Torquato Tasso (superiori)

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Torquato Tasso (superiori)
Tipo di risorsa Tipo: lezione
Materia di appartenenza Materia: Letteratura italiana per le superiori 2
Avanzamento Avanzamento: lezione completa al 75%

La vita[modifica]

Torquato Tasso

L'infanzia e l'adolescenza[modifica]

Torquato Tasso nacque a Sorrento l'11 marzo 1544, secondogenito di Bernardo Tasso, letterato e cortigiano nato a Venezia ma di antica nobiltà bergamasca, poi al servizio del principe di Salerno Ferrante Sanseverino del vicereame di Napoli,[1] e di Porzia de' Rossi, nobildonna napoletana di remote origini pistoiesi da parte paterna[2] e di origine pisana da parte materna. La primogenita Cornelia era venuta alla luce nel 1537.

All'età di sei anni Torquato si recò in Sicilia e dalla fine del 1550 fu con la famiglia a Napoli, dove lo seguì il precettore privato don Giovanni d'Angeluzzo, frequentò per due anni la scuola dei Gesuiti appena istituita e conobbe Ettore Thesorieri con il quale restò in corrispondenza epistolare. Ebbe quindi una solida educazione cattolica, rafforzata anche dalle frequenti visite al monastero benedettino di Cava de' Tirreni (dove si trovava la tomba di Urbano II, il papa che aveva indetto la prima crociata), e ricevette il sacramento dell'Eucarestia quando «non avea anco forse i nov'anni», come scrisse egli stesso.[3]

Rimase a Napoli fino ai dieci anni, poi seguì il padre a Roma, abbandonando con grande dolore la madre che fu costretta a rimanere nella città partenopea perché i suoi fratelli «rifiutavano di sborsarle la dote».[4] Nella città pontificia fu Bernardo a educare privatamente il figlio, ed entrambi subirono un grave trauma quando nel febbraio 1556 vennero a sapere della morte di Porzia, probabilmente avvelenata dai fratelli per motivi d'interesse.[1] La situazione politica subì però a Roma uno sviluppo che preoccupò Bernardo: era scoppiato un dissidio tra Filippo II e Paolo IV e gli spagnoli sembravano sul punto di attaccare l'Urbe. Mandò allora Torquato a Bergamo presso la villa dei Tasso da alcuni parenti e si rifugiò presso la corte urbinate di Guidobaldo II della Rovere. Il figlio lo raggiunse pochi mesi dopo.[5]

Bernardo si spostò intanto a Venezia, indiscussa capitale dell'editoria, per occuparsi della pubblicazione del suo Amadigi. Poco tempo dopo, anche il figlio si stabilì in laguna nella primavera del 1559. Sembra che proprio a Venezia, non ancora sedicenne, abbia cominciato a mettere mano al poema sulla prima crociata e al Rinaldo.[6] Il Libro I del Gierusalemme fu scritto dietro consiglio di Giovanni Maria Verdizzotti e Danese Cataneo, due poeti mediocri che allora frequentava e che già avevano scorto nel Tasso un talento straordinario.[7]

Il periodo universitario[modifica]

Nel novembre 1560 Torquato si iscrisse per volere paterno alla facoltà di legge dello Studio di Padova, raccomandato a Sperone Speroni, la cui casa frequentò più delle aule universitarie, affascinato dalla vastissima cultura dell'autore della Canace. Tasso non amava la giurisprudenza, tanto che attendeva più alla produzione poetica che allo studio del diritto. Così, dopo il primo anno ottenne dal padre il consenso per frequentare i corsi di filosofia ed eloquenza con illustri professori tra cui spicca il nome di Carlo Sigonio. Quest'ultimo rimarrà un modello costante per le dissertazioni teoriche tassesche future - prime fra tutte quelle dei Discorsi dell'arte poetica, in cui si nota anche l'influsso dello Speroni - e lo avvicinò allo studio della Poetica aristotelica.

È in quest'epoca che si colloca il primo innamoramento del ragazzo, già molto sensibile e sognatore. Il padre era stato introdotto nella corte del cardinale Luigi d'Este, e nel settembre 1561 si era recato col figlio a fare la conoscenza dei familiari del suo protettore. Torquato conobbe nell'occasione Lucrezia Bendidio, dama di Eleonora d'Este, sorella di Luigi.[8] Lucrezia, quindicenne, era molto bella ed eccelleva nel canto, anche se era piuttosto frivola. Avendo notato un interessamento della fanciulla, Tasso cominciò a dedicarle rime petrarcheggianti, ma dovette presto essere ricondotto alla realtà, poiché nel febbraio 1562 scoprì che la ragazza era promessa sposa al conte Baldassarre Macchiavelli. Non si arrese, continuando a cantarla in poesia, ma dopo le nozze si lasciò andare al risentimento e alla delusione.[9]

Intanto, l'entourage cominciava ad avvedersi del talento del Tassino (come veniva chiamato per essere distinto dal padre), e nel 1561 e 1562 gli furono commissionate delle rime per alcuni funerali. Confluendo in due raccolte, furono le prime poesie pubblicate da Torquato. Ancora più notevoli erano gli sforzi prodigati per il Rinaldo, composto in soli dieci mesi e dedicato a Luigi d'Este. Il poema epico cavalleresco,[1] incentrato sulle avventure del cugino di Orlando, fu stampato a Venezia nel 1562 e contribuì a diffondere il nome di colui che aveva ancora soltanto diciotto anni.[10]

Il padre intanto lo aveva messo nel 1561 al servizio del nobile Annibale di Capua, e il duca d'Urbino gli aveva procurato una borsa di studio di cinquanta scudi annui per permettergli di continuare i corsi universitari.[11] Dopo due anni a Padova, Tasso proseguì gli studi all'Università di Bologna, ma durante il secondo anno di permanenza nella città felsinea, nel gennaio 1564, fu accusato di essere l'autore di un testo che attaccava pesantemente, con una satira sferzante, alcuni studenti e professori dello Studio. Espulso e privato della borsa di studio, fu costretto a ritornare a Padova, dove poté beneficiare dell'ospitalità di Scipione Gonzaga, che gli fornì il necessario per continuare il percorso di formazione.

In casa del principe Gonzaga era appena stata istituita l'Accademia degli Eterei, ritrovo di seguaci dello Speroni che miravano alla perfezione della forma, non senza scadere nell'artificiosità. Tasso vi entrò assumendo il nome di Pentito e leggendovi molti componimenti, tra cui quelli scritti per Lucrezia Bendidio e per una donna che la critica ha per lungo tempo identificato in Laura Peperara. I due canzonieri amorosi andarono in parte a finire tra le Rime degli Accademici Eterei, stampate a Padova nel 1567, assieme ad alcune che scriverà nel primo anno ferrarese. Dell'Accademia Tasso fece parte con il nome di Pentito.[12] Si legò anche all'Accademia degli Infiammati.

A Ferrara[modifica]

Nell'ottobre 1565 giunse a Ferrara in occasione del secondo matrimonio (quello con Barbara d'Austria) del duca Alfonso II d'Este[13], al servizio del cardinale Luigi d'Este, fratello del duca, spesato di vitto e alloggio, mentre dal 1572 sarà al servizio del duca stesso. I primi dieci anni ferraresi furono il periodo più felice della vita di Tasso, in cui il poeta visse apprezzato dalle dame e dai gentiluomini per le sue doti poetiche e per l'eleganza mondana.

Il cardinale gli lasciò la possibilità di attendere solamente all'attività poetica, e Tasso poté così continuare il poema maggiore. Rapporti particolarmente intensi intercorsero con le due sorelle del duca, Lucrezia e Leonora.[14] La ricchezza culturale della corte estense costituì per lui un importante stimolo; ebbe infatti modo di conoscere Battista Guarini, Giovan Battista Pigna ed altri intellettuali dell'epoca. In questo periodo riprese il poema sulla prima crociata, dandogli il nome di Gottifredo. Nel 1566 i canti erano già sei, e aumenteranno negli anni appresso.

