Sallustio (superiori)
Dall'ingresso in politica al suo ritiro
[modifica]C. Sallustio Crispo nacque ad Amiterno in Sabina nell'anno 86 a.C. da una famiglia plebea ma agiata. Da giovane si gettò subito a capofitto nella vita politica. Nel 55 o 54 a.C. divenne questore. Secondo la Invectiva pseudociceroniana in quegli anni frequentò Nigido Figulo e si avvicinò ai circoli neopitagorici romani come molti giovani di quel periodo che simpatizzavano per le idee novatrici e trovano il loro appagamento nelle esperienze culturali e religiose di quei circoli dove il misticismo si legava alla magia. Nel 52 a.C., mentre era tribuno delle plebe, mostrò la sua più violenta azione politica in occasione dell'uccisione di Clodio. Infiammò la plebe con un acceso discorso accusando Milone dell'uccisione di Clodio. Da questo episodio sarebbe sorto l'urto con Cicerone. L'affrontò non fu perdonato dall'aristocrazia senatoria che nel 50 a.C., mentre era legatus pro praetore in Siria, i censori lo espulsero dal Senato probi causa. La sua carriera era stroncata. Se anche fosse riuscito a rientrare in Senato doveva ripercorrere da capo il cursus honorum. Ma la guerra civile gli diede modo di rifarsi. Si inserì, chiaramente, tra le fila di Cesare ma non furono tante le imprese in cui riuscì eccetto quella del 46 a.C. durante la guerra di Tapso. Nel frattempo Cesare lo aveva fatto reintegrare nel rango senatorio e gli aveva conferito per l'anno 48 a.C. la questura. Già nel 46 a.C. divenne pretore e nello stesso anno, a seguito della vittoria africana, ottenne da Cesare il titolo di proconsole per il governo della nuova provincia di Numidia. Secondo la Invectiva pseudociceroniana durante il suo governo spremette in maniera esosa la provincia affidatogli. Non si sa quanto questo sia vero però è certo che quando tornò a Roma riusci a costruirsi un palazzo fra il Quirinale e il Pincio contornato dai famosi horti Sallustiani e in seguito riuscì a comprarsi anche la villa di Cesare a Tivoli. Di questo periodo sarebbero le sue due epistulae ad Caesarem. Una composta all'incirca nell'anno 46 a.C. nella quale dava consigli a Cesare su come organizzare lo Stato dopo la sua vittoria ed esprime un richiamo alla clemenza. L'altra del 50 a.C., cronologicamente anteriore alla prima, è un incitamento alla lotta contro gli avversari autori della decadenza di Roma e una presa di posizione favorevole all'idea del princeps. Se le due lettere sono vere questo ci mostra come il pensiero di Sallustio, che si vedrà nelle sue monografie successive, fosse già maturato e che inoltre questi ideali erano comuni in quel periodo storico dato che anche lo stesso Cicerone li tracciava nel De republica. L'uccisione di Cesare troncò ancora una volta e definitivamente la carriera politica di Sallustio (che già a stento era riuscito ad evitare un processo per corruzione relativo al suo proconsolato d'Africa) che lasciò così l'agone politico, intrapreso animosamente, per dedicarsi alla tranquillità dell' otium letterario. Tale decisione non fu presa solo per evitare ritorsi dato l'odio che animava la sua figura ma anche perché in lui era insorto un disgusto per quel mondo e che la uccisione di Cesare aggravò. Nonostante la tradizione ce lo mostri come un avido di potere in realtà non fu inferiore ai tanti più moralistici competitori e in lui, inoltre, rispetto a loro, era evidente la coscienza e l'ansia di una necessità di un totale rinnovamento. Così quando colui che per lui sembrava l'artefice di questo rinnovamente cadde sotto i pugnali e vedendo che ormai l'opposizione conservatrice aveva ripreso potere non poté far altro, come fece lo stesso Cicerone, di ritirarsi e di affidare ai suoi scritti la velleità delle sue battaglie. Come Lucrezio, il suo pessimismo era animato dalla romana gagliardia che accendeva la lotta e la difesa degli ideali. Di qui il tono maschio e severo e il timbro di universalità della sua lezione politica e morale. Non cosi però da non suscitare un effetto deprimente sulle giovani generazioni: se ne sento l'eco nel tragico sconforto degli Epodi di Orazio.
