondo è il principio vitale che risiede in tutto il corpo. È presente poi l'idea epicurea di rapportare le emozioni agli elementi dell'anima: l'ira al fuoco, la paura al vento, la serenità all'aria. Inoltre fa notare la predominanza dei caratteri in tre specie di animali (l'ira nel leone, la paura nel cervo, la placidità nel bue). Nei rapporti con il corpo, la mente ha la supremazia sull'anima: infatti la vita sussiste finché la mente è integra, anche se l'organismo è privato di alcune sue membra e di gran parte dell'anima. Infatti, spiega Lucrezio, l'occhio continua a vedere nonostante le lacerazioni del suo contorno, purché la pupilla rimanga intatta. Sia l'animus che l'anima sono parte dell'uomo non meno che una mano e un piede (cfr. v. 98). Essi sono quindi destinati a disperdersi, come lo è anche tutta la realtà, composta da atomi. Per quanto riguarda l'anima, egli la differenzia dal resto dicendo che le sue particelle sono semplicemente più piccole. Lucrezio giudica irrazionale il convincimento dell'uomo comune che pensa che qualcosa dell'individuo sopravviva anche dopo la fine del corpo, perché forse continua a “sentire”. Egli nota che non si ha coscienza di quanto avvenuto prima dell'esistenza terrena e che così non la si avrà nemmeno riguardo ad una possibile vita ultraterrena. Certamente, per l'autore, l'anima proverebbe delle sensazioni estranee all'individuo di cui faceva parte ed in ogni caso non ricorderebbe il suo passato. Nel momento in cui si perisce, cessa quindi ogni forma di coscienza e l'individuo non prova più nulla. Allora le credenze degli inferi non vengono spiegate in altro modo se non come la proiezione dei nostri mali. Dunque, la paura della morte è nata da credenze vane e non si deve cadere nell'errore di smettere di vivere perché continuamente tormentati da questo pensiero. Infatti, secondo Lucrezio, se una persona ha goduto pienamente delle esperienze che gli sono capitate perché non essere sazi? Al contrario, se la vita è stata una continua sofferenza non ci sono pretesti per non volerla abbandonare.

Quarto Libro

Inizia con un proemio (vv. 1-25) nel quale Lucrezio afferma di voler sciogliere l'animo dagli stretti nodi della religione, si paragona al medico che inganna i bambini cospargendo di miele l'orlo del bicchiere contenente l'amaro assenzio in modo tale da inghiottirli insieme,allo stesso modo Lucrezio, poiché la dottrina appare troppo complicata a chi non l'ha mai incontrata, cercherà di trattarla nel modo più “melodioso” e semplice possibile. Il tema trattato è l'esistenza dei simulacri, inizia paragonandoli a “cortecce” o “pellicole” (membranae vel cortex) staccate via dalla superficie dei corpi che volano in giro per l'aria e terrorizzano la nostra mente apparendoci nel sonno e nella veglia. I simulacri, atomi sottilissimi, si distaccano dalle cose o dai corpi e vanno a colpire i nostri sensi. Lucrezio scrive che le immagini delle cose sono emesse dalla superficie stessa di queste ultime e prosegue illustrando il funzionamento dei sensi. Tratta inizialmente la vista e i fenomeni connessi, afferma che è nelle immagini la causa della visione e sostiene che abbiamo continuamente sensazione delle cose grazie al continuo fluire delle cose che si staccano da ogni cosa e si diffondono in tutte le parti circostanti. Inoltre, passa ad analizzare anche i problemi relativi alla vista, ad esempio le luci brillanti che evitiamo di guardare e la vista possibile dal buio verso la luce ma non il contrario. Parla anche di illusioni ottiche (ad es. quelle riguardanti la prospettiva), l'occhio ha il compito di vedere e riprodurre nella mente ciò che ha veduto, spetta poi all'intelligenza conoscere la natura delle cose. Lucrezio riguardo l'udito dice che i suoni e la voce si odono, quando entrati nelle orecchie, colpiscono il senso, infatti la voce è fatta di corpi e “l'asprezza del suono deriva dall'asprezza degli elementi come una voce liscia deriva da elementi lisci” (vv. 542-543). Il terzo senso di cui parla è il gusto, avvertiamo in bocca il sapore quando mastichiamo, il cibo che si diffonde “per tutti i condotti del palato e per i canali contorti della lingua porosa” (vv. 620-621), il piacere de sapore può essere avvertito entro i limiti de palato quando poi il cibo passa attraverso la gola non lo si avverte più. Infine l'odorato che fluisce e si espande ovunque, gli odori che stimolano le narici, al contrario dei simulacri e dei suoni, non riescono a coprire lunghe distanze. Conclude il libro analizzando la passione d'amore, l'amore è insaziabile e chi ne è privo ne trae vantaggio senza soffrire, affermando infatti, che nel medesimo corpo da cui è partito l'ardore deve anche essere anche spenta la fiamma del desiderio, anche se accade spesso il contrario, perché Venere fa innamorare gli amanti. Infatti, accade spesso agli uomini innamorati di ignorare tutti i difetti dell'amata essendo accecati dal desiderio e attribuiscono ad essa qualità che non possiede realmente. Lucrezio afferma così che è necessario fare attenzione a non cadere nelle “reti d'amore” perché poi è dura uscirne e l'amore porta inevitabilmente alla sofferenza.

Quinto libro

Si apre con un nuovo elogio a Epicuro, definito “non formato da corpo mortale, ma piuttosto un dio” (vv. 6-8) poiché sapiente per eccellenza e fondatore di quelle dottrine da Lucrezio condivise. In seguito egli enuncia la sua teoria sulla mortalità del mondo, mettendo in luce quella che viene considerata la sua formazione. Il mondo, costituito da terra, acqua, aria e fuoco, è nato all'aggregazione casuale di atomi e non per opera divina, cosicché ad un suo inizio seguirà una fine. Lucrezio nega il concetto di provvidenza e considera insensato qualunque timore verso gli dèi, i quali, inconsapevoli dell'esistenza dell'uomo, non si interessano delle sue azioni; infatti godono di un'eterna felicità e vivono fuori del mondo, negli intermundia. Viene poi descritto il moto dei corpi celesti, evidenziando in particolare il sole e la luna: il primo possiede calore e luce propri, mentre per la luna viene analizzata la questione della sua luminosità. Un altro tema trattato approfonditamente è quello dell'umanità; infatti, si parla del processo evolutivo dell'uomo, dalla sua prima comparsa sino alla civilizzazione. Gli uomini primitivi si sono evoluti sia per motivi convenzionali, come il linguaggio, sia per la semplice osservazione del mondo circostante, ad esempio la scoperta del fuoco e l'utilità dell'agricoltura. Grande importanza viene attribuita ai metalli che hanno garantito uno sviluppo delle capacità tecniche e conoscitive della specie; grazie all'insegnamento della natura l'uomo è riuscito a scoprire e a lavorare i metalli sia come utensili sia come armi. Per l'autore l'oro è simbolo di corruzione morale e decadenza, per questo considera l'età dell'oro esiodea peggiore di quella primitiva, anteponendo i beni naturali e necessari a quelli materiali. A fianco all'uomo, anche gli altri esseri viventi sono stati fin dall'inizio soggetti ad una “selezione naturale”: tutte le specie che occupavano una posizione eminente hanno perpetuato la loro stirpe, mentre quelle incapaci di sopravvivere si sono estinte. Da ultimo viene trattato il confronto tra la civiltà primitiva e quella odierna; ne emerge che, col tempo, l'uomo ha preferito soddisfare il proprio benessere personale oltre ai bisogni primari. Brama di potere, avidità di ricchezze, guerre hanno causato paure d'ogni tipo, fino ad una degenerazione della società.