Nel 1568 diede alle stampe le Considerazioni sopra tre canzoni di M. G. B. Pigna, dove emerge la concezione platonica e stilnovistica che Tasso aveva dell'amore, con alcune note però affatto peculiari, che lo portavano a ravvisare il divino in tutto ciò che è bello, e a definire di matrice soprannaturale anche l'amore puramente fisico. I concetti vennero ribaditi nelle cinquanta Conclusioni amorose pubblicate due anni più tardi.[15] Compose anche i quattro Discorsi dell'arte poetica ed in particolare sopra il poema eroico, anche se videro la luce solo nel 1587 a Venezia, per i tipi di Licino. Nell'ottobre 1570 partì per la Francia al seguito del cardinale e, temendo gli potesse accadere qualche disgrazia nel lungo e pericoloso viaggio, volle dettare le proprie volontà all'amico Ercole Rondinelli, richiedendo la pubblicazione dei sonetti amorosi e dei madrigali, mentre precisava che «gli altri, o amorosi o in altra materia, c'ho fatti per servizio di alcun amico, desidero che restino sepolti con esso meco», ad eccezione di Or che l'aura mia dolce altrove spira.[16] Per il Gottifredo afferma di voler far conoscere «i sei ultimi canti, e de' due primi quelle stanze che saranno giudicate men ree», il che prova che il numero dei canti era salito almeno a otto. Intanto, sempre nel 1570, Lucrezia d'Este sposò Francesco Maria della Rovere, compagno di studi di Torquato nel periodo urbinate.

Il soggiorno transalpino fu di sei mesi, ma, siccome Luigi aveva messo a disposizione del poeta poco denaro, questi trascorse il periodo francese sostanzialmente nell'ombra, con il solo onore di essere ricevuto da Caterina de' Medici, la madre di Enrico II. Di ritorno a Ferrara, il 12 aprile 1571 decise di lasciare il seguito del cardinale. Credeva incorrere in miglior fortuna presso Ippolito II, e scese pertanto a Roma. Anche il cardinale di villa d'Este però lo deluse, e Tasso decise di risalire la penisola, facendosi ospitare qualche tempo da Lucrezia e Francesco a Urbino, prima di entrare, nel maggio 1572, al servizio di Alfonso II.[17]

In questo periodo continuò ad attendere al capolavoro, ma si diede anche al teatro, e scrisse l'Aminta, celebre favola pastorale che rientrava nei gusti delle corti cinquecentesche. Rappresentata con ogni probabilità il 31 luglio 1573 all'isola di Belvedere, dov'era una delle «delizie» estensi, ebbe un grande successo e fu richiesta anche da Lucrezia d'Este a Urbino l'anno successivo. Nell'euforia del successo, nello stesso 1573 Tasso cominciò a scrivere una tragedia, Galealto re di Norvegia, ma la abbandonò all'inizio del secondo atto, salvo rimettervi mano molto più tardi trasformandola nel Re Torrismondo.[18]

Il capolavoro e la revisione[modifica]

L'impegno principale rimaneva comunque il poema epico, per il quale l'autore non aveva ancora stabilito un titolo. Nel novembre 1574 l'opera era quasi completa, visto che «io aveva comincio quest'agosto l'ultimo canto»[19], ma si deve aspettare fino al 6 aprile[20] 1575 per avere l'annuncio del completamento del testo, quando in una lettera al cardinale Giovan Girolamo Albano leggiamo: «Sappia dunque Vostra Signoria illustrissima, che dopo una fastidiosa quartana sono ora per la Dio grazia assai sano, e dopo lunghe vigilie ho condotto finalmente al fine il poema di Goffredo».[21]

Completato quindi nel 1575 il poema maggiore, si aprì per Tasso il periodo della nevrosi e del terrore di aver portato a termine un lavoro non gradito all'Inquisizione, allora in una fase di rigidità estrema (il concilio di Trento si era concluso da soli dodici anni). Tasso sottopose il testo al giudizio di cinque autorevoli personaggi romani - garanzia di validi consigli concernenti l'estetica e la morale - nevroticamente insoddisfatto delle proprie scelte estetiche ma principalmente preoccupato, come s'è visto, dalle questioni religiose. Torquato condivise in parte i consigli degli illustri letterati, che gli avevano rivolto critiche di stampo moralistico, ma talvolta li respinse bruscamente.

Ossessivo nell'apportare modifiche al testo, era continuamente combattuto e incerto sul da farsi, al punto che nell'ottobre arrivò a scrivere al Gonzaga: «Forse a questa particolare istoria di Goffredo si conveniva altra trattazione; e forse anco io non ho avuto tutto quel riguardo che si doveva al rigor de' tempi presenti [...] E le giuro che se le condizioni del mio stato non m'astringessero a questo, ch'io non farei stampare il mio poema né così tosto, né per alcun anno, né forse in vita mia; tanto dubito de la sua riuscita».[22]

Nel 1576 scrisse Allegoria, con cui rivisitava tutto il poema in chiave allegorica cercando di emanciparsi dalle possibili accuse di immoralità. Ma non bastava: gli scrupoli di carattere religioso assunsero la forma di vere e proprie manie di persecuzione. Per mettere alla prova la propria ortodossia nella fede cristiana si sottopose spontaneamente al giudizio dell'Inquisizione di Ferrara, ricevendo nel 1575 e nel 1577 due sentenze di assoluzione.[23]

I disagi presso la corte estense e le fughe[modifica]

Tasso si era stancato anche di Alfonso, e sognava di andare a Firenze, presso la corte medicea. Non è chiaro perché volesse abbandonare Ferrara, ma i motivi adducibili sono vari e variamente intriganti, e tutti hanno in loro almeno una parte di verità. «Ch'io desideri sommamente di mutar paese, e ch'io abbia intenzione di farlo, assai per se stesso può essere manifesto, a chi considera le condizioni del mio stato»[24], scriveva a Scipione Gonzaga.

A far precipitare il rapporto con il duca e la corte furono però gli scrupoli religiosi del poeta. Nell'aprile 1577 Tasso si autoaccusò presso l'Inquisizione ferrarese (dopo l'autoaccusa presso il tribunale bolognese avvenuta due anni prima[25]), attaccando inoltre influenti personaggi di corte. Si cercò allora di far desistere il poeta dall'intenzione di confermare le sue affermazioni negli interrogatori successivi, senza risparmiargli punizioni corporali che non riuscirono a far cambiare idea al Tasso, che si presentò altre due volte davanti all'inquisitore.[26] Siccome Torquato voleva recarsi a deporre presso il Tribunale capitolino, l'inquisitore ferrarese, conscio del fatto che una simile azione poteva mettere a repentaglio la bontà dei rapporti con la Santa Sede, - vitali per casa d'Este - informò immediatamente il duca con una missiva del 7 giugno.[27] Alfonso mise il poeta sotto sorveglianza, e il 17 giugno Tasso, ritenendosi spiato da un servo, gli scagliò contro un coltello. Tasso rimase nella prigione del Castello fino all'11 luglio, quando Alfonso lo fece liberare e lo accolse presso la villeggiatura di Belriguardo, dove però rimase pochi giorni, venendo rimandato a Ferrara per essere consegnato ai frati del convento di s. Francesco.[28]

Il Castello Estense

Il poeta supplicò allora i cardinali dell'Inquisizione romana affinché lo sollevassero da una situazione ormai insopportabile trovandogli una sistemazione nell'Urbe, e nel contempo si lamentava con Scipione Gonzaga per il trattamento ricevuto, ma pochi giorni dopo si ritrovò nuovamente nella prigione del Castello. Tentò quindi un'altra via e chiese invano perdono al suo signore.[29] Tasso era indubbiamente provato dalle fatiche della Gerusalemme, e le lettere del periodo rivelano un animo inquieto e agitato, spesso preoccupato di smentire chi voleva vedere in lui i germi della pazzia. Intanto la prigionia nel Castello si prolungava, e non restava che la fuga: nella notte tra il 26 e il 27 luglio si travestì da contadino e fuggì nei campi. Raggiunta Bologna, proseguì fino a Sorrento, dove, ancora sotto mentite spoglie e fisicamente distrutto, si recò dalla sorella, annunciandole la propria morte, così da vedere la sua reazione, e svelandole la sua vera identità solo dopo aver osservato la reazione realmente addolorata della donna.[30]

