Stato italiano

Da Wikiversità, l'apprendimento libero.
Icona
Icona
Attenzione, questa pagina è stata importata da uno degli altri progetti di Wikimedia, pertanto non risponde in modo esatto alle esigenze e alla formattazione di questo progetto. Il testo necessita, quindi, di essere adeguato e formattato secondo le linee guida di Wikiversità.
lezione
lezione
Stato italiano
Tipo di risorsa Tipo: lezione
Materia di appartenenza Materia: Diritto costituzionale

La Repubblica Italiana nacque il 18 giugno 1946 a seguito dei risultati del referendum istituzionale del 2 giugno precedente, indetto per determinare la forma dello stato dopo il termine della seconda guerra mondiale.

Storia[modifica]

Fino al 1946 l'Italia era una monarchia costituzionale basata sullo Statuto albertino: il vertice dello Stato si configurava come un organo denominato Corona, il cui titolare aveva il titolo di Re d'Italia. La titolarità della Corona si trasmetteva ereditariamente in maniera conforme alle leggi di successione dinastica. Nel 1946 l'Italia divenne una repubblica e fu, poco dopo, dotata di un'Assemblea costituente al fine di munirla di una costituzione avente valore di legge suprema dello stato repubblicano, onde sostituire lo Statuto albertino sino ad allora vigente.

Si trattò di un passaggio di evidente importanza per la storia dell'Italia contemporanea dopo il ventennio fascista ed il coinvolgimento nella seconda guerra mondiale. La transizione si svolse in un clima di esasperata tensione e rappresenta un controverso momento della storia nazionale assai ricco di eventi, cause, effetti e conseguenze, che è stato anche considerato una rivoluzione pacifica dalla quale si produsse una forma di stato poco differente dall'attuale.

La nascita della repubblica fu accompagnata da polemiche di una certa consistenza circa la regolarità del referendum che la sancì. Sospetti di brogli elettorali e di altre azioni "di disturbo" della consultazione popolare tuttora non sono stati completamente fugati dagli storici e costituiscono oggetto di rivendicazioni da parte dei sostenitori della causa monarchica[1].

Il 2 giugno 1946, insieme alla scelta sulla forma dello Stato, i cittadini italiani (comprese le donne, che votavano per la prima volta) elessero anche i componenti dell'Assemblea costituente che doveva redigere la nuova carta costituzionale[2].

Prima del referendum[modifica]

Lo Statuto albertino e l'Italia liberale[modifica]

La costituzione dell'Italia prima del 1946 era lo Statuto albertino, promulgato nel 1848 da Carlo Alberto di Savoia, re di Sardegna. A suo tempo la concessione dello Statuto aveva rappresentato un notevole avvicinamento della (allora) piccola monarchia sabauda verso le istanze pre-risorgimentali, e costituiva un passaggio reputato necessario, sebbene poi svolto in forme ben valide, prima di volgersi alla costruzione dello stato nazionale[3].

Nel 1861, quando, in seguito al processo di unificazione, al Regno di Sardegna successe il Regno d'Italia, lo statuto non fu modificato (non era prevista una revisione costituzionale) e restò dunque il cardine giuridico al quale si sottometteva anche il nuovo stato nazionale. Prevedeva un sistema bicamerale, con il parlamento suddiviso nella Camera dei deputati, elettiva (ma solo nel 1911 si sarebbe giunti, con Giolitti, al suffragio universale maschile), e nel Senato, di sola nomina regia.

Fattore fondamentalmente innovativo di questa Carta era la rigida definizione di alcune delle facoltà e di alcuni degli obblighi delle istituzioni (re compreso), riducendo la discrezionalità delle scelte operate dalle alte cariche dello stato ed introducendo un abbozzo di principio di responsabilità istituzionale.

L'equilibrio di potere fra Camera e Senato era inizialmente sbilanciato a favore del Senato, che raccoglieva la buona nobiltà e qualche grande industriale di buone frequentazioni (lo Statuto prevedeva delle categorie fisse fra le quali il re poteva eleggere i senatori). Via via la Camera assunse maggiore importanza, in funzione sia dello sviluppo della classe borghese e del consenso che questa doveva sempre più necessariamente porgere alla classe politica, sia della necessità di produrre copiosa normativa di dettaglio, cui meglio poteva contribuire un ceto politico proveniente dalle classi a contatto con l'applicazione quotidiana di quelle norme.

Nel 1914, allo scoppio della prima guerra mondiale, l'Italia poteva essere annoverata fra le democrazie liberali, benché le tensioni interne, dovute alle rivendicazioni delle classi popolari, insieme alla non risolta questione del rapporto con la Chiesa cattolica per i fatti del 1870 (presa di Porta Pia e occupazione di Roma), lasciassero ampie zone d'ombra.

Il fascismo[modifica]

Il primo dopoguerra vide il mondo attraversato da forti tensioni interne ai paesi, causate dalla modernizzazione della società e dalla necessità di un coinvolgimento delle masse popolari nelle istituzioni politiche. Tali cambiamenti provocarono conflitti sia fra nazioni e potenze imperiali, sia all'interno delle stesse con l'insorgere di conflitti fra le diverse classi sociali. Tale situazione portò ad esiti contrastanti: in alcuni paesi si allargò il bacino della partecipazione democratica dei cittadini alla vita politica nazionale; in Russia si instaurò un regime socialista, ed, in altri paesi ancora, vi furono rivoluzioni nazionalistiche che rafforzando il senso di identità e di appartenenza dei cittadini alla propria nazione, imponendo un controllo autoritario e poliziesco della vita quotidiana, sfociato poi in regimi di tipo fascista.

In Italia, il movimento nazionalista fondato da Benito Mussolini, i Fasci italiani di combattimento in breve, utilizzando le tematiche care ai nazionalisti italiani e sfruttando la delusione per la vittoria mutilata, si sarebbe presentato come baluardo del sistema politico liberale italiano contro la sinistra marxista e rivoluzionaria. In realtà il sistema politico che elesse il fascismo a suo baluardo fu vittima dello stesso, che lo sostituì con un regime autoritario, totalitario, militarista e nazionalista.

La nomina, da parte di Vittorio Emanuele III, di Benito Mussolini come primo ministro, nell'ottobre 1922, seppur non contraria allo Statuto, che attribuiva al re ampio potere di designare il governo, era contraria alla prassi che si era instaurata nei decenni precedenti. Lo stesso Statuto albertino ne uscì svuotato nei contenuti dopo l'instaurazione effettiva della dittatura fascista nel 1925. Le libertà che esso garantiva furono sospese ed il Parlamento fu addomesticato al volere del nuovo governo. Infatti, la posizione del cittadino al cospetto delle istituzioni vide, durante il fascismo, una duplicazione della sottomissione prima dovuta al re, ed ora anche al duce (Benito Mussolini), e si fece più labile la condizione di pariteticità fra i cittadini (e fra questi e le istituzioni), allontanandosi dai principi democratici già raggiunti. La rappresentanza fu fortemente (se non assolutamente) condizionata, vietando tutti i partiti e le associazioni che non fossero controllate dal regime (eccezion fatta per quelle controllate dalla Chiesa cattolica, comunque soggette a forti condizionamenti, e della Confindustria), giungendo a trasformare la Camera dei deputati in Camera dei Fasci e delle Corporazioni, in violazione allo Statuto. In tutti questi anni, da parte del potere regale, non vi fu alcun esplicito tentativo di opporsi alla politica del governo fascista.