Sesto libro

Si apre con l'esaltazione di Atene e di Epicuro, che ha reso liberi gli uomini con le sue teorie. Poi Lucrezio cerca di dare una spiegazione scientifica ai fenomeni naturali celesti (fulmini, tuoni, nubi, trombe marine) e terrestri (vulcani, terremoti, epidemie) perché vuole liberare gli uomini da ogni timore, soprattutto dal timore degli dei. Lucrezio infatti critica gli uomini che, spinti dalla paura di questi fenomeni, ne danno un'interpretazione sbagliata, ritenendoli espressione di volontà divina. L'autore fornisce spiegazioni sulle molteplici cause di ogni fenomeno naturale traendo anche esempi dall'esperienza quotidiana: ad esempio nei vv. 165-170 per spiegare come il lampo si veda prima di udire il tuono afferma che se vediamo da lontano abbattere un tronco accade che scorgeremo il gesto prima di sentire il colpo. Segue poi una descrizione delle epidemie causate da elementi nocivi nell'aria, nelle messi e nei cibi; in particolare l'autore descrive la peste di Atene (430-429 a.C.), come una forma di morbo ed una esalazione che porta la morte. Dopo aver indicato la provenienza del morbo dalle estreme regioni dell'Egitto, Lucrezio passa in rassegna i sintomi con molta accuratezza, ponendo anche l'attenzione sulle ripercussioni sul corpo: i malati avevano il capo bruciante, gli occhi iniettati di sangue, l'alito emanava un “orribile lezzo”, le forze venivano meno ed avevano un singhiozzo frequente; oltre al dolore erano tormentati da un senso di angoscia e piangevano con incessanti lamenti, erano continuamente arsi e per cercare ristoro giungevano a gettarsi nei pozzi. Lucrezio vuole dimostrare che la peste non è espressione dell'ira divina ma è un fatto naturale; tant'è vero che il morbo colpisce indifferentemente tutti, sia i timorosi, che si sono tenuti lontani dagli ammalati, sia coloro che invece hanno recato soccorso. Per rafforzare questo concetto, delle cause naturali piuttosto che divine della peste, rappresenta l'immagine dei santuari degli dèi pieni di cadaveri. Come molti studiosi hanno affermato, Lucrezio segue il racconto della peste di Tucidide, ma dimostra maggiore partecipazione emotiva ed approfondimento psicologico.

La lingua di Lucrezio

Lucrezio utilizza un linguaggio arcaico e solenne. Questo tono è ricercato dal poeta poiché esso desidera trasmettere la sacralità della sua impresa. Per questo motivo esso utilizza varie figure di suono come l'allitterazione, l'anafora, l'onomatopea, l'epifora ecc. Oltre ad esse ritroviamo anche varianti morfologiche superate o sintagmi arcaizzanti, molto probabilmente dati dalla volontà di riprendere anche un altro poeta latino quale era Ennio, a cui Lucrezio si ispira.

Inno a Venere (I, 1-43)[modifica]

Era consuetudine aprire un poema, sia esso di natura epica o didascalica, con l'invocazione ad un dio oppure alle Muse a che aiutino nella creazione poetica. Lucrezio inizia questo poema con questo inno a Venere della cui alta poeticità nessuno ne ha mai dubitato ma ugualmente se ne ammette l'incoerenza con la dottrina filosofica epicurea. L'epicureismo predica un materialismo assoluto al punto tale che nega la possibilità di un intervento provvidenziale o metacosmico sull'agire dell'uomo. La preghiera quindi di Lucrezio esce fuori dal contesto stesso del poema. Ma la situazione è superabile, al di là della semplice affermazione che agli scrittori è richiesta più la coerenza artistica che logica, imputando la figura di divinità Venere, e di conseguenza Marte, come allegoria. Venere in questo poema è allegoria della forza creatrice della natura. Essa inoltre è il simbolo di tutto cio' che è bello, amabile, armonico, e per questo il poeta chiede a lei non solo di aiutarlo nell'opera, ma anche di infondere la grazia nella creazione artistica. Venere e poi anche il simbolo di pace infatti con il suo fascino seduttivo e in grado di calmare la guerra, simboleggiato da Marte. Tutta questa simbologia è in perfetta congruenza con il credo epicureo che si risolve nell'esaltazione sia della natura nella sua forza creatrice, sia della voluptas come fine ultimo di ogni ricerca dell'uomo, sia, infine, della pax come realizzazione piena della voluptas. Rispetto alla ricchezza di significati di Venere simbolo, risulta marginale il fatto che la dea sia invocata anche perché genetrice dei Romani e protettrice della famiglia dei Memmi. Il primo motivo appare solo un omaggio alla tradizione, il secondo non è che una captatio benevolentiae nei confronti di Memmio, suo amico e protettore.