A Sorrento rimase parecchi mesi ma, volendo riprendere parte alla vita di corte, fece inviare da Cornelia una supplica al duca, in data 4 dicembre 1577, chiedendo di essere riammesso alle sue dipendenze, in un testo che fu certamente dettato, almeno in parte, dal poeta stesso: «La maggior colpa che io credo sia in lui, è la poca sicurezza, che ha mostrata d'avere nella parola di V.A., ed il molto diffidarsi della sua benignità».[31] Così, nell'aprile 1578 ritornò a Ferrara, ma dopo tre mesi era di nuovo in fuga; Mantova, Padova, Venezia. Presa la via di Pesaro, da Cattolica mandò ad Alfonso una missiva in cui cerca di spiegare i motivi dell'abbandono, che restano, anche nella testimonianza diretta del Tasso, criptici: «ora me ne dono partito. per non consentire a quello, a che non dee consentire uomo, che faccia alcuna professione d'onore, o ch'abbia nell'animo alcuno spirito di nobiltà».[32] Paura, instabilità?

Intanto continuava a vagare. Percorse a piedi il tratto che separa Urbino da Torino, ma non sarebbe riuscito a entrare nella città - era stato respinto dai doganieri perché in stato pietoso - se Angelo Ingegneri, amico di Torquato da alcuni anni, non lo avesse riconosciuto e aiutato a entrare. A Torino ricevette l'ospitalità del marchese Filippo d'Este, e godette di una certa tranquillità che gli permise di comporre poesie e iniziare tre dialoghi, la Nobiltà, la Dignità e la Precedenza.[33]

Gli anni della prigionia a Sant'Anna[modifica]

In seguito a nuovi pentimenti e nuove nostalgie della corte ferrarese, il poeta si adoperò per il rientro nella città ducale, facendo leva sulle intercessioni del cardinale Albano e di Maurizio Cataneo, e infine riguadagnò la capitale estense tra il 21 e il 22 febbraio, proprio mentre fervevano i preparativi per le terze nozze di Alfonso, quelle con Margherita Gonzaga, figlia del duca di Mantova Guglielmo. Fu ospitato da Luigi d'Este, ma nessuno badava a lui. I fatti precipitano: «Iersera l'altra si mandò il povero Tasso a Sant'Anna, per le insolenti pazzie ch'avea fatte intorno alle donne del Signor Cornelio, e che era poi venuto a fare con le Dame di Sua Altezza, quali, per quanto m'è stato rifferto, furono così brutte e disoneste, che indussero il Signor Duca a quella risoluzione».[34] Non è chiaro quando accadesse esattamente il fatto, si oscilla tra l'11 e il 12 marzo, ma è certo che in quest'ultima data il poeta fosse già stato recluso nella prigione di Sant'Anna.[35] Il duca Alfonso II rinchiuse quindi Tasso nell'Ospedale Sant'Ann, dove rimase per sette anni. Qui, alle manie di persecuzione, si aggiunsero tendenze autopunitive.

Eugène Delacroix: Tasso all'ospedale di Sant'Anna

I primi anni di reclusione non impedirono a Torquato di scrivere; anzi, le tre canzoni del periodo rivelano una poesia essenziale, magistrale nella gestione delle armonie, simbolo di una ormai indiscussa maturità e dimostrazione, una volta di più, di come le facoltà mentali del poeta fossero ancora intatte. Ecco quindi A Lucrezia e Leonora, con la celebre invocazione alle «figlie di Renata», in una nostalgico ricordo dei tempi sereni trascorsi a corte, messo in contrasto con la durezza del tempo presente, ecco Ad Alfonso, nuova supplica al duca che, rimasta inascoltata, diventò un inno Alla Pietà nell'omonima canzone.

Le condizioni mutarono con gli anni: a partire dal 1580 gli fu permesso di uscire qualche volta e di ricevere visite, mentre dal 1583 poté lasciare Sant'Anna più volte alla settimana, «accompagnato da gentiluomini e qualche volta fu condotto anche a corte».[36] Tuttavia il trattamento rimaneva molto duro e, a distanza di secoli, pare spropositato se il motivo dovesse ridursi alla pazzia o a delle offese personali.

Dopo l'edizione veneziana "pirata" e mutila di Celio Malespini (estate 1580), nel 1581, sempre durante la prigionia, vennero pubblicate - nel tentativo di porre rimedio alla sciagurata operazione - a Parma e Casalmaggiore, ancora senza il suo consenso, due edizioni del poema iniziato all'età di quindici anni. Il titolo di Gerusalemme liberata fu scelto dal curatore di queste ultime versioni, Angelo Ingegneri, senza l'avallo dell'autore. L'opera ebbe grande successo. Siccome anche le stampe dell'Ingegneri presentavano delle imperfezioni e la Gerusalemme era ormai di dominio pubblico, bisognava approntare la versione migliore possibile, ma per far questo era necessaria l'autorizzazione e la collaborazione del Tasso. Così, seppur riluttante, il poeta diede il proprio consenso a Febo Bonnà, che diede alla luce la Gerusalemme liberata il 24 giugno 1581 a Ferrara, restituendola in modo ancora più preciso pochi mesi dopo.[37]

Queste traversie editoriali addolorarono Tasso, che avrebbe voluto mettere mano al poema in modo da renderlo conforme alla propria volontà. All'amarezza per le pubblicazioni seguì ben presto quella che gli fu causata dalla polemica con la neonata Accademia della Crusca. La sua origine va ricercata nel dialogo Il Carrafa, o vero della epica poesia, che il poeta capuano Camillo Pellegrino stampò presso l'editore fiorentino Sermartelli all'inizio di novembre del 1584. Nel dialogo Torquato viene esaltato assieme alla sua opera, in quanto fautore di una poesia etica e fedele ai dettami aristotelici, mentre l'Ariosto viene duramente condannato a causa della leggerezza, dell'invenzione spicciola e dell'eccessiva dispersione che si possono riscontrare nell'Orlando Furioso.[38] La polemica continuò, visto che il Salviati replicò in settembre con la Risposta all'Apologia di Torquato Tasso (testo noto anche come Infarinato primo[39]), cui seguirono un nuovo opuscolo di Pellegrino e un Discorso del Nostro, dopo di che - se si esclude un ulteriore scritto del Salviati, l'Infarinato secondo (1588) - le acque per un periodo si calmarono, ma la querelle tra ariosteschi e tasseschi proseguì fino al secolo successivo.

Durante la reclusione Tasso scrisse principalmente discorsi e dialoghi[40]: fra i primi abbiamo quello Della gelosia (redatto già nel 1577 ma pubblicato nel 1585), Dell'amor vicendevole tra 'l padre e 'l figliuolo (1581), Della virtù eroica e della carità (1583), Della virtù femminile e donnesca (1583), Dell'arte del dialogo (1586), Il Secretario (1587), cui si deve aggiungere il Discorso intorno alla sedizione nata nel regno di Francia l'anno 1585 (composto nel 1585, edito solo nel 1817) e il Trattato della Dignità, già iniziato a Torino, come si è visto.[41] Queste opere sviluppano tematiche morali, psicologiche o strettamente religiose. La virtù cristiana è proclamata come superiore alla pur nobile virtù eroica, si afferma la comune origine di amore e gelosia, si valutano i talenti specifici della donna, il tutto arricchito dal racconto di esperienze personali che giustificano l'opinione dell'autore. Vengono affrontate anche questioni politiche.

In tutto questo non aveva dimenticato l'opera principe, dimostrando di avere al riguardo idee piuttosto lontane da quella che sarà la realizzazione finale. A Lorenzo Malpiglio espose intenzioni sostanzialmente opposte agli interventi che Tasso verrà apportando negli anni successivi: parla di portare la Liberata da venti a ventiquattro canti (secondo l'idea originaria) e di accrescere il numero delle stanze, tagliando anche dei passaggi ma con il risultato che «la diminuzione sarà molto minor de l'accrescimento».[42]

Eravamo intanto arrivati al 1586, e qualche segnale, magari anche dettato da semplice interesse, lasciava intravedere un astio meno severo nei confronti del Nostro. Prima della reclusione, nel marzo del 1577, a Comacchio era stata rappresentata una commedia tassesca alla presenza della corte.[43] Ora Virginia de' Medici voleva che il testo fosse perfezionato e completato per essere interpretato durante i festeggiamenti del suo matrimonio con Cesare d'Este. Tasso si mise al lavoro ed esaudì la richiesta. L'opera fu poi pubblicata nel 1603 e ricevette il titolo - Gli intrichi d'amore - dal Perini, uno degli attori dell'Accademia di Caprarola, che aveva messo in scena la commedia nel 1598.[44]

L'opera, ricolma di intrecci amorosi e di agnizioni secondo il costume dell'epoca, è troppo sofisticata e inverosimile, ma non mancano pagine vivaci ed episodi ispirati all'Aminta. Vi si possono inoltre vedere alcuni elementi che confluiranno nella commedia dell'arte: il personaggio del Napoletano, parlando in dialetto e «profondendosi in spiritosaggini sbardellate», richiama alla mente la futura maschera di Pulcinella.[45] La critica è stata piuttosto concorde nel ritenerla infelice, tutta una goffaggine pedantesca e superficiale, nel giudizio di Francesco d'Ovidio.[46]

Dopo la prigionia: le delusioni, le sofferenze, le peregrinazioni[modifica]

Il 13 luglio 1586 finì la prigionia: affidato a Vincenzo Gonzaga[47], che lo volle alla sua corte di Mantova, nelle intenzioni di Alfonso doveva restare presso il figlio di Guglielmo Gonzaga solo per un breve periodo[48], ma di fatto non tornò più a Ferrara, e Vincenzo lo tenne presso di sé, in un ambiente in cui conobbe Ascanio de' Mori da Ceno, diventandone amico.

A Mantova Tasso ritrovò qualche barlume di tranquillità; riprese in mano il Galealto re di Norvegia, la tragedia che aveva lasciato interrotta alla seconda scena del secondo atto - e che aveva frattanto avuto un'edizione nel 1582 -, e la trasformò nel Re Torrismondo, conglobando nei primi due atti quanto aveva precedentemente scritto ma cambiando i nomi, e procedendo alla stesura dei tre atti successivi in modo da arrivare ai cinque canonici. Quando nell'agosto si recò a Bergamo, ritrovando amici e parenti, si mise subito in azione per dare alle stampe la tragedia, e l'opera uscì, a cura del Licino e per i tipi del Comin Ventura, con dedica a Vincenzo Gonzaga, nuovo duca di Mantova.[49]

Si trattava comunque di una "libertà vigilata", e i fatti dell'autunno 1587 lo dimostrano chiaramente. Dopo essere tornato a Mantova, deluso e preoccupato di una possibile venuta di Alfonso, Tasso andò a Bologna e a Roma senza chiedere al Gonzaga l'autorizzazione e questi, sotto la pressione del duca di Ferrara, tentò in ogni modo di farlo tornare indietro. Antonio Costantini, sedicente amico del poeta che metteva al primo posto l'ambizione e l'obiettivo di essere tenuto in onore presso la corte mantovana, e Scipione Gonzaga si mobilitarono, ma Torquato capì la situazione e rifiutò di ritornare, rendendo impossibile qualsiasi mossa, dal momento che un intervento che lo riportasse nel ducato mantovano con la forza non sarebbe mai stato tollerato dal Pontefice.[50] Il fatto che nessuno impedisse il viaggio a Bergamo mentre ci fosse una mobilitazione generale per allontanare il poeta dall'Urbe rimane comunque un segnale che pare ulteriormente ridimensionare il peso della presunta follia di Torquato nelle preoccupazioni dei duchi del settentrione.

Nel corso del tragitto Tasso passò da Loreto, raccogliendosi in preghiera nel santuario e concependo quella canzone «a la gloriosa Vergine» che può forse richiamare il Petrarca della Canzone alla Vergine in qualche scelta lessicale, ma, in mezzo alla lode e alla supplica, è tanto più intessuta di travaglio e sofferenza.

Torquato fu a Roma nell'autunno 1587 e fino alla primavera successiva. L'irrequietudine era di nuovo alle stelle: le lettere registrano le sue richieste di denaro e le lamentele per la propria condizione di salute. Il poeta è ormai disilluso, e fa meno affidamento sulla possibilità che gli altri lo aiutino. Come scrisse alla sorella in una lettera del 14 novembre, gli uomini «non hanno voluto sanarmi, ma ammaliarmi».[51] Tuttavia, il Nostro è in preda al bisogno materiale e continua ad autoumiliarsi, scrivendo versi encomiastici per Scipione Gonzaga, divenuto cardinale, senza ottenere alcunché. Anche la speranza di essere ricevuto dal papa Sisto V viene delusa, nonostante le lodi che Tasso rivolge al pontefice in varie poesie, confluite assieme ad altre del periodo in un volumetto del 1589, stampato a Venezia.[52]

Vista l'inutilità del soggiorno romano, il peregrinante poeta pensò trovare maggior fortuna nell'amata Napoli. Così, ai primi di aprile del 1588 Tasso ritornò nella città vesuviana fortemente intenzionato a risolvere a proprio favore le cause contro i parenti per il recupero della dote paterna e di quella materna. Benché potesse contare su amici e congiunti, e sulle conoscenze altolocate partenopee, tra cui i Carafa (o Carrafa) di Nocera, i Gesualdo, i Caracciolo di Avellino, i Manso, preferì accettare l'ospitalità di un convento di frati olivetani. Qui conobbe l'amico più caro degli ultimi anni: Giovan Battista Manso, signore di Bisaccia e primo entusiasta biografo dell'autore dopo la sua morte.

Il clima amichevole in cui fu accolto, la stima di amici e letterati, e il conforto di una «bellissima città, la quale è quasi una medicina al mio dolore»[53], riuscirono a risollevare per un breve periodo l'infelice animo tassiano. Per ringraziare i monaci scrisse il poemetto, rimasto incompiuto, Monte Oliveto, in riferimento al convento in cui sorgeva il complesso monastico che attualmente ospita la caserma dei carabinieri (resta visitabile la chiesa Sant'Anna dei Lombardi). L'opera - un resoconto encomiastico delle principali tappe esistenziali e delle principali virtù di Bernardo Tolomei, il fondatore della Congregazione - è fortemente intessuta di spirito cristiano, in un severo richiamo ad una vita sobria, lontana dalle vanità del mondo. Dedicata al cardinale Antonio Carrafa, si interrompe alla centoduesima ottava.[54]

Al pari del Re Torrismondo e di molta parte dell'ultima produzione tassesca, il Monte Oliveto non ha goduto dei favori della critica. Guido Mazzoni vi vide più una predica che un poema[55], mentre Eugenio Donadoni utilizzò quasi le medesime parole che gli erano servite per stroncare il Torrismondo: questa è «l'opera non più di un poeta, ma di un letterato, che cerca di dare forma e tono epico a una convenzionale vita di santo».[56] Come per la tragedia nordica, la rivalutazione è arrivata con l'analisi di Luigi Tonelli e di alcuni studiosi più recenti.

In ogni caso, anche questo periodo napoletano si rivelò problematico per Tasso, a causa delle precarie condizioni di salute e delle ristrettezze economiche, a cui si aggiunsero anche nuove polemiche letterarie e religiose sulla Gerusalemme liberata. Spostatosi a Bisaccia, Tasso poté vivere un periodo di maggiore tranquillità. A dicembre era di nuovo a Roma, dove giunse nella speranza di poter essere ospitato dal Papa in Vaticano, confidando negli illusori pareri di alcuni amici.[57] Ad ospitare Tasso fu invece Scipione Gonzaga, e il poeta si sentì di nuovo «più infelice che mai».[58] Ricominciava la routine: richieste d'aiuto a destra e a sinistra, con l'obiettivo di ricevere i cento scudi che gli erano stati promessi per la stampa delle sue opere: «vorrei in tutti i modi trovar questi cento ducati, per dar principio a la stampa, avendo ferma opinione che di sì gran volume se ne ritrarrebbero molto più», scrisse ad Antonio Costantini.[59] I destinatari erano ancora una volta i più disparati: il principe di Molfetta, il Costantini, il duca di Mantova Vincenzo Gonzaga, gli editori. Il Nostro si umiliò per l'ennesima volta anche con Alfonso, cui chiese nuovamente perdono, mentre al Granduca di Toscana Ferdinando I domandò l'intercessione del cardinal Del Monte, lo stesso che prenderà sotto la propria protezione Caravaggio. Tutte le speranze, però, furono disattese.

Al tempo stesso anche le missive ai medici si rifecero intense. Tuttavia, in mezzo a tante delusioni e a tanto affanno non venne meno la verve creativa: oltre ad aver raccolto le Rime in tre volumi, e avervi scritto il commento, Tasso compose anche un poema pastorale che riprende, anche se solo nel nome, alcuni personaggi dell'Aminta. È Il rogo di Corinna, dedicato a Fabio Orsino. La prima pubblicazione dell'opera fu postuma (1608).[60]

Per quanto Grazioso Graziosi, agente del duca di Urbino, dicesse al suo signore del modo eccellente in cui Tasso era trattato presso il cardinale Gonzaga, egli rilevava al contempo le infermità fisiche e mentali di Torquato, che privavano la sua età «del maggior ingegno che abbian prodotto molte delle passate».[61] Tuttavia, è bene diffidare della prima quanto della seconda affermazione. Se «il povero Signor Tasso è veramente degno di molta pietà per le infelicità della sua fortuna»[62], come si legge in una missiva del Graziosi di due settimane dopo, perché cacciare il poeta in malo modo, mentre Scipione Gonzaga non era presente, e costringerlo a una nuova situazione di bisogno? In aiuto del Tasso vennero ancora i monaci della Congregazione del Tolomei, che lo ospitarono a Santa Maria Nuova degli Olivetani.[63]

Gli ultimi anni del Tasso, però, non conobbero pace duratura: le sofferenze psichiche si acuirono nuovamente, certo per le nuove delusioni derivanti da richieste di denaro non esaudite, dall'obbligo di piegarsi alla composizione di poesie a pagamento, e il poeta fu costretto a farsi ricoverare nell'Ospedale dei Pazzarelli, adiacente alla chiesa dei Santi Bartolomeo e Alessandro dei Bergamaschi, la cui costruzione era appena stata ultimata. Il dolore emerge in modo chiaro in una lettera inviata il primo dicembre 1589 ad Antonio Costantini, divenuto ormai suo confidente.[64]

A febbraio ritornò presso Scipione Gonzaga, sempre lamentandosi per la scarsa considerazione in cui era tenuto e sempre scrivendo della propria infelicità.[65] Tasso premeva, come già più volte in passato, per essere accolto a Firenze dal Granduca di Toscana, e accettò quindi con gioia l'invito di Ferdinando de' Medici. A Firenze giunse in aprile, ospite prima dei fidati Olivetani, poi di ricchi e illustri cittadini quali Pannucci e Gherardi. Alla tranquillità necessaria per rivedere la Gerusalemme si aggiunsero anche relative soddisfazioni economiche (sempre comunque in cambio di versi encomiastici): dal Granduca ricevette centocinquanta scudi[66], da Giovanni III di Ventimiglia, marchese di Geraci, sembrerebbe, duecento scudi.[67]

Il motivo di gioia principale era tuttavia un altro, era l'avvicinarsi dell'evento più ambito da chi si sentiva, sopra ogni cosa, poeta: «Penso a la mia coronazione, la qual dovrebbe esser più felice per me, che quella de' principi, perché non chiedo altra corona per acquetarmi».[68] Non ci fu nessuna incoronazione. C'è chi ha asserito che questa lettera contenesse solo una bislacca speranza del Tasso, senza alcun legame con la realtà.[69] Tuttavia, la sicurezza con cui l'evento viene ormai dato per certo lascia pensare che le illusioni del Nostro avessero un fondamento, e non fossero una pura chimera.

Un nuovo evento lo indusse all'ennesimo spostamento: papa Urbano VII era succeduto a Sisto V, incoraggiando Tasso a fare nuovamente affidamento sugli aiuti pontifici. Tasso scese così a Roma, accolto dagli Olivetani di Santa Maria del Popolo. Giovanni Battista Castagna morì tredici giorni dopo l'elezione, lasciando il posto a Gregorio XIV. Anche questa volta le lettere del poeta registrano un amaro scacco: «Ho perduto tutti gli appoggi; m'hanno abbandonato tutti gli amici, e tutte le promesse ingannato», confidò, sempre più afflitto, a Niccolò degli Oddi.[70]

L'autore della Gerusalemme è ogni giorno che passa più confuso, sballottato qua e là dagli eventi come una barca in mezzo al mare. Tutto questo riflette la condizione interiore di una persona disincantata ma al tempo stesso ancora ingenuamente pronta a fidarsi delle fallaci promesse che giungono dal mondo intorno, riflette un'instabilità ormai cronica. È vero che la fede andò radicandosi sempre più in Tasso, ma il fatto che al duca di Mantova scrivesse di volersi ritirare in un monastero e pochi giorni dopo accettasse il suo invito a tornare a corte è l'evidente manifestazione di un'anima senza pace.[71]

Ritornato quindi sul Mincio (marzo 1591), accolto con tutti gli onori, poté dedicarsi totalmente al lavoro letterario, e in particolare alla revisione del capolavoro. Non si era comunque concentrato solo sul poema: aveva raccolto le Rime in quattro volumi, e con l'editore veneziano Giolito parlava della possibilità di stampare tutte le opere (esclusa la Gerusalemme) in sei libri. A tutto questo va aggiunto un nuovo lavoro che aveva intrapreso, lasciandolo poi incompiuto. La genealogia di Casa Gonzaga, con dedica a Vincenzo, si interruppe dopo centodiciannove ottave, per essere pubblicato solo nel 1666, tra le Opere non più stampate dell'edizione romana Dragondelli.[72] Il poemetto è sicuramente trascurabile, fatto di una versificazione fredda, appesantita da nozioni e nomi. Tra le fonti il ruolo principale è stato svolto da un regesto di Cesare Campana, Arbori delle famiglie... e principalmente della Gonzaga, uscito a Mantova l'anno prima, e dall'Historia sui temporis di Paolo Giovio, accanto a cui va ricordata la tradizione orale legata alla battaglia del Taro.[73]

La calma, tuttavia, era ormai un ricordo di gioventù, e ogni soggiorno diventava insopportabile dopo un certo numero di mesi. Così, ridiscese la penisola, con l'intenzione di raggiungere nuovamente Roma. Giunto nell'Urbe il 5 dicembre 1591, ricevette l'ospitalità di Maurizio Cataneo. Poche settimane dopo era ancora in viaggio, diretto a Napoli.[74]

Gli ultimi anni[modifica]

A questo punto, inaspettatamente, ci fu spazio per qualche luce e qualche reale soddisfazione. Il soggiorno napoletano, durato dal febbraio alla fine di aprile del 1592, non tradì, né per quanto riguarda l'accoglienza ricevuta (fu ospitato dal principe di Conca Matteo di Capua e poi da Manso con grandi onori ed affetto), né sulle questioni letterarie, né su quelle relative alla salute dell'artista. In effetti, in virtù della «purità dell'aria»[75], Tasso cominciò a sentirsi meglio, e di conseguenza poté dedicarsi in modo più proficuo alle proprie attività. In questi mesi completò la Conquistata, e, sempre durante il soggiorno partenopeo, mise mano all'ultima opera significativa, Le sette giornate del Mondo creato.[76]

Gli ultimi tre anni di vita lo videro prevalentemente a Roma: nell'aprile 1592 l'elezione al soglio pontificio di Clemente VIII lo fece venire nell'Urbe, ed anche qui ebbe un trattamento decisamente migliore rispetto alle recenti esperienze. Poté infatti alloggiare nel palazzo dei nipoti del papa, Pietro e Cinzio Aldobrandini, in procinto di diventare cardinali. Cinzio sarà di fatto il vero mecenate dell'ultimo periodo. La produzione letteraria ebbe nuovi sussulti, consacrandosi ormai quai esclusivamente agli argomenti sacri: compose i Discorsi del poema eroico e altri Dialoghi, carmi latini e rime religiose. Addolorato per la morte di Scipione Gonzaga, gli dedicò, nel marzo 1593, Le lagrime di Maria Vergine e Le lagrime di Gesù Cristo.[77] Tasso aveva intanto finito di rivedere il poema, e sempre nel 1593 vide la luce a Roma, per i tipi di Guglielmo Facciotti, la Gerusalemme conquistata.

Esistono inoltre chiare testimonianze del fatto che ci fosse l'intenzione di incoronare Tasso in Campidoglio, nonostante alcuni studiosi si siano ostinati a negarlo e a considerarla un'invenzione del poeta.[78] Senonché, pur essendo ancora bisognoso di soldi e continuando a fare richiesta per ottenerli, il poeta sentiva sempre più lontane le preoccupazioni del mondo, e sempre meno si curava della vanità e dei successi terreni. La salute, dopo la parentesi napoletana, andava aggravandosi nuovamente, e Torquato cominciava a capire che la fine non era lontana. Per questo ritornò alle falde del Vesuvio, per concludere rapidamente in proprio favore la questione legata all'eredità materna: il risultato fu soddisfacente, acconsentendo il principe di Avellino a versargli duecento ducati all'anno, ai quali vanno aggiunti cento ducati annui che il Papa si risolverà a dargli a partire dal febbraio 1595.

A Napoli rimase dal giugno al novembre del 1594, alloggiato al monastero benedettino di san Severino, sempre più votato alla vita monastica e attratto ancora dalla letteratura agiografica. Fu probabilmente nei mesi trascorsi presso i benedettini che Tasso abbozzò l'incompiuta Vita di San Benedetto. Alla fine dell'anno ritornò a Roma.

Cambiò città per l'ultima volta. Riconosciuta la definitiva infermità che gli rendeva ormai impossibile scrivere e correggere, non sentì più che un ultimo bisogno, tralasciando tutto il resto, il bisogno della «fuga dal mondo».[79] Il 1º aprile entrò al monastero di S. Onofrio, sul Gianicolo, senza più nemmeno curarsi del fatto che il Mondo creato non era stato ancora rivisto. Il 25 aprile, all'«undecima ora»[80], Torquato Tasso moriva all'età di 51 anni.

Opere[modifica]

Un ritratto a Sorrento

Rinaldo[modifica]

All'età di diciotto anni Tasso riprese la materia del romanzo cavalleresco e nel 1562 pubblicò il Rinaldo, che narra in dodici canti (circa 8000 versi) la giovinezza del paladino della tradizione carolingia e le sue imprese di armi e di amori. Nella prefazione al poema Tasso dichiara di voler imitare in parte gli "antichi" (Omero e Virgilio), in parte i "moderni" (Ariosto). Si concentra però su un unico protagonista, secondo le esigenze di unità proposte dall'aristotelismo. Si tratta di un'opera tipicamente giovanile, ancora priva di originalità, ma compaiono già alcuni temi e toni fondamentali che caratterizzeranno il Tasso maturo e formato culturalmente.

Rime[modifica]

Torquato Tasso compose un gran numero di poesie liriche, lungo l'arco di tutta la sua vita. Le prime furono pubblicate nel 1567 col titolo di Rime degli Accademici Eterei. Nel 1581 uscirono Rime e prose. Tasso lavorò fino al 1593 ad un riordino complessivo dei testi, distinguendo rime amorose e rime encomiastiche. Previde poi una terza sezione, dedicata alle rime religiose ed una quarta di rime per musica, ma non realizzò il progetto.

Nelle Rime amorose è ben riconoscibile l'influenza della poesia petrarchesca e della vasta produzione petrarchistica del Quattrocento e Cinquecento; contemporaneamente, però, il gusto per le preziosità linguistiche e l'intensa sensualità rivelano l'evoluzione verso un linguaggio nuovo che maturerà nel Seicento. L'uso frequente di forme metriche poco usate dai poeti precedenti, come il madrigale, e la raffinata musicalità dei versi fecero sì che molti di essi fossero musicati da grandi autori come Claudio Monteverdi e Gesualdo da Venosa.

Più solenni e classicheggianti le Rime encomiastiche, dedicate alle figure ed alle famiglie signorili che ebbero rilievo nella vita del poeta. Per la loro creazione si ispira a Pindaro, Orazio e al celebre Monsignor della Casa. Fra tutte, la più famosa è la Canzone al Metauro, intessuta di elementi autobiografici.

Le Rime religiose sono caratterizzate dal tono cupo e plumbeo, forse dovuto al fatto che le scrisse negli ultimi anni di vita.

Discorsi dell'arte poetica[modifica]

Attorno alla metà degli Anni Sessanta scrisse i quattro libri dei Discorsi dell'arte poetica ed in particolare sopra il poema eroico, letti all'Accademia Ferrarese e pubblicati molto più tardi, nel 1587, dal Licino. Il testo fornisce una chiara visione della concezione tassesca del poema eroico, piuttosto distante da quella ariostesca, che dava la prevalenza all'invenzione e all'intrattenimento del pubblico.

Perché possa essere giudicato di buon livello, deve basarsi su un evento storico, da rielaborare in modo inedito. Infatti, «la novità del poema non consiste principalmente in questo, cioè che la materia sia finta, e non più udita; ma consiste nella novità del nodo e dello scioglimento della favola».[81]

Al verosimile deve essere unito il meraviglioso, e Tasso trova l'unione perfetta di queste due componenti nella religione cristiana.[82] Intiera, l'opera deve essere una, ossia prevedere l'unità d'azione, ma senza schemi rigidi: ci può essere largo spazio per la varietà, e per la creazione di numerosi racconti nel racconto, e in questo senso la Gerusalemme liberata costituisce una piena realizzazione delle idee dell'autore. Lo stile, infine, deve adeguarsi alla materia, e variare tra il sublime e il mediocre a seconda dei casi.

Aminta[modifica]

Le sofferenze di Aminta, dipinto di Bartolomeo Cavarozzi

«L'Aminta non è un dramma pastorale e neppure un dramma. Sotto nomi pastorali e sotto forma drammatica è un poemetto lirico, narrazione drammatizzata, anzi che vera rappresentazione, com'erano le tragedie e le commedie e i così detti drammi pastorali in Italia … Essa è in fondo una novella allargata a commedia, di quel carattere romanzesco che dominava nell'immaginazione italiana, aggiuntavi la parte del buffone, che è il Ruffo, la cui volgarità fa contrasto con la natura cavalleresca de' due protagonisti, Virginia e il principe di Salerno. Gli avvenimenti più strani si accavallano con magica rapidità, appena abbozzati, e quasi semplice occasione a monologhi e capitoli, dove paion fuori i sentimenti dei personaggi misti alla narrazione … L'Aminta è un'azione fuori del teatro, narrata da testimoni o da partecipi con le impressioni e le passioni in loro suscitate. L'interesse è tutto nella narrazione sviluppata liricamente e intramessa di cori, il cui concetto è l'apoteosi della vita pastorale e dell'amore: "s'ei piace, ei lice". Il motivo è lirico, sviluppo di sentimenti idillici, anzi che di caratteri e di avvenimenti. Abbondano descrizioni vivaci, soliloqui, comparazioni, sentenze, movimenti appassionati. Vi penetra una mollezza musicale, piena di grazia e delicatezza, che rende voluttuosa anche la lacrima. Semplicità molta è nell'ordito, e anche nello stile, che senza perder di eleganza guadagna di naturalezza, con una sprezzatura che pare negligenza ed è artificio finissimo. Ed è perciò semplicità meccanica e manifatturata, che dà un'apparenza pastorale a un mondo tutto vezzi e tutto concetti. È un mondo raffinato, e la stessa semplicità è un raffinamento. A' contemporanei parve un miracolo di perfezione, e certo non ci è opera d'arte così finamente lavorata.»