La produzione storica
[modifica]La prima opera che mostra la crisi morale di Sallustio è sicuramente il De coniuratione Catilinae che si occupa della congiura di Catilina avvenuta nel 63 a.C. e che segna il preludio al successivo rivolgimento. Narrare di Catilina è un far ordine anche nella sua anima ancora scioccata dal vedersi infrangere dei sogni profusi nella ormai cessata tragicamente dittatura cesariana. Ecco perché quindi il racconto dei fatti è tortuoso e segue un filo delusorio e la stessa narrazione degli eventi hanno sproporzioni e sbandamenti notevoli. L'opera è concepita come una monografia preceduta da un proemio di contenuto etico e animato da discorsi o fittizi o rielaborati dallo storico. Sotto questo aspetto non vi sono grandi novità dato che la concezione monografica trovava già un predecessore in Celio Antiprato mentre l'uso dei discorsi nella narrazione era diffusa nella storiografia contemporanea romana ad opera dell'influsso Greco. Tra l'altro anche il raccontare la storia contemporanea trovava predecessori illustri come Sempronio Asellione e Sissena di cui Sallustio continuerà l'opera nelle Historiae. L'ispirazione che guida Sallustio è quella fondamentalisticamente moralistica. Di ciò ne abbiamo conferma sia nel proemio, che Quintiliano riteneva superfluo e alieno alla tecnica storica e dall'argomento dell'opera, sia dall'accostamento che antichi e moderni fanno tra Sallustio e Tucidide. Anche Sallustio, come lo storico ateniese Tucidide, vuole attraverso la sua opera farci comprendere i mali di un'entità storica, la repubblica romana, ma se Tucidide lo fa guardando le intime ragioni storiche dello sviluppo dello Stato, Sallustio lo fa guardando invece la psicologia, l'umana individualità, concretizzando il culto delle personalità d'eccezione conforme alla cultura del tempo. Un esempio di quanto detto è dato dal fatto che se i discorsi in Tucidide sono posti solitamente a coppie per poter formare una sorta di dibattito sui pro e i contro di una determinata materia, in Sallustio i discorsi sono isolati e servono più a mostrare il timbro morale di un'anima. Discusso è stato l'atteggiamento politico assunto da Sallustio in questa opera. Catilina è giudicato quasi con lo stesso spirito dell'oligarchia senatoria. Viene fatta una vibrante difesa di Cesare dall'accusa di essere stato complice nella congiura e la stessa figura di Cesare viene esaltata e messa più in luce rispetto a quella dello stesso Cicerone. Tra l'altro lo stesso Cicerone è posto sostanzialmente in secondo piano rispetto non solo a Catilina e Cesare ma anche a Catone. In Catilina poi non solo si esaltano i vizi ma anche le qualità quali il coraggio, la magnanimità, la saldezza della tempra. Si avvertono nel suo animo quindi uno spirito non solo uscito dal gorgo con un maturo senso di umanità ma che si sforza anche a voler capire le dinamiche del recente passato e nel farlo preannuncia alcuni modi e direttive spirituali del compromesso augusteo. La tendenza a porre la centro l'uomo comportava chiaramente l'influenza della storiografia ellenistica (che era incentrata sulla presentazione delle singole individualità e di aneddoti o particolari atti). Sallustio assimila e rielabora questa eredità sotto forme più sobrie e dandogli un piglio di romana fermezza ai particolari patetici e coloristici.