Testo in Latino[modifica]

Aeneadum genetrix, hominum divomque voluptas,
alma Venus, caeli subter labentia signa
quae mare navigerum, quae terras frugiferentis
concelebras, per te quoniam genus omne animantum
concipitur visitque exortum lumina solis: 5
te, dea, te fugiunt venti, te nubila caeli
adventumque tuum, tibi suavis daedala tellus
summittit flores, tibi rident aequora ponti
placatumque nitet diffuso lumine caelum.
nam simul ac species patefactast verna diei 10
et reserata viget genitabilis aura favoni,
aeriae primum volucris te, diva, tuumque
significant initum perculsae corda tua vi.
inde ferae pecudes persultant pabula laeta
et rapidos tranant amnis: ita capta lepore 15
te sequitur cupide quo quamque inducere pergis.
denique per maria ac montis fluviosque rapacis
frondiferasque domos avium camposque virentis
omnibus incutiens blandum per pectora amorem
efficis ut cupide generatim saecla propagent. 20
quae quoniam rerum naturam sola gubernas
nec sine te quicquam dias in luminis oras
exoritur neque fit laetum neque amabile quicquam,
te sociam studeo scribendis versibus esse,
quos ego de rerum natura pangere conor 25
Memmiadae nostro, quem tu, dea, tempore in omni
omnibus ornatum voluisti excellere rebus.
quo magis aeternum da dictis, diva, leporem.
effice ut interea fera moenera militiai
per maria ac terras omnis sopita quiescant; 30
nam tu sola potes tranquilla pace iuvare
mortalis, quoniam belli fera moenera Mavors
armipotens regit, in gremium qui saepe tuum se
reiicit aeterno devictus vulnere amoris,
atque ita suspiciens tereti cervice reposta 35
pascit amore avidos inhians in te, dea, visus
eque tuo pendet resupini spiritus ore.
hunc tu, diva, tuo recubantem corpore sancto
circum fusa super, suavis ex ore loquellas
funde petens placidam Romanis, incluta, pacem; 40
nam neque nos agere hoc patriai tempore iniquo
possumus aequo animo nec Memmi clara propago
talibus in rebus communi desse saluti.

Traduzione in Italiano[modifica]

Madre degli Eneadi, piacere degli uomini e degli dèi,
Venere datrice di vita, che sotto i corsi celesti degli astri
dovunque ravvivi della tua presenza il mare percorso dalle navi,
le terre fertili di messi, poiché grazie a te ogni specie di viventi
è concepita e, sorta, vede la luce del sole - 5
te, o dea, te fuggono i venti, te le nuvole del cielo,
e il tuo arrivare; a te soavi fiori sotto i piedi fa spuntare
l'artefice terra, a te sorridono le distese del mare
e placato splende di un diffuso lume il cielo.
Ché appena è dischiuso l'aspetto primaverile del giorno 10
e, disserrato, si ravviva il soffio del fecondo zefiro,
prima gli aerei uccelli te, o dea, e il tuo giungere annunziano,
colpiti nei cuori dalla tua potenza.
Poi fiere e animali domestici bàlzano per i pascoli in rigoglio
e attraversano a nuoto i rapidi fiumi; così preso dal fascino 15
ognuno ti segue ardentemente dove intendi condurlo.
Infine, per i mari e i monti e i fiumi rapinosi
e le frondose dimore degli uccelli e le pianure verdeggianti,
a tutti infondendo nei petti carezzevole amore,
fai sì che ardentemente propaghino le generazioni secondo le stirpi - 20
poiché tu sola governi la natura
e senza di te niente sorge alle celesti plaghe della luce,
niente si fa gioioso, niente amabile,
te desidero compagna nello scrivere i versi
ch'io tento di comporre sulla natura 25
per il nostro Memmiade, che tu, o dea, in ogni tempo
volesti eccellesse ornato di ogni dote.
Tanto più dunque, o dea, da' ai miei detti fascino eterno.
Fa' sì che frattanto i fieri travagli della guerra,
per i mari e le terre tutte placati, restino quieti. 30
Tu sola infatti puoi con tranquilla pace giovare
ai mortali, poiché sui fieri travagli della guerra ha dominio
Marte possente in armi, che spesso sul tuo grembo
s'abbandona vinto da eterna ferita d'amore;
e così, levando lo sguardo, col ben tornito collo arrovesciato, 35
pasce d'amore gli avidi occhi anelando a te, o dea,
e, mentre sta supino, il suo respiro pende dalle tue labbra.
Quando egli sta adagiato sul tuo corpo santo, tu, o dea,
avvolgendolo dall'alto, effondi dalla bocca soavi parole:
chiedi, o gloriosa, pei Romani placida pace. 40
Ché in tempi avversi per la patria non possiamo noi compiere
quest'opera con animo sereno, né l'illustre progenie di Memmio
può in tali frangenti mancare alla comune salvezza.

Analisi del Testo[modifica]

1-2.

Aeneadum: Nome con cui erano chiamati poeticamente i Romani perché discendenti di Enea, figlio di Venere e Anchise. La discendenza da Venere per via di Enea e da Marte per via di Romolo era motivo di vanto per i Romani.

Hominum divomque voluptas: È indicato il secondo motivo per cui Lucrezio si rivolge alla dea Venere essendo "piacere degli uomini e degli dei".

Alma: Letteralmente "datrice di vita". I tre epiteti attribuiti a Venere (genetrix... voluptas... alma) sono in climax riferendosi a mano a mano sempre di più ad un campo più vasto (prima è vista solo in relazione ai Romani, poi in relazione al complesso degli uomini e degli dei e poi a tutti gli esseri animati).

2-3.

Labentia: Da labor dà l'idea dello scorrere silenzioso ma anche rapido degli astri del cielo.

Quae... quae: Anafora, che è tipica della preghiera, da autonomia ai due quadri (mare e terras) che per questo acquistano maggior rilievo.

Navigerum... frugiferentis: Sono composti coniati quasi sicuramente da Lucrezio non ritrovandosi in nessuna altra parte della letteratura latina. Tra l'altro il secondo è un apax legomenon non solo di Lucrezio ma di tutta la lingua latina.

Frugiferentis: = Frugiferentes.

Concelabras: Duplice significato sia "rendi popoloso" sia "rendi festosto" che comunque richiama all'immagine di un quadro pieno di vita che ben si intona con la visione di Venere come potenza vivificatrice.

3-5.

Per te quoniam: = Quoniam per te l'anastrofe pone in rilievo la figura di Venere.

Animantum: = Animantium.

Visit: Intensivo di video che bene esprime la voglia di vivere delle creature appena nate.

Exortum: Participio congiunto con valore temporale accordato a genus "appena nato".

6-9.

Te... te... te... tibi... tibi: Anafora tipica degli inni cletici. Indica il successivo "accendersi" del poeta al graduale apparire della dea. L'apparire di Venere-primavera le forze perturbatrici lasciano lo spazio alla serenità ed alla pace.

Adventumque tuum: L'arrivo di Venere indica la rinascita degli istinti amorosi in particolare e della gioia vi vivere in generale.

Suavis: = Suaves è accordato con flores.

Daedala: L'aggettivo rimanda alla figura mitica di Dedalo. Ma il grammatico greco Paolo Festo ricollega tale termina al greco δαιδάλλειν ("variare") con riferimento quindi all'estrosa creatività della terra.

Summittit: Propriamente "mette sotto i piedi" formando un tappeto fiorito su cio deve passare la dea.