Dal 1943 al 1944[modifica]

Il 25 luglio 1943, quando la guerra a fianco della Germania ormai volgeva al peggio, Vittorio Emanuele III, in accordo con parte dei gerarchi fascisti, revocò il mandato a Mussolini e lo fece arrestare, affidando il governo al maresciallo Pietro Badoglio. Il nuovo governo iniziò i contatti con gli Alleati per giungere ad un armistizio. All'annuncio dell'armistizio di Cassibile, l'8 settembre 1943, l'Italia precipitò nel caos. L'esercito nel suo complesso, privo di ordini, sbandò e venne rapidamente disarmato dalle truppe tedesche; Vittorio Emanuele III, la corte ed il governo Badoglio fuggirono da Roma per trasferirsi al sud.

Il governo Badoglio, pressoché in toto un "governo del re", traghettò l'Italia verso una resa incondizionata agli Alleati, e le modifiche costituzionali che operò (quantunque non difficili da prevedere) furono principalmente quelle pretese dai precedenti avversari, ad iniziare dallo smantellamento delle strutture istituzionali del regime fascista, come previsto dall'articolo 30 delle disposizioni di resa.

Le istanze democratiche non furono infatti oggetto di immediata grande attenzione, oltre alle richieste, talvolta propagandistiche, degli Alleati. La guerra, del resto, non solo continuava, ma si era trasformata anche in guerra civile, con la costituzione della Repubblica Sociale Italiana e la divisione della penisola in due territori antagonisti, uno occupato dalle forze alleate, l'altro da quelle tedesche, con coinvolgimento degli uomini armati dell'uno e dell'altro fronte. Nella drammatica contingenza, in realtà, la gestione civile fu segnata da una pesante impronta militare in entrambi i territori, ed in tutta la Penisola si riscontrò l'applicazione di metodi da stato di polizia, reprimendo, sia al Nord sia al Sud, molto duramente le manifestazioni di protesta.

Da un punto di vista giuridico, che però non rivestiva carattere di impellenza in contesti armati, va notato che entrambi i sistemi, in qualche modo operanti sui rispettivi settori della nazione, si trovavano in condizione di sospensione del regime costituzionale: al sud la "defascistizzazione" della pubblica amministrazione e la ricostituzione dello sistema liberale prefascista dovette tener conto delle immediate necessità belliche; al nord non entrò mai in vigore un eventuale sistema costituzionale, anche per la natura dittatoriale del governo imposto dai tedeschi. In entrambe le parti d'Italia non vi era nemmeno rappresentanza (non solo parlamentare), né tantomeno si poteva prendere in considerazione la mera ipotesi di indire elezioni.

Ciò malgrado, al sud la caduta del fascismo aprì la strada alla possibilità di formazione, o di ricostituzione, di partiti liberi, abbattuto il divieto dittatoriale (quasi non interrottosi al nord, nella subito costituita RSI). Si riaddensarono, intorno ad alcune figure storiche o carismatiche, nuclei politici che avrebbero dato nuova vita a partiti prefascisti e movimenti nuovi (compresi quelli che si erano formati o che avevano avuto sviluppo in clandestinità), pian piano riorganizzandosi in entità politiche idonee ad assumere la funzione loro propria di indirizzo della vita pubblica, ma non mancarono le difficoltà e vi furono problemi insuperabili come la rappresentatività, e soprattutto la rispettiva proporzione di rilevanza fra le forze.

Il problema della rappresentatività[modifica]

Le nuove formazioni (comprese quelle esistenti prima del fascismo), per quanto velocemente riorganizzate con strutture adeguate, non potevano presentarsi al confronto delle idee con il sostegno di un qualsiasi segno di delega politica, non avevano cioè nessuna prova documentata di rappresentare alcuno: non essendosi tenute elezioni, non si sapeva quale fra i partiti potesse disporre del seguito più importante presso la cittadinanza. Ciò costituiva evidentemente un limite estremamente grave alla vita politica italiana, che non offriva maggiori contributi di un mero dibattito ideologico-teorico. Questo però fu valutato comunque positivamente rispetto alla precedente assenza assoluta di dibattito: il fermento era qualcosa di più del nulla, sebbene la vita nazionale fosse tuttora decisa dagli ambienti militari.

I partiti che poi avrebbero dato vita alla repubblica, va notato, unanimemente prospettavano il completamento dell'eradicazione del fascismo, la lotta alla Germania nazista e la riacquisizione dei territori del nord, (soggetti alla RSI), alla giurisdizione nazionale del cosiddetto "Regno del Sud". Il comune progetto riguardava una penisola antifascista sotto un sistema politico almeno non contrastante con gli schemi imposti dalle forze alleate. Non vi erano, al sud, sostenitori dell'idea fascista organizzati in partiti (o almeno non ebbero, o non intesero avere, alcuna visibilità), restando loro solo la strada dell'arruolamento volontario nelle forze della RSI o filo-fasciste, fra le quali un certo seguito ebbe la Xª Flottiglia MAS della Repubblica Sociale, che pure, almeno in quella fase, cercò di tenersi discosta dalle ideologie, richiamandosi piuttosto a tematiche di onore nazionale e rifuggendo dal "voltafaccia" in cui sintetizzavano la non limpida condotta badogliana.

Al nord, invece, gli oppositori erano coloro che desideravano sopprimere l'idea fascista e che non potendosi, analogamente, aggregare in formazioni politiche, ebbero la sola scelta di collaborare con la nascente lotta partigiana. Ed uno degli ambiti in cui il problema della rappresentatività dei partiti italiani fu più stringente fu proprio quello della lotta partigiana, nella quale concorrevano a comporre le forze coordinate dal Comitato di Liberazione Nazionale (CLN); era questo, effettivamente, l'unico ambito nel quale lo spontaneismo, che i partiti andavano per necessità coltivando, poteva esprimersi con evidenze fattuali, poiché nella lotta popolare in armi contro il nazifascismo si situava l'obiettivo concreto del momento, l'intento più concretamente attuabile, usando i vasti spazi lasciati liberi dall'esigua azione governativa, ormai sottoposta a sommessa gerarchia alleata dall'armistizio e privata della forza militare dallo sbando delle truppe.

Nel CLN, che si organizzava come forza armata spontanea, si ebbero naturalmente diversità di vedute e di interpretazioni circa le azioni da compiere ed il modo di realizzarle. Non solo a livello di tattica, ma anche, e più profondamente, a livello di strategia. Ciò anche perché, intravistane l'utilità potenziale, le nazioni dell'alleanza (che amavano chiamarsi "Nazioni Unite") separatamente fra loro cercarono di influenzare l'andamento di tutta questa potenza militare, ciascuno secondo le proprie prospettive almeno di medio termine. La maggior parte delle componenti partigiane fu infiltrata da agenti stranieri, e le fratture fra le varie componenti (vi fu una "resistenza bianca", di tendenza cattolica e meglio vista dagli americani, e ve ne fu una "rossa", di tendenza comunista e meglio vista dai sovietici, tutte equanimemente infiltrate di agenti inglesi) furono sempre ricucite con la forza dei nervi in sede di dirigenza del CLN. Anche il Comitato, però, ebbe momenti di scarsa serenità con il CLNAI, la sua divisione per l'Alta Italia.

Una sorta di pseudo-legittimazione pareva perciò venire dall'eventuale supporto ricevuto, per minimo o simbolico o anche casuale che fosse, dalle potenze straniere, il cui "riconoscimento" veniva enfatizzato, spesso come presunta prova a sé bastante. Ma la sostanza non cambiava, non vi erano ragioni per poter considerare un partito più importante di altri e ciascuna idea valeva le altre. Quando perciò prese corpo l'idea avanzata dal Partito Repubblicano di discutere la forma dello stato (ovviamente per modificarla nel senso che dava nome al movimento) come condizione preliminare per la collaborazione in seno al CLN, pur non prevedendosi una grande rappresentatività futura del partito (mentre ne era inalterato, e forse accresciuto, il prestigio storico), si aprì comunque una questione che rischiò di frastornare una già labile alleanza fra compagini di molto diverse.