(Francesco De Sanctis)

L'Aminta è una favola pastorale composta nel 1573 e pubblicata nel 1580 ca. Presenta un prologo, 5 atti, un coro. Ogni canto si conclude a lieto fine.

Re Torrismondo[modifica]

Intorno al 1573-1574, sulle ali dell'entusiasmo per il successo dell'Aminta Tasso incominciò una tragedia, Galealto re di Norvegia, che però interruppe alla seconda scena del secondo atto. Il poeta la riprese e la completò a Mantova, subito dopo la liberazione dall'Ospedale di Sant'Anna cambiando però il titolo, diventato Re Torrismondo, ed il nome del protagonista. L'ambientazione è nordica: in essa sono frequenti le immagini di distese boschive. In questo, il Tasso mostra la sua forte curiosità per le leggende nordiche, come ad esempio mostra la lettura dell'Historia de gentibus septentrionalibus di Olao Magno.

L'editio princeps è quella bergamasca del 1587; seguirono a ruota le edizioni di Mantova, Ferrara, Venezia e Torino, ma poi ci fu un lungo silenzio. L'opera fu rappresentata per la prima volta soltanto nel 1618 al Teatro Olimpico di Vicenza.

Trama
Torrismondo è intimamente segnato dal conflitto tra amore e amicizia: il sovrano ama Alvida, che a causa di un debito passato (Germondo aveva salvato la vita a Torrismondo) deve sposarsi con l'amico Germondo, re di Svezia, regno nemico a quello di Alvida poiché Germondo stesso era stato accusato di omicidio del fratello di Alvida. Germondo dunque non può sposarsi con la donna amata poiché il padre di quest'ultima lo odia. Germondo decide allora che Torrismondo per sdebitarsi avrebbe dovuto chiedere la mano di Alvida e al momento delle nozze avrebbe dovuto scambiare la sposa. Ottenuta da Torrismondo la mano di Alvida i due consumano l'amore. La storia prenderà un'altra china quando Torrismondo scoprirà che la donna amata non è altri che la sorella, la situazione culminerà nel suicidio dei due.

Il Re Torrismondo è molto importante perché anticipa le tragedie barocche, nelle quali si riprendono alcune caratteristiche fondamentali delle tragedie senecane: la meditatio mortis (il Memento mori) e il gusto dell'orrido. Nel Tasso, però, ciò che compare fortemente e caratterizza le sue tragedie è il conflitto intimo che dilania l'animo dei personaggi: l'uomo si sente intrappolato dal fato, poiché impossibilitato all'agire, a modificare il corso degli eventi ormai già predisposti.

Tuttavia, la critica non si è espressa positivamente in merito all'opera: Solerti e D'Ovidio si sono mostrati ostili verso il Torrismondo come lo erano stati nei confronti degli Intrichi d'amore[83], e severo si è dimostrato anche Umberto Renda, che alla tragedia ha dedicato una monografia.[84] Ancora più duro il giudizio di Eugenio Donadoni, che arrivò a parlare di «opera di un ex-poeta, non più di un poeta»[85], e nemmeno Giosuè Carducci, pur apprezzando lo sforzo di unire elementi pagani e religiosi, classici ed esotici, ha ritenuto il dramma degno dell'ingegno tassesco.[86] Solo Luigi Tonelli, nel 1935, ha fatto presente che superava pur sempre «la maggior parte delle tragedie cinquecentesche e rivaleggiava con le migliori del tempo».[87]

Gerusalemme liberata[modifica]

Torquato Tasso con la sua Gerusalemme liberata

La Gerusalemme liberata è considerata il capolavoro di Tasso. Il poema tratta di un avvenimento realmente accaduto, ossia la prima crociata. Tasso iniziò a scrivere l'opera con il titolo di Gierusalemme nel 1559 durante il soggiorno a Venezia e la concluse nel 1575. L'opera fu pubblicata integralmente nel 1581 con il titolo di Gerusalemme liberata. In seguito alla pubblicazione del poema il poeta rimise mano all'opera e la riscrisse eliminando tutte le scene amorose ed accentuando il tono religioso ed epico della trama. Cambiò anche il titolo in Gerusalemme conquistata. In realtà la Conquistata fu immediatamente dimenticata e la redazione che continuò ad avere grande successo e ad essere ristampata, in Italia e nei paesi stranieri, fu la Liberata.

Trama
Goffredo di Buglione nel sesto anno di guerra raduna i crociati, viene eletto comandante supremo e stringe d'assedio Gerusalemme. Uno dei guerrieri musulmani decide di sfidare a duello il crociato Tancredi. Chi vince il duello vince la guerra. Il duello però viene sospeso per il sopraggiungere della notte e rinviato. I diavoli decidono di aiutare i musulmani a vincere la guerra. Uno strumento di Satana è la maga Armida che con uno stratagemma riesce a rinchiudere tutti i migliori eroi cristiani, tra cui Tancredi, in un castello incantato. L'eroe Rinaldo per aver ucciso un altro crociato che lo aveva offeso fu cacciato via dal campo. Il giorno del duello arriva e poiché Tancredi è scomparso viene sostituito da un altro crociato aiutato da un angelo. I diavoli aiutano il musulmano e trasformano il duello in battaglia generale. I crociati sembrano perdere la guerra quando arrivano gli eroi imprigionati liberati da Rinaldo che rovesciano la situazione e fanno vincere la battaglia ai cristiani. Goffredo ordina ai suoi di costruire una torre per dare l'assalto a Gerusalemme ma Argante e Clorinda (di cui Tancredi è innamorato) la incendiano di notte. Clorinda non riesce a entrare nelle mura e viene uccisa in duello proprio da colui che l'ama, Tancredi, che non l'aveva riconosciuta. Tancredi è addolorato per aver ucciso la donna che amava e solo l'apparizione in sogno di Clorinda gli impedisce di suicidarsi. Il mago Ismeno lancia un incantesimo sul bosco in modo che i crociati non possano ricostruire la torre. L'unico in grado di spezzare l'incantesimo è Rinaldo, prigioniero della maga Armida. Due guerrieri vengono inviati da Goffredo per cercarlo e alla fine lo trovano e lo liberano. Rinaldo vince gli incantesimi della selva e permette ai crociati di assalire e conquistare Gerusalemme.

Le sette giornate del mondo creato[modifica]

È un poema in endecasillabi sciolti, composto tra il 1592 e il 1594, accanto ad altre opere di contenuto religioso di impronta chiaramente controriformistica. Il poema venne pubblicato postumo nel 1607. Si fonda sul racconto biblico della creazione ed è suddiviso in sette parti, corrispondenti come dice il titolo ai sette giorni nei quali Dio creò il mondo, e presenta una continua esaltazione della grandezza divina della quale la realtà terrena è un pallido riflesso.