Rident: La metafora si spiega in riferimento al bianco della schiuma che spicca, come se fosse un sorriso, nel grigio-azzurro dell'acqua, quando il mare s'increspa.

10-13. Si chiarisce il quadro vago dei vv. 1-9. Venere mostra la sua potenza creatrice in Primavera e i primi a reagire con gli istinti amorosi sono gli uccelli, poi le greggi e le fiere, e poi ogni essere vivente.

Patefactast: Aferesi per patefacta est.

Verna: L'aggettivo, per ipallage, è accordato con species, anziché con diei, come sarebbe stato più logico.

Et reserata... Favoni: Anche questa proposizione dipende da simul ac.

Genitabilis: Da intendere con valore attivo.

Aura: Accezione positiva, rispetto alla negativa venti di v. 6 è suggerita non solo dal contesto ma anche dalla composizione fonica (il senso di apertura conotato dalla ripetizione della vocale a).

Favoni: Detto anche Zefiro, è un vento caldo che spira da ovest. Topica la sua presenza nelle descrizioni primaverili.

Primum: Da mettere in rapporto con inde di v. 14 e con denique di v. 17. L'avverbio va inteso nel suo vero e proprio valore temporale, perché effettivamente sono gli uccelli i primi ad annunziare la primavere con i loro canti ed i loro voli.

Tuumque... initum: Molto più pregnante dell' adventum di v. 7 che fa capire la maggiore penetrazione dell'impulso amoroso confermato dall'enjambement (tuumque/ ... initum).

Perculsae: Da percello.

Corda: È accusativo di relazione.

14-16.

Inde: Dopo gli uccelli è la volta delle ferae, pecudes.

Ferae, pecudes: Con il primo termine allude agli animali feroci, il secondo a quelli domestici. Si considerano entrambi i sostantivi legati per asindeto ma si alcuni interpretano ferae come aggettivo con valore predicativo ("resi selvaggi dallo stimolo amoroso") ma l'interpretazione è poco convincente se si considera che qui l'amore è visto come qualcosa di dolce e carezzevole (blandum... amorem di v. 19).

Pecudes persultant pabula: Notare l'allitterazione. È una figura di suono frequente nella poesia lucreziana, retaggio del linguaggio poetico enniano.

Persultant: Da per e salto frequentativo di salio.

Rapidos: Stessa radice di rapio. Ben dà risalto all'impulso amoroso che spinge e supera ogni ostacolo.

Amnis: = Amnes.

Capta lepore: Il soggetto è sottinteso quisque ricavabile dal quamque che segue.

Quamque: Vale qui eam.

17-20. Questi versi in parte completano il quadro dall'altro lo sintetizzano riproponendo il suono degli uccelli (frondiferasque domos) e degli anemali selvatici (camposque viventis).

Montis: = Montes.

Rapacis: = Rapaces stesso significato di rapidos di v. 15.

Frondiferas domos: L'accusativo è retto sempre da per. Il poeta allude chiaramente ai nidi.

Virentis: = Virentes.

Omnibus: A tutti gli esseri, compresi gli uomini.

Incutiens: Il verbo ben fa comprendere la penetrazione del sentimento amoroso.

Saecla: = Saecula è accusativo. Tale termine è usato in Lucrezio in forma sincopata.

21-27.

Quae quoniam: Dopo i vv. 6-20 che parlano dell'epifania della dea il discorso prosegui con i motivi sulla scelta di tale dea da parte di Lucrezio.

Sola: Alcuni critici come Paratore hanno visto in questo termine il fatto che Lucrezio ritenga Venere non solo la dea creatrice ma anche distruttrice ma non sembra dal contesto potersi avvalorare questa tesi.

Nec sine... exorcitur: Venere viene qui esaltata come il simbolo della vita stessa che altro non è se non un passaggio dalle tenebre alla luce.

Nec sine: Litote per et cum.

Dias: Questo aggettivo ha in se sia il senso di "divino" che di "luminoso".

Oras: Inteso sia come "confine" tra le tenebre e la luce da superare durante la nascita sia come "regione, plaghe".

Exoritur: Chiara ripresa di exortum di v. 5.

Neque... quicquam: Venere non è solo simbolo della vita ma anche della bellezza e dell'amabilità.

Te sociam... esse: Ci viene qui chiarito dopo 23 versi l'oggetto della richiesta di Lucrezio a Venere a conferma che il proemio è una captatio benevolentia verso la dea che è forza creatrice, infonde grazia e piacevolezza e in grado di infondere tranquillità e pace ai mortali.

Te: In forte rilievo quasi a dire "ecco perché voglio che proprio tu sia...".

Scribendis versibus: Dativo di fine.

Quo ego... rebus: Brevemente Lucrezio ci presenta autore (ego) nome dell'opera (de rerum natura) e nome del destinatario (Memmiadae).

Pangere: È termine tecnico per indicare creazione poetica.

Conor: Il verbo ben esprime la concezione lucreziana dell'arte come fatica.

Memmiadae: Lett. "per il discendente dei Memmi". Il patronimico da rilievo al fatto che Lucrezio lo diriga non solo verso Memmio ma verso tutta la stirpe, anche se forse è solo per un utilizzo metrico. Memmio era di antica nobiltà ma di dubbia moralità a quanto dicono Catullo e Cicerone. Era un uomo dissoluto e forse è stato coinvolto anche in un processo politico per corruzione. Ugualmente aveva una cultura del gusto e una tendenza al mecenatismo. Non si sa nulla del rapporto di amicizia con Lucrezio nè perché è stato scelto lui. Si pensa che forse Memmio avesse rivelato una sua propensione per l'epicureismo e Lucrezio volesse consolidare questa propensione, ipotesi che Cicerone sembrerebbe negare dato che ricorda come proprio lui abbia fatto abbattere la casa di Epicuro ad Atena per farci costruire una villa). È pensabile quindi che non conoscesse e anzi avversasse questa dottrina come altri aristocratici. Lucrezio lo prende quindi a modello di tutta un'umanità smarrita a cui offre la via della salvezza.

Quem tu... voluisti: Venere era protettrice della famiglia dei Memmi come attesta la numismatica del periodo.

Omnibus... rebus: Formula generica che non spiega per quali meriti sia stato scelto Memmio ma da cio che è detto dopo devono essere doti culturali, di raffinatezza nel gusto e di amore per l'arte.

28.

Quo magis... leporem: Proprio perché il destinatario è Memmio, la dea deve infondere armonia e grazia al poema così che l'insegnamento sia meglio recepito.

Da dictis, diva: Notare l'allitterazione.

Aeternum: Da intendere in senso attivo "che dà eternità". La concezione eternizzante della poesia è un luogo comune dell'arte classica e classicistica.

Leporem: È la dolce armonia che accarezza l'udito e ricrea lo spirito.

29-30. Inizia la seconda parte della preghiera. Il poeta si rivolte a Venere come la sola che possa concedere pace ai mortali placando con il suo fascino la furia di Marte.

Effice ut: Riprende efficis ut di v. 20, creando un efficace parallelismo strutturale.

Fera moenera militiai: Forse Lucrezio non allude ad una guerra in particolare nè esterna nè civile ma ad un clima di tensione che si era creato a Roma fra le fazioni in lotta con la tensione che poteva esplodere da un momento all'altro.

Moenera militiai: Espressione arcaica per munera militiae.

Omnis: = Omnes riferito a terras.

Sopita: Con valore predicativo.

31-37.

Mortalis: = Mortales voce epica per homines.

Mavors: Arcaismo per Mars. Se Venere è il simbolo della forza creatrice, Marte lo è di quella distruttrice. È forse questo una contrapposizione di retaggio empedoclea degli opposti che reggono il mondo.

In gremium qui: Anastrofe per qui in gremium.

Se/reicit: L'enjambement da proprio l'idea dell'abbandonarsi di Marte al grembo di Venere.

Devictus: È più di victus ed indica una sconfitta completa. È un termine del linguaggio epico che si addice perfettamente all'immagine di questa simbolica battaglia.

Atque ita... ore: L'immagine di Marte in grembo a Venere ha una eccezionale valenza plastica al punto che molti critici hanno pensato che Lucrezio avesse in mente qualche gruppo scultoreo. Anche se non è da escludere, è più probabile che questa scena, come molte altre che hanno una realistica evidenza, sia frutto della genialità di Lucrezio.

Suspiciens: Da sub + aspicio indica il guardare dal basso verso l'alto.

Tereti cervice reposta: Ablativo assoluto.

Reposta: Forma sincopata per reposita necessaria per ragioni metriche (reposita avrebbe avuto una sillaba in più).

Inhians: Inhio propriamente significa "stare a bocca aperta" ed esprime bene Marte che anela con passione ed ardore all'amplesso con la dea.

Eque: = Et e.

Pendet: Il verbo suggerisce l'idea di una dipendenza oltre che fisica anche psicologica, quale può essere quella di chi si sente in balìa di un altro.

Resupini: Si accorda con un eius sottinteso. Sul piano del significato riprende suspiciens di v. 35.

38-40.

Hunc: L'accusativo dipende da circumfusa. Da notare la posizione di forte rilievo.

Tuo... corpore sancto: È o un ablativo strumentale retto da circumfusa oppure un ablativo di luogo dipendente da recubantem ("che giace sul tuo...").

Super: Avverbio.

Suavis: = Suaves.

Placidam... pacem: Reende tranquilla pace di v. 31 a dimostrazione dell'insistenza di Lucrezio sull'argomento. L'iperbato, poi, esprime l'augurio che la pace possa durare a lungo.

Incluta: Arcaismo per incita (da in intensivo + clueo).

41-43.

Nam neque... saluti: La pace è richiesta non solo per se stessa ma anche come presupposto affinché il poeta possa portare a compimento l'opera educativa e Memmio comprenda in pieno.

Agere hoc: Espressione tipica del linguaggio rituale. Alcuni considerano agere con valore intransitivo ed hoc ablativo accordato a tempore. Ma è preferibile intendere hoc come accusativo dato che già è presente un passo simile in lucrezio con tale valore (IV, 969: nos agere hoc autem...).

Patriai: Forma arcaica per patriae.

Tempore iniquo: Non si sa quale sia con esattezza il tempo iniquo per la patria. Ci sono varie ipotesi, nessuna delle quali sembra però essere valida. È probabile che qui ci si riferisca al clima di tensione tra aristocratici e democratici post congiura di Catilina e poi nel conflitto da miloniani e clodiani nel periodo 60-55 a.C..

Tempore iniquo... aequo animo: La contrapposizione è resa evidente oltre che dall'antitesi iniquo-aequo anche dalla disposizione chiastica degli elementi.

Desse: = Decesse. La gravità della situazione obbliga il cittadino romano, a maggior ragione aristocratico, ad agire per la salvezza della patria. Forse Lucrezio pensa all'elezione di Memmio a pretore nel 58 anno in cui, stando a Cicerone, era visto dall'oligarchia senatoria come il campione della sua causa. Questo suo supportare Memmio però non va visto come un supporto alla politica oligarchica da parte di Lucrezio contro la politica dei triumviri (Cesare, Pompeo e Crasso) come invece ritiene Perelli per il quale già il fatto di dedicarlo a Memmio sia indizio della tendenza politica di Lucrezio. A Memmio il poeta guarda come un cittadino romano qualsiasi e non per la sua politica. Sono altri i motivi che inducono Lucrezio a scegliere Memmio come dedicatario del poema, e non certamente quelli politici.

Trionfo della scienza sulla superstizione (I, 62-101)[modifica]

La vita dell'uomo era oppressa dal peso della religione fino a quando un greco, Epicuro, non oso' per primo di ribellarsi a questa oppressione. Egli, non spaventato da fulmini e minacciosi rumori del cielo, ingaggiò una lotta con la religio e vinse. Il premio di questa vittoria fu la consapevolezza che la natura è regolata da leggi immutabili ed inviolabili che escludono un qualsiasi intervento miracolistico da parte di forze metafisiche. Epicuro non ha vinto solo per se ma per tutta l'umanità e la sua vittoria non porterà il male sulla terra, come qualcuno dice, ma la libererà dalla religione che è l'unica che porta davvero male sul mondo. Lo dimostra il mito di Ifigenia sacrificata dal padre alla dea Artemide per una stupida credenza secondo la quale la dea avrebbe permesso la partenza della flotta se avesse avuto un sacrificio umano. Nell'economia del poema il brano ha funzione proemiale. Dopo l'inno a Venere, Lucrezio sente l'esigenza in primo luogo di celebrare il trionfo della scienza sull'ignoranza e le false credenze, dall'altra di difendere la filosofia epicurea dall'accusa di empietà rivolta da più parti. Questa apologia è ancora più da capire se si pensa che a Roma si erano diffusi anche culti orientali che vedevano nell'epicureismo un nemico da sconfiggere. In una società in cui la religione tradizione e importata era vista come un supporto per la politica, sia perché l'epicureismo predicando la non incidenza degli dei nel mondo minava alla base il potere religioso inteso come strumento del potere politico, sia perché metteva in discussione i valori tradizionali su cui si era sempre retta la società romana. Di contro a queste accuse Lucrezio oppone il valore scientifico della dottrina epicurea e la sua funzione liberatrice dell'uomo dall'angoscia e dall'oppressione.