La Corona in discussione[modifica]

La maggior parte dei partiti attribuiva alla monarchia in generale, ed a Vittorio Emanuele III nello specifico, la responsabilità di aver appoggiato il fascismo e quindi la responsabilità di aver coinvolto l'Italia in una guerra disastrosa. Ciò malgrado, alcuni, all'epoca, non reputavano utile né sostenibile, con le forze del momento, aggiungere altri obiettivi quando la lotta in corso era già tanto difficoltosa. La situazione venne ad una svolta nel 1944 quando Palmiro Togliatti, segretario del Partito Comunista Italiano, propose, in un discorso passato alla storia come "svolta di Salerno", di accantonare la questione istituzionale fino alla fine della guerra.

La post-posizione fu "barattata" con la richiesta di estromissione di Vittorio Emanuele III dalla politica diretta e fu istituita la "luogotenenza", con la quale un soggetto non compromesso con il recente passato avrebbe rappresentato la Corona: fu scelto il principe di Piemonte Umberto di Savoia, erede al trono, di immediato e generale gradimento. Con questo nuovo istituto i poteri regali sarebbero stati gestiti da Umberto con il titolo di Luogotenente generale del Regno. L'accordo prevedeva anche che Vittorio Emanuele III non avrebbe abdicato fino alla definizione della questione istituzionale. L'accoglimento della proposta togliattiana permise di formare un governo in parte idealmente rappresentativo del CLN, che quindi fu presentato come munito, in qualche modo, di un abbozzo di legittimazione democratica.

Questione monarchia/repubblica[modifica]

Anche se temporaneamente accantonata, la questione su quale forma avrebbe dovuto assumere lo Stato italiano dopo la fine della guerra rimase uno dei maggiori problemi politici aperti. La maggior parte delle forze che sostenevano il CLN erano apertamente repubblicane, sia per impostazione politica di fondo, sia perché imputavano alla monarchia, ed in modo particolare a Vittorio Emanuele III, la responsabilità di aver permesso al fascismo di affermarsi, di governare l'Italia per vent'anni e di averla coinvolta in una disastrosa guerra di aggressione.

L'idea repubblicana, in Italia, aveva avuto il suo antesignano in Giuseppe Mazzini, uno dei propugnatori dell'unità d'Italia nel XIX secolo, e proprio agli ideali mazziniani si ricollegava il movimento Giustizia e Libertà, nato per opera dei fratelli Rosselli nell'ambito dell'opposizione clandestina al fascismo, che rappresentava, nel 1944/45, la seconda, per rilevanza desumibile dal collegamento con le unità partigiane, forza del CLN (il partito politico collegato al maggior numero di formazioni partigiane era il Partito Comunista Italiano).

L'accordo conclusivo fu di indire, al termine della guerra e non appena le condizioni generali lo avessero reso possibile, un referendum sulla forma dello stato. Insieme a questo referendum sarebbe anche stata indetta una votazione per eleggere un'assemblea che avrebbe avuto il compito di redigere una nuova carta costituzionale. Una parte dei sostenitori della monarchia premeva affinché Vittorio Emanuele III abdicasse, in modo da poter giungere al referendum con a capo del paese una figura non compromessa con il precedente regime. Il figlio di Vittorio Emanuele III, Umberto, oltre che a godere di una certa popolarità anche consolidata dal fascino personale, si era tenuto abbastanza defilato durante la guerra, e questo faceva sperare che potesse recuperare alla causa monarchica parte del consenso perduto.