Altri progetti[modifica]

Note[modifica]

  1. 1,0 1,1 1,2 Guido Armellini e Adriano Colombo, Torquato Tasso - L'uomo, in Letteratura italiana - Guida storica: Dal Duecento al Cinquecento, Zanichelli Editore, 2009 [2000], p. 175, ISBN 88-08-19732-8.
  2. Luperini, Cataldi, Marchiani, La scrittura e l'interpretazione, Palumbo, 1997, vol.3, pag.91; L. Tonelli, Tasso, Torino 1935, p. 40
  3. Lettere di Torquato Tasso, Firenze, Le Monnier, 1901, vol. II, p. 90
  4. G. Natali, Torquato Tasso, Roma, 1943, pp. 13-14.
  5. G. Natali, cit., pp. 14-16
  6. A. Solerti, Vita di Torquato Tasso, Torino 1895, vol. I, pp. 51-52. Altri pensano invece che queste sperimentazioni risalgano al periodo patavino o addirittura a quello bolognese.
  7. G. Natali, cit., pp. 16-18
  8. Luperini, Cataldi, Marchiani, La scrittura e l'interpretazione, Palumbo, 1997, vol.3, pag.96
  9. G. Natali, cit., pp. 21-22
  10. G. Natali, cit., p. 20
  11. L. Tonelli, cit., p. 68
  12. W. Moretti, Torquato Tasso, Roma-Bari 1981, p. 10
  13. Baldi, Giusso, Razetti, Zaccaria, Dal testo alla storia. Dalla storia al testo, Milano: Paravia, 1994, vol. 2/1, p. 653
  14. L. Tonelli, cit., pp. 72-73; il rapporto amoroso è stato ipotizzato in particolare da Angelo de Gubernatis in T. Tasso, Roma, Tipografia popolare, 1908
  15. L. Tonelli, cit., p. 82
  16. Lettere, cit., I, p. 22
  17. L. Tonelli, cit., p. 89
  18. L. Tonelli, cit., pp. 99-100
  19. Lettere, cit., I, p. 49
  20. Secondo Maria Luisa Doglio la data non è casuale e si inserirebbe nella tradizione petrarchesca. Petrarca avrebbe infatti visto per l'unica volta Laura il 6 aprile 1327; cfr. M. L. Doglio, Origini e icone del mito di Torquato Tasso, Roma 2002, p. 21
  21. Lettere, cit., I, p. 61
  22. Lettere, cit., I, p. 114
  23. S. Guglielmino, H. Grosser, Il sistema letterario, Milano, Principato, 1996, vol. 2/A, p. 367
  24. Lettere, cit, I, p. 141
  25. L. Chiappini, Gli Estensi, Milano, Dall'Oglio, 1967, p. 303
  26. A. Solerti, cit., II, pp. 118-119
  27. A. Solerti, cit., II, pp. 120-121
  28. A. Solerti, cit., II, p. 124
  29. L. Tonelli, cit., p. 176
  30. G. B. Manso, Vita del Tasso, in Opere del Tasso, Firenze, 1724, vol. I, p. XXVIII
  31. M. Vattasso, Di un gruppo sconosciuto di preziosi codici tasseschi, Torino, 1925, p. 19
  32. M. Vattasso, cit., p. 8
  33. L. Tonelli, cit., p. 181
  34. A. Solerti, cit., II, p. 143; così scrive al cardinale Luigi un suo informatore il 14 marzo
  35. L. Tonelli, cit., p. 182
  36. A. Solerti, cit., I, pp. 313-314
  37. L. Tonelli, cit., pp. 118-119
  38. M. L. Doglio, cit., pp. 41 e ss.
  39. Infarinato era il nome accademico assunto dal Salviati
  40. Tra parentesi sono indicate le date di pubblicazione
  41. L. Tonelli, cit., p. 216
  42. Lettere, cit., II, p. 56
  43. La prima versione di quelli che saranno Gli intrichi d'amore non ci è pervenuta
  44. L. Tonelli, cit., p. 238
  45. L. Tonelli, cit., pp. 239-240
  46. F. D'Ovidio, Saggi critici, Napoli, Morano, 1871, pp. 266-267. Non fu più tenero il Solerti; cfr. op. cit., I, p. 475
  47. L. Chiappini, cit, p. 303
  48. L. Tonelli, cit., p. 188
  49. L.Tonelli, pp. 247-248
  50. A. Solerti, cit., II, pp. 277 e ss.
  51. Lettere, cit., IV, pp. 8-9
  52. L. Tonelli, cit., pp. 266-267
  53. Lettere, cit., IV, p. 55
  54. L. Tonelli, cit., pp. 270-273
  55. G. Mazzoni, Del Monte Oliveto e del Mondo creato di Torquato Tasso, in Opere minori in versi di Torquato Tasso, Bologna, Zanichelli, 1891, vol. II, p. XI
  56. E. Donadoni, Torquato Tasso, Firenze, Battistelli, 1921, vol. II, p. 225
  57. Lettere, cit., IV, p.152
  58. Così al Costantini; Lettere, cit., IV, p. 149
  59. Lettere, IV, p. 180
  60. L. Tonelli, cit., p. 275
  61. Passo riportato in A. Solerti, cit., II, p. 323
  62. A. Solerti, cit., II, p. 326
  63. L. Tonelli, cit., p. 276
  64. Lettere, cit., IV, p. 265
  65. Lettere, cit., IV, pp. 296-297
  66. Lettere, cit., IV, p. 334
  67. Lettere, cit., IV, p. 333: "A niuno sono più obligato che a Vostra Eccellenza, ed a niuno vorrei essere maggiormente; perché è cosa da animo grato l’esser capace de le grazie e de gli oblighi. Laonde non ho voluto più lungamente ricusare il secondo suo dono di cento scudi, bench’io non abbia mostrato ancora alcuna gratitudine del primo; ma la conservo ne l’animo, e ne le scritture: e ne l’uno sarà forse eterna, e ne l’altre durerà tanto, quanto la memoria de le mie fatiche. Niuno de’ presenti o de’ posteri saprà chi mi sia, che non sappia insieme quant’io sia debitore a la cortesia di Vostra Eccellenza, ed a la sua liberalità; con la quale supera tutti coloro che possono superar la fortuna." Così scrive Tasso al marchese Giovanni Ventimiglia da Firenze nella primavera del 1590. Soltanto nello stesso 1590, Tasso dedicherà al marchese due composizioni encomiastiche, non portando però a compimento il promessogli poema Tancredi normando.
  68. Lettera a Scipione Gonzaga del 10 giugno 1590, in Lettere, cit., IV, p. 320
  69. E. Rossi, Il Tasso in Campidoglio, in Cultura, aprile-giugno 1933, pp. 310-311
  70. Lettere, cit., V, p. 6
  71. L. Tonelli, cit., p. 278
  72. L. Tonelli, cit., pp. 278-279
  73. C. Cipolla, Le fonti storiche della «Genealogia di Casa Gonzaga», in Opere minori in versi di Torquato Tasso, cit., vol.I
  74. L. Tonelli, cit., p. 281
  75. G. B. Manso, cit., p. LXVI
  76. L.Tonelli, cit., pp. 282-283
  77. L. Tonelli, cit., p. 284
  78. E. Rossi, cit., pp. 313-314
  79. Lettere, cit., V, p. 200
  80. Lettera di Maurizio Cataneo a Ercole Tasso, 29 aprile 1595; A. Solerti, cit., II, p. 363
  81. T. Tasso, Discorsi dell'arte poetica, I, 12 in Le prose diverse di Torquato Tasso (a cura di C. Guasti), Firenze, Le Monnier, 1875
  82. Discorsi dell'arte poetica, cit., I, 15
  83. A. Solerti, cit, I, p. 556; F. D'Ovidio, Saggi critici, Napoli, Morano, 1879, pp. 300-392
  84. U. Renda, Il Torrismondo di Torquato Tasso e la tecnica tragica nel Cinquecento, Teramo, 1916
  85. E. Donadoni, cit., vol. II, pp. 91-92
  86. G. Carducci, Il Torrismondo, testo premesso all'ed. Solerti delle Opere minori in versi di Torquato Tasso, cit., pp. LXXXIV
  87. L. Tonelli, cit., p. 253