Testo in Latino[modifica]

Humana ante oculos foede cum vita iaceret
in terris oppressa gravi sub religione,
quae caput a caeli regionibus ostendebat
horribili super aspectu mortalibus instans, 65
primum Graius homo mortalis tollere contra
est oculos ausus primusque obsistere contra;
quem neque fama deum nec fulmina nec minitanti
murmure compressit caelum, sed eo magis acrem
inritat animi virtutem, effringere ut arta 70
naturae primus portarum claustra cupiret.
ergo vivida vis animi pervicit et extra
processit longe flammantia moenia mundi
atque omne immensum peragravit mente animoque,
unde refert nobis victor quid possit oriri, 75
quid nequeat, finita potestas denique cuique
qua nam sit ratione atque alte terminus haerens.
quare religio pedibus subiecta vicissim
opteritur, nos exaequat victoria caelo.
Illud in his rebus vereor, ne forte rearis 80
impia te rationis inire elementa viamque
indugredi sceleris. quod contra saepius illa
religio peperit scelerosa atque impia facta.
Aulide quo pacto Triviai virginis aram
Iphianassai turparunt sanguine foede 85
ductores Danaum delecti, prima virorum.
cui simul infula virgineos circum data comptus
ex utraque pari malarum parte profusast,
et maestum simul ante aras adstare parentem
sensit et hunc propter ferrum celare ministros 90
aspectuque suo lacrimas effundere civis,
muta metu terram genibus summissa petebat.
nec miserae prodesse in tali tempore quibat,
quod patrio princeps donarat nomine regem;
nam sublata virum manibus tremibundaque ad aras 95
deductast, non ut sollemni more sacrorum
perfecto posset claro comitari Hymenaeo,
sed casta inceste nubendi tempore in ipso
hostia concideret mactatu maesta parentis,
exitus ut classi felix faustusque daretur. 100
tantum religio potuit suadere malorum.

Traduzione in Italiano[modifica]

La vita umana giaceva sulla terra alla vista di tutti
turpemente schiacciata dall'opprimente religione,
che mostrava il capo dalle regioni celesti,
con orribile faccia incombendo dall'alto sui mortali. 65
Un uomo greco per la prima volta osò levare contro di lei
gli occhi mortali, e per primo resistere contro di lei.
Né le favole intorno agli dèi, né i fulmini, né il cielo
col minaccioso rimbombo lo trattennero: anzi più gli accesero
il fiero valore dell'animo, sì che volle, per primo, 70
infrangere gli stretti serrami delle porte della natura.
Così il vivido vigore dell'animo prevalse,
ed egli s'inoltrò lontano, di là dalle fiammeggianti mura del mondo,
e il tutto immenso percorse con la mente e col cuore.
Di là, vittorioso, riporta a noi che cosa possa nascere, 75
che cosa non possa, infine in qual modo ciascuna cosa
abbia un potere finito e un termine, profondamente confitto.
Quindi la religione è a sua volta sottomessa e calpestata,
mentre noi la vittoria uguaglia al cielo.
Questo, a tale proposito, io temo: che per caso tu creda 80
d'essere iniziato ai fondamenti d'una dottrina empia e d'entrare
nella via della scelleratezza. Mentre per contro assai spesso proprio
essa, la religione, cagionò azioni scellerate ed empie.
Così in Aulide l'altare della vergine Trivia
col sangue d'Ifianassa turpemente macchiarono 85
gli eletti condottieri dei Danai, il fiore degli eroi.
Appena la benda avvolta attorno alla bella chioma virginea
le scese lungo le guance in due liste uguali,
appena si accorse che il padre stava mesto innanzi all'altare,
e accanto a lui i sacerdoti celavano il ferro, 90
e il popolo effondeva lacrime alla sua vista,
muta di terrore, piegate le ginocchia, crollava a terra.
Né alla misera in tale frangente poteva giovare
l'aver dato per prima al re il nome di padre.
Ché sollevata dalle mani dei guerrieri e tremante 95
fu portata all'altare, non già perché, compiuto il rito solenne,
potesse essere accompagnata al suono dello splendido imeneo,
ma perché pura impuramente, nel tempo stesso delle nozze,
cadesse vittima mesta immolata per mano del padre,
e così fosse data alla flotta partenza felice e fausta. 100
A tali misfatti poté indurre la religione.

Analisi del Testo[modifica]

62-63.

Humana... religione: La posizione di rilievo di Humana e di religione rispettivamente all'inizio e alla fine dei vv. 62-63 evidenzia subito i protagonisti della lotta (uomo e superstizione).

Ante oculos: Il referente visivo accresce il plasticismo della scienza che si evidenzia nella pregnanza del lessico.

Foede: Vergognoso era lo stato di prostrazione dell'uomo specie se si considere la sua essenza razionale.

Cum: Nella congiunzione è implicito sia il valore temporale sia il valore causale e avversativo.

Iaceret: Il verbo è fortemente connotato perché sottolinea la passività dell'uomo al suo destino di soccombenza. Esso è rafforzato dai segni che seguono (oppressa, gravi, sub).

Religio: Il termine religio in Lucrezio è da intendere sempre come superstizione.

64-65.

A caeli regionibus: La religione è mostrata come un mostro che sporgendo il capo dalle regioni del cielo spaventa l'umanità. L'immagine oltre a mostrare la sproporzione tra la grandezza del mostro religione e la piccolezza dell'uomo mostra anche come sia dal cielo e dagli eventi atmosferici a trovare la religio la sua forza.

Super: Può essere considerato un avverbio (= desuper) oppure una preposizione legata ad mortalibus. Nel primo caso mortalibus è dativo dipendente da instans nel secondo è ovviamente ablativo.

66-67.

Primum: La priorietà non è quella di una visione materialistica e meccanicistica alla Democrito. La novità di Epicuro e di aver fondato, su quella concezione fisica, norme di comportamento etico.

Graius homo: Perifrasi per indicare Epicuro che è nominato solo una volta da Lucrezio (III, 1042) in tutta l'opera. Il primo termine indica la provenienza da quella terra che col tempo è divenuta patria del pensiero razionale e della cultura. Il secondo pone l'accento sull'essenza umana di Epicuro. Egli non è né un dio né un semidio ma è un uomo come gli altri ed è per questo che va riconosciuto ancora di più il suo coraggio.

Mortalis: = Mortales. L'iperbato (mortalis... oculos) permette la collocazione di mortalis accanto ad homo marcando ancora di più l'essenza umana di Epicuro, in contrapposizione non solo alla superstizione che viene a caeli regionibus ma anche al resto dell'umanità che giace prostrata in una condizione subumana.

