Utente:Valentina rapaccini 2
== L'epilessia tra Ottocento e Novecento:
davvero il male dell'anima? == --Valentina rapaccini 2 13:33, 17 gen 2010 (CET)
Stando alla celebre definizione coniata da Assael e Avanzini, autori di uno dei più variegati ed intriganti testi sul tema proteiforme del morbus epilettico (“L'epilessia tra Ottocento e Novecento”), l'epilessia si configurerebbe come il male dell'anima, per la sua prorompente attitudine ad indurre gradualmente l'uomo ad una incontrastabile e degradante lacerazione interiore mediante raptus repentini di istantanea e spasmodica convulsione fisica determinati da aree nervose localizzate soggette ad una momentanea sovreccitazione. Ciò che infatti colpisce dei soggetti epilettici è generalmente l'isolamento forzato delle loro condizioni di vita, la circoscrizione del campus agendi esistenziale entro prestabiliti limiti contestuali, imposti necessariamente dalla repentinità improvvisa degli ictus epilettici. In realtà infatti non sarebbe corretto (secondo Avanzini) ricondurre l'epilessia esclusivamente al concetto di malattia, considerandola un'alterazione patologica che determina un'ipersensibilità (congenita o acquisita) di alcune aree nervose particolari, in quanto il morbo epilettico presenta una sostanziale omogeneità per quanto riguarda gli aspetti sindromico e fisiologico (è infatti semplice correlare le manifestazioni fisiche alle alterazioni funzionali delle zone compromesse) ma disomogenea per quanto riguarda la componente eziopatogenetica, poiché risulta effettivamente difficile individuare cause specifiche che determinino la concreta iperfunzionalità delle aree interessate. In realtà pertanto, sarebbe maggiormente corretto parlare di sindrome, poiché la patologia esaminata manifesta dirette implicazioni fisiche, influenzando la totalità del soggetto affetto a partire dai comportamenti esteriori fino a coinvolgere concretamente la sfera psicologico-emotiva (è stato riscontrato che i pazienti epilettici sono frequentemente soggetti ad improvvisi sbalzi d'umore e temono particolarmente l'emarginazione dal contesto sociale di appartenenza).
Storicamente, attestazioni di questa sindrome sono presenti fin dall'epoca babilonese (la più antica citazione relativa al morbo epilettico risalente al 2000 a.C. è visibile in un testo di medicina babilonese conservato presso il British Museum di Londra); presso la civiltà greca il morbo erculeo (così era chiamato) era oggetto di curiosità e soggezione al contempo, poiché spingeva gli individui affetti ad incontrastate ed anomale manifestazioni fisiche alle quali veniva attribuito un valore spirituale di intimo contatto con il sovrasensibile (Ippocrate ritiene invece che l'epilessia non ha nulla di più divino o sacro rispetto ad altre malattie, né nella sua natura, né nella sua origine). Anche Presso la civiltà romana l'epilessia rivestiva un valore singolare, al quale deve la sua denominazione di morbus comitialis: l'apparizione di una crisi epilettica durante un comitium era considerata epifania divina, segno di disaccordo o riprovazione delle divinità (motivo per cui il comitium veniva immediatamente interrotto). Nel Medioevo addirittura, la malattia subì un'inquietante interpretazione demoniaca, in quanto gli individui epilettici erano trattati come affetti da possessione diabolica. Successivamente, si è cercato di studiare scientificamente la sintomatologia epilettica riconducendola a precise cause scatenanti riscontrabili in alterazioni del sistema nervoso (i cosiddetti focus epilettogeni) : a questo proposito, Jackson fu il primo ad effettuale una netta distinzione tra sintomi positivi (riscontrabili in disinibizioni di alcune aree sottocorticali del SNC) e sintomi negativi (afferenti da una progressiva perdita funzionale di un'area cerebrale colpita da noxa patogena).
Successivamente, dopo la scoperta delle connessioni sinaptiche neuronali ad opera di Sherrington, viene introdotto da Hauptmann un nuovo farmaco anticonvulsivante dotato di scarsa tossicità (il Fenobarbital) che, agendo direttamente sul tessuto nervoso, mira ad una progressiva limitazione dell'intensità e della frequenza delle scariche elettriche. Tuttavia, nonostante la rapidità con cui si susseguono le scoperte scientifiche (soprattutto per quanto riguarda l'invenzione di nuove tecniche di registrazione dell'attività elettrica cerebrale, come metodica elettroencefalografica), complesse e molteplici sono le difficoltà con le quali si scontrano i luminari nell'approccio terapeutico al fenomeno epilettico: risulta spesso ostica l'elaborazione di strategie curative compatibili con il naturale metabolismo fisiologico del paziente in quanto prive di effetti collaterali potenzialmente dannosi per l'organismo.
Aprendo una riflessione generale sul contesto, è interessante a questo punto notare come un tema affascinante ed ampiamente controverso come quello dell'epilessia si inserisca nel quadro culturale suggestionante che caratterizza la prima metà del Novecento, dominato da disarmanti impeti di eugenetica pianificazione selettiva incentivata dallo sviluppo crescente ed apparentemente incontrastato della dottrina della degenerazione proposta da Morel, secondo la quale l'umanità avrebbe dovuto adeguarsi gradualmente a degli standard prefissati di perfezione che imponevano l'eliminazione sistematica di quegli individui non considerati atti a raggiungere livelli ottimali di prestazioni mentali e fisiche.
Gli epilettici sono i primi a venir confinati nell'oblio, proprio a causa di quegli incontrollabili automatismi psicomotori che sfuggono a qualsiasi coercitivo controllo volontario, per quello stato definito crepuscolare e vischioso di offuscamento temporaneo delle facoltà sensitive ed incapacità limitante di ripristinare un contatto equilibrato e coerente con il mondo abituale. Continuano comunque gli studi sull'epilessia e si apre un dibattito interessante che vede contrapporsi due schieramenti radicalmente antitetici: olisti e localizzazionisti; nello studio della struttura cerebrale, i primi considerano il cervello come un tutt'uno (olon in greco), gli altri invece tendono a sezionare la materia e struttura cerebrale complessiva in specifiche zone di analisi scientifica; il risultato a lungo andare sarà proprio la compenetrazione sinergica delle due velthanshaun, che concorreranno integrandosi a realizzare una perfetta ed indispensabile visione d'insieme: il cervello si configurerà quindi come l'esito di una inscindibile correlazione funzionale di elementi specifici che, nella loro interdipendenza reciproca, contribuiscono alla concreta azione performativa dell'unità complessiva.
Questa visione apre uno squarcio problematico su nuove prospettive terapeutiche (oltre che diagnostiche) del fenomeno epilettico, poiché attribuisce centralità sostanziale all'interconnessione imprescindibile delle diverse aree funzionali della psiche umana e valuta l'efficienza di ogni eventuale tentativo terapeutico in relazione stretta con la sua compatibilità nella rispettiva sfera di influenza e nel contesto di collocazione.