Il suffragio universale[modifica]

Il 31 gennaio del 1945, con l'Italia divisa ed il Nord sottoposto all'occupazione tedesca, il Consiglio dei ministri, presieduto da Ivanoe Bonomi, emanò un decreto che riconosceva il diritto di voto alle donne (Decreto legislativo luogotenenziale 2 febbraio 1945, n. 23). Venne così riconosciuto il diritto al suffragio universale, dopo i vani tentativi fatti nel lontano 1881 e nel 1907 dal movimento femminista ispirato da Maria Montessori (la prima donna laureata in medicina in Italia).

Il referendum[modifica]

Il decreto luogotenenziale 151 /1944 tradusse in norma l'accordo che, al termine della guerra, fosse indetta una consultazione fra tutta la popolazione per scegliere la forma dello Stato ed eleggere un'assemblea costituente. L'attuazione del decreto dovette attendere che la situazione interna italiana si consolidasse e chiarisse: sul finire della guerra l'Italia era un paese sconfitto, occupato da truppe straniere, possedeva un governo che aveva ottenuto la definizione di cobelligerante ed una parte della popolazione aveva contribuito a liberare il paese dall'occupazione tedesca. Solo nella primavera dell'anno successivo fu possibile accelerare l'attuazione del decreto sul referendum. La campagna elettorale fu contrassegnata da incidenti e polemiche, soprattutto al nord, dove i monarchici ebbero a scontrarsi sia con i repubblicani che con i "repubblichini" appena sconfitti. Il 16 marzo 1946 il principe Umberto decretò che la forma istituzionale dello Stato sarebbe stata decisa mediante referendum da indirsi contemporaneamente alle elezioni per l'Assemblea Costituente.

Nonostante il concordato del 1944 lo impedisse, un mese prima del referendum Vittorio Emanuele III abdicò in favore di Umberto II, che venne proclamato re, mossa richiesta da più parti dai monarchici nella speranza che la figura meno compromessa del principe ereditario potesse attrarre il favore del popolo.

Nella giornata del 2 giugno e la mattina del 3 giugno 1946 ebbe dunque luogo il referendum per scegliere fra monarchia o repubblica. Sia pure di misura, le fonti ufficiali parlarono di una maggioranza dei voti validi in favore della soluzione repubblicana, anche se non mancheranno ricorsi e voci di brogli.

Il 10 giugno la Corte di Cassazione diede lettura dei risultati del referendum così come gli erano stati inviati dalle prefetture (la repubblica ottenne 12.717.923 voti, mentre i favorevoli alla monarchia risultarono 10.719.284), senza però procedere alla proclamazione della repubblica e rimandando al 18 giugno il giudizio definitivo su contestazioni, proteste e reclami. La notte del 12 giugno il governo si riunì su convocazione di De Gasperi. De Gasperi aveva ricevuto in giornata una comunicazione scritta dal Quirinale nella quale il re si dichiarava intenzionato a rispettare il responso degli elettori votanti, secondo quanto stabilito dal decreto di indizione del referendum Il consiglio dei ministri stabilì che, a seguito della proclamazione dei risultati provvisori del 10 giugno, si era creato un regime transitorio e di conseguenza le funzioni di capo dello Stato passavano ope legis al presidente del consiglio.

Umberto reagì diramando un polemico proclama, nel quale parla di gesto rivoluzionario compiuto dal governo ; tuttavia di fronte all'azione del governo, Umberto II, informato dal generale Maurice Stanley Lush che gli angloamericani non sarebbero intervenuti a difesa del sovrano e della sua incolumità neanche in caso di palese spregio delle leggi, volendo evitare qualsiasi possibilità di innesco di una guerra civile, decise di lasciare l'Italia. La partenza del re diede via libera alla proclamazione senza intoppi della forma repubblicana, dal momento che alla Corte di Cassazione non restava che avallare il fatto compiuto.