Tollere: Alcuni testi riportano la variante tendere tramandata da Nonio.

Contra: Avverbio ripetuto in epifora anche nel verso successivo, è in posizione di rilievo a connotare l'atteggiamento di sfida di Epicuro.

Primusque: In funzione predicativa. Da notare l'insistenza sul motivo della priorità.

68-71.

Quem... caelum: Erano queste le armi che usavano gli dei per soggiogare gli uomini.

Fama: Propriamente "ciò che si dice" (cfr. forfaris, fatus sum, fari = dire) il termine è anceps può avere sia significato positivo che negativo dipende dal contesto e in questo caso è negativo.

'Deum: = Deorum.

Minitanti/murmure: Allitterazione in enjambement.

Compressit: È accordato solo con caelum, come anche il successivo inritat.

Inritata: Ha la a lunga perché è da considerarsi un perfetto sincopato di inritavit.

Effingere: L'anticipazione rispetto alla consecutiva ut... cupiret da cui dipende fa capire ancora di più la forza devastante dell'opera di Epicuro.

Arta... claustra: La natura è presentata metaforicamente come un mondo chiuso dominato dagli dei che sfruttano l'ignoranza e la paura degli uomini per tenerli soggiogati. Epicuro rompre le pareti dimostrando che il mondo non ha confini ed è retto da leggi meccaniche immutabili.

Primus: Ancora un'affermazione di priorità.

Cupiret: Forma arcaica di cuperet da giustificare per ragioni metriche (con cuperet si sarebbero avute tre sillabe brevi in fine di verso).

72-77.

Ergo: Lucrezio trascura i passaggi della titanica battaglia e arriva direttamente al risultato (pervicit).

Vivida vis... pervicit: Allitterazione.

Pervicit: È usato intensitivamente "stravinse" e il prefisso per dà valore completivo e perfettivo all'azione.

Extra... mundi: È da mettere in relazione con la cosmogonia antica e specie pitagorica secondo quale l'universo era delimitato da un involucro di etere di natura ignea. Epicuro ha stracciato questo involucro rivelando diversi mondi oltre il nostro.

Omne immensum: Omne è qui aggettivo sostantivato, corrispondente al greco το παν, mentre immensum è attributo ad esso concordato.

Mentre animoque: Di solito sono sinonimi ma qui fanno l'uno riferimento all'acume intellettivo e l'altro all'ardore conoscitivo.

Unde: Dall'esplorazione del cosmo.

Victor: Ha valore predicativo. Epicuro è paragonato ad un generale vittorioso che riporta il suo bottino a casa.

Quid possit... nequeat: Il poeta come fa in altre parti del poema (I, 594-96; V, 88-90; VI 64-66) afferma che tutte le cose nascono in base a delle leggi fisiche immutabili ed eterne e quindi è escluso ogni intervento miracolistico.

Finita... haerens: Costr. denique quanam ratione cuique sit finita potestas atque terminus alte haerens "infine per quale ragione ciascuna cosa abbia un potere finito ed un limite profondamente infisso".

Finita potestas: La natura degli atomi non cambia mai genere e quindi di conseguenza si riproducono sempre identiche cose. Come dirà nei vv. 584-86 ogmi singola specie ha un termine fisso sia di sviluppo che di vita. In altre parole il potere di ogni cosa cambia al variare della species ma è comunque delimitato da leggi inderogabili.

Cuique... sit: Costrutto con il dativo di possesso.

Quanam sit ratione: Interrogativa indiretta dipendente sempre da refert.

Terminus haerens: Espressione tratta dal campo semantico dell'agrimensura ed è relativa alla consuetudine di porre, allora come oggi, pietre di confine per delimitare i campi.

78-79. Con la vittoria di Epicuro le parti sono invertite. Le superstizioni sono domate mentre l'umanità si innalza fino al cielo. Questi due versi riecheggiano in antitesi i vv. 62-64.

Perdibus subiecta: Pedibus riecheggia in terris di v. 63 mentre subiecta riprende iaceret e sub di vv. 62-63.

Vicissim: In posizione di enfatica a marcare il rovesciamento delle parti.

Opteritur: = Obteritur è il corrispondente di oppressa di v. 62 con il quale ha in combune il prefisso ob.

Nos... caelo: Si solleva alla stessa altezza da dove la religio dominava l'umanità. Con il trionfo dell'intelligenza e ragione sulla superstizione si chiude il primo inno ad Epicuro.

Nos: Da notare la carica enfatica che sottolinea come se la battaglia sia stata fatta dal solo Epicuro la vittoria è attribuita ed ha effetti a tutti "noi".

80-82. Inizia la seconda parte e Lucrezio porta un esempio dello strapotere della religio sull'umanità un episodio del mito.

Illud... sceleris: Immaginando una possibile obiezione da parte di Memmio o di un qualsiasi altro lettore di come eliminare la religio sia sbagliato essendo lei un freno morale risponde che invece è proprio lei a prevedere le più grandi nefandezze.

Illud: È prolettico della completiva ne... rearis meglio ometterlo nella traduzione.

In his rebus: Lett. "a proposito di questi argomenti" riferendosi alla vittoria di Epicuro è un formula di transizione molto frequente in Lucrezio.

Impia: L'aggettivo per ipallage è accordato con elementa anziché che con rationis.

Te: Soggetto di inire.

Rationis: Qui per "sistema filosofico".

Indugredi: Forma arcaica di derivazione enniana sta per ingredi.

82-83.

Quod contra: Altra forumal di transizione simile a quod si "che al contrario".

Saepius: Comparativo assoluto.

Illa: La posizione in fine di verso conferisce al dimostrativo particolare rilievo "proprio quella".

Scellerosa atque impia: Notare la posizione invertita a impia... sceleris dei versi precedenti.

84-86.

Aulide... virorum: Artemide irata con Agamennone che aveva ucciso una cerca sacra ad essa non concede venti favorevoli alle navi bloccate in Aulide che devono viaggiare verso Troia. L'indovino Calcante consultato rivelò che la dea si sarebbe placata solo con l'uccisione della figlia primogenita di Agamennone, Ifigenia. Agamennone a malincuore accetto e con l'inganno, dicendogli che avrebbe sposato Achille, portò Ifigenia al campo greco e la quale solo allora capì l'inganno. Il mito si conclude con il salvataggio da parte della dea di Ifigenia con la sostituzione da parte di una cerva della stessa ma di questa parte Lucrezio non fa menzione, sia per non contraddire la filosofia epicurea che non ammette intervento divino, sia perché vuole dimostrare a che scelleratezze può condurre la religio.

Aulide: Porto della Beozia.