L'attenzione dell'autore è sempre incentrato su cosa possa colpire la fantasia del lettore. Si distribuiscono gli effetti tra psiche dei personaggi e scene di follia (come farà poi Tacito) seguendo gli scatti delle reazioni mutevoli della plebe romana alle contrastanti e clamorose notizie che la smuovono. Anche i tratti più inverosimili sono introdotti (come farà poi Tacito) sotto forma di rumores, di dicerie.
Sallustio si avvicina allo stile asiano con i suoi periodi convulsi, rotti e spezzati. La fluidità di Cicerone è decisamente rinnegata anzi sembra quasi in netta opposizione con la stessa. Si avvicina al contemporaneo asianesimo di Teodoro di Gadare anche se spalma nel suo eloquio un velo di arcaismo confermato dall'uso di volcaboli rari e desueti (obsoleta verba). E contro la concinnitas ciceroniana fonda e trasmette a Tacito il gusto per l'ellissi e la variatio. Il Bellum Iugurthinum è la seconda opera storiografica di Sallustio concepita alla stessa maniera della precedente quindi in forma monografica e preceduta da un proemio. Ma essa si presenta fin da subito come un'opera con diversa maturità morale e politica. In lui si fa di nuovo chiaro il suo ideale di rinnovamento che vedeva ancora una volta infranto dallo scivolare di Ottaviano in una posizione sempre più conservatrice e tradizionalistica. In questa opera riconosce che se l'avvenire dell'ideale politica di rinnovamento era Cesare, il suo creatore invece era Mario, ed è lo stesso Mario ad essere posto al centro dell'opera.
Per quanto riguarda la tendenziosità nell'esposizione dei fatti sicuramente con questa opera si raggiunge il culmine. Tutta la prima parte della guerra è vista sotto una luce totalmente infelice e tutte le sconfitte subite dai Romani sotto poste sono reputate alla venalità dei condottieri appartenenti all'aristocrazia. Tra l'altro quando si deve parlare dell'onesto Metello, Sallustio cerca di in fretta di offuscare questa figura per passare alle gesta di Mario. Da notare su come lo stesso discorso post-elezione a console di Mario sia fortemente incentrato sulla differenza tra la decrepita oligarchia e le forze nuove e come tale compito sia svolto dalla lumeggiante figura della personalità di Mario.
Il tessuto stilistico non cambia rispetto a quello della precedente monografia anche se Giugurta è presentato con una tecnica più matura e ferma infatti non è un ritratto esasperato tra le qualità contrastanti ma la notazione attenta e acuta dello sbocciare della personalità lungo gli eventi.
L'opera, rispetto alla patetica varietà del quadro del De Catilinae coniuratione, è più organica, solida e monocroma. Si è attenuata la multiforme ricchezza dei toni ma lo storico e il politico sono cresciuti di statura.
Uguale compattezza ed austerità ed uguale atteggiamento politico dovevano ispirare la sua successiva opera in cinque libri delle Historiae che continua l'opera di Sisenna che cominciavano dal 78 a.C., anno della morte di Silla, e treminavano nel 67 a.C., forse per la sopraggiunta morte dell'autore. Essi purtroppo sono andati perduti ed è forse una delle perdite più deplorevoli di quelle lamentate dalla letteratura latina. Ci sono rimasti solo quattro discorsi, due lettere, frammenti e citazioni. San Girolamo ci attesta che Sallustio è morto quattro anni prima della guerra d'Azio, dunque nel 36 a.C. o più probabilmente nel 35 a.C.. Anche nei secoli successivi continuò ad essere ricordato come il maggiore storico dei romani. Il Medioevo, interpretando arbitrariamente le due opere monografiche come trattati morali (cosa di cui si è inclini a fare d'altronde anche oggi) lo ammirò e lo lesse assiduamente come è dimostrato anche dal gran numero di manoscritti che di quelle ci sono pervenuti. Il Rinascimento lo ebbe pure in altissima considerazione ma a poco a poco, nel gruppo degli storici dei secoli più torbiti e agitati di Roma, dovette cedere il posto a Tacito. Oggi s'è fatto strada un giudizio comparativo più equanime riguardo al valore di queste due eccelse figure.