Ancora oggi, a distanza di oltre sessant'anni dall'esito al voto referendario, vengono mosse critiche e accuse di illegittimità del risultato da parte dei movimenti monarchici, ma non solo. Tali attacchi alla legittimità del voto a favore della repubblica riguardano presunti brogli elettorali che si sarebbero verificati, secondo i sostenitori di questa tesi, modificando i risultati nelle circoscrizioni. Sul piano giuridico, invece, si fa rilevare che la proclamazione della repubblica avvenne in modo anticipato rispetto alla ratifica, poiché non si aspettò il pronunciamento della Corte di Cassazione come stabilito dal decreto istitutivo del referendum.

Alcuni storici sostengono una ricostruzione che vede Togliatti intervenire per ritardare il rientro in Italia dei reduci dai campi di prigionia russi, in quanto ne temeva le testimonianze ai fini del voto. Non poterono votare neppure coloro che, prima della chiusura delle liste elettorali (aprile 1945), si trovavano ancora al di fuori del territorio nazionale, nei campi di prigionia o di internamento all'estero, o comunque non in Italia. Di queste centinaia di migliaia di persone non furono ammesse al voto neppure quelle rientrate fra la data di chiusura delle liste e le votazioni. Furono inoltre escluse dal voto la provincia di Bolzano con Bolzano, la Venezia Giulia con Gorizia, Trieste, Pola e Fiume, la città di Zara, in quanto non sotto il governo italiano ma sotto il governo militare alleato o jugoslavo.

Conseguenze del referendum[modifica]

Benché da più parti gli pervenissero inviti a resistere in quanto si sospettavano brogli elettorali, Umberto II preferì prendere atto del fatto compiuto, poiché l'alternativa poteva essere una guerra civile fra monarchici e repubblicani, cosa che era nell'aria dopo i fatti di Napoli, e si voleva evitare ad un paese appena uscito da una guerra disastrosa un'ulteriore tragedia, ed il 13 giugno partì in aeroplano da Ciampino dopo aver diramato un proclama[4] dove si parla, fra l'altro, di un gesto rivoluzionario del Consiglio dei ministri.

Umberto II non riconobbe la validità del referendum e rifiutò i risultati. Non adbicò mai, sebbene vada crescendo di credito l'ipotesi che la scelta di non avallare la reazione forzosa dei monarchici sia stata effettivamente intesa pro bono pacis. Nel proclama diffuso prima di partire affidò la patria agli italiani e li sciolse (ciò riguardava principalmente i militari) dal giuramento di fedeltà al re.

La nuova costituzione repubblicana, elaborata dall'assemblea eletta in contemporanea al referendum, venne all'ultimo integrata con alcune disposizioni transitorie, fra cui la XIII, che prescriveva il divieto di entrare in Italia per Umberto e per i suoi discendenti maschi.

L'efficacia di questa disposizione venne fatta cessare nell'ottobre 2002, dopo un dibattito in parlamento e nel Paese durato molti anni, e Vittorio Emanuele, figlio di Umberto, poté entrare in Italia con la sua famiglia già nel dicembre successivo per una breve visita.

Il 18 aprile 1948 vede la prima elezione secondo la Costituzione dell'Italia repubblicana. I due schieramenti più importanti risultano essere la Democrazia Cristiana con il 48,51% alla Camera dei Deputati e il 48,14% al Senato della Repubblica e il Fronte Democratico Popolare, composta dal Partito Comunista Italiano, dal Partito Socialista Italiano e dal Partito Democratico del Lavoro, con il 30,98% alla Camera dei Deputati e il 31,08% al Senato della repubblica. Inoltre vede il ritorno dei fascisti, i quali non potendo ricostituire il loro vecchio partito, vietato dalla Costituzione, il 26 dicembre 1946, hanno costituito il Movimento Sociale Italiano.

  1. Il Referendum Istituzionale Monarchia-Repubblica del 2 giugno 1946
  2. P. Viola, Il Novecento, Einaudi, Torino, 2000, p. 340
  3. Giorgio Rebuffa, Lo Statuto Albertino, 2003, Il Mulino.
  4. Italiani