Quo pacto: Equivale qui a eo pacto quo.

Triviai: La desinenza del genitivo in -ai è arcaica. Era l'epiteto di Artemide perché la sua statua era posta spesso nei "trivii".

Iphianassai: Così è chiamata da Omero la primogenita di Agamennone. Presso i poeti più recenti (Pindaro, Sofocle, Euripide) si attesta la forma Ifigenia.

Turparunt: Forma sincopata per turpaverunt.

Ductores Danaum delecti: La posizione di questa perifrasi, subito dopo turparunt sanguine foede accentua la contrapposizione tra l'atrocità del misfatto e il ruolo di prestigio di quelli che di tale misfatto si erano macchiati. L'allitterazione delle d, poi, insieme con il linguaggio volutamente enfatico, sottolinea ancora di più il contrasto.

Danaum: = Danaorm così complessivamente venivano chiamati i Greci che parteciparono alla spedizione di Troia.

Prima virorum: Traduce l'espressione greca ta prota andròn. Virorum è genitivo partitivo. Il linguaggio epico è chiaramente usato in funzione parodica.

87-92. Il lungo periodo è formato da due proposizione temporali (simul... profusast; simul... sensit) e dalla principale posta alla fine, a v. 92.

Cui: Nesso relativo riferito ad Ifigenia.

Simul: Equivale qui a simul ac ed è congiunzione temporale.

Infula: La fascia che cingeva il capo dei sacerdoti e delle vittime. Di solito da esso partevano delle vittae cioè delle strisce che scendevano dall'una e dall'altra guancia. Qui Lucrezio infula nesl senso di vittae.

Virgineos... comptus: L'accusativo è retto da circum di circumndata. Il termine comptus propriamente vale "acconciatura" di capelli e suggerisce l'idea di una fanciulla preparata per un lieto evento. Si eccentua il contrasto tra infula che rimanda al destino di morte e comptus che rimanda invece al sogno di nozze della fanciulla.

Ex utraque pari malarum parte: Costruire ex utraque malarum (= ex utraque mala) pari parte. Pertanto malarum è un genitivo partitivo, e pari parte equivale a pariter.

Profusast: Aferesi per profusa est.

Et maestum... sensit: È la mestizia del padre a far intuire ad Ifigenia la triste verità.

Hunc... ministros: L'infinitva dipende da sensit.

Hunc propter: Anastrofe.

Civis: = Cives. È usato impropriamente per indicare i soldati del campo greco. Lucrezio rompe la funzione poetica con un termine riferibile solo al contesto romano.

Muta metu: "Muta per la paura". La paronomasia ha qui la funzione disottolinerare il rapporto molto stretto tra silenzio e paura. Ifigenia che sperava nelle nozze si accorge dalla mestizia del padre, dall'esitanti sacerdoti e dal pianto dei soldati quale è il suo triste destino e impallidita dalla paura crolla a terra.

Terram... petebat: Forse Lucrezio nel descrivere la scena ha tenuto presente qualche opera pittorica. Cicerone (Orator, 74) ci dice che un pittore Timante aveva dipinto la scena in cui Ifigenia è in atto di cadere a terra, gli astanti hanno il volto mesto mentre Agamennone in segno di estremo dolore se lo copre. Comunque anche se avesse davanti a se una scena dipinta nulla toglie al genio di Lucrezio nel saperlo rendere così plasticamente per iscritto.

93-94.

Quod... donarat: Dichiarativa soggettiva.

Princeps: Ifigenia era la prima figlia di Agamennone.

Donarat: Forma sincopata per donaverat. Il verbo dono è costruito qui con l'accusativo della persona cui si dona e l'ablativo della cosa donata (aliquem aliqua re).

'95-100

Sublata... deductast: Il poeta per marcare la contrapposizione tra sogno di sposa e vittima sacrificale carica di ambiguità i segni piegandoli ad esprimere significati ed emozioni nuove. Il linguaggio tecnico usato per i riti nunziali viene usato per ben altri riti dal poeta. Deriva da qui quella nota di ironia tragica che sembra essere la nota dominante di questi versi.

Virum: = Virorum.

Deductast: Aferesi per deducta est. Nelle cerimonie nunziali la deductio era l'atto con cui gli amici ed i familiari sollevavano la sposa e la portavano a braccia a casa del marito. Lucrezio usa qui lo stesso termine per indicare un accompagnamento verso ben altra meta.

Non ut... Hymenaeo: Proposizione finale.

Sollemni more... perfecto: Ablativo assoluto con valore temporale. Il poeta allude chiaramente alla cerimonia della confarreatio, cioè a quel particolare momento in cui gli sposi, dopo aver sacrificato a Giove Capitolino, si dividevano un focaccia di farro. Era questo il momento sacrdo del rito.

Claro... Hymenaeo: Era il corteo nuziale che accompagnava la sposa alla nuova casa; veniva così chiamato da Imeneo, il dio che propiziava le nozze. Il termine claro fa riferimento o alla gioiosa esplisione di danze e canti con cui parenti ed amici festeggivano gli sposi, oppure alle fiaccole che illuminavano le tenevre, considerato che il trasferimento nella nuova casa avveniva per lo più di sera.

Comitari: È infinito passivo da comito, di uso molto raro.

Casta inceste: L'ossimoro è ancora più evidente se si considera che i due termini presentano la stessa radice. L'espressione è stata variamente interpretata; alcuni la considerano "una unità concettuale inscindibile, a sé stante e conchiusa" (C. Greco), sull'esempio di analoghe espressioni greche, e traducono "pura impuramente" o con il significato di "rimasta vergine perché uccisa empiamente" oppure con quello di "mantenuta vergine per essere sacrificata". È preferibile l'interpretazione che lega inceste a concideret perché pare sottolinera meglio il contrasto tra purezza della ragazza e empietà del sacrificio.

Nubendi: Genitivo del gerundio.

Hostia: Predicativo del soggetto sempre riferito ad Ifigenia.

Mactatu maesta: L'allitterazione sottolinea il rapporto stretto tra la mestizia della ragazza e la scelleratezza del padre.

Mactatu: Sostantivo della IV declinazione da collegare al verbo macto con il quale si indica lo sgozzamento delle vittime sacrificali.

Felix faustusque: È una espressione che suona di amaro sarcasmo essendo richiamata l'immagine del padre che sgozza gli animali sacrificali per un felice e fausto matrimonio della figlia mentre qui sgozza la figlia per una felice e fausto partenza della flotta.

101.

Tantum: La posizione di rilievo, ad inizio di verso, ben esprime il senso di sgomento del poeta di fronte a tanta barbarie.

Malorum: Genitivo partitivo dipendente da tantum.