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Questione della lingua nell'Ottocento (superiori)

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Questione della lingua nell'Ottocento (superiori)
Tipo di risorsa Tipo: lezione
Materia di appartenenza Materia: Letteratura italiana per le superiori 3
Avanzamento Avanzamento: lezione completa al 100%

Il dibattito sulla questione della lingua non si limita al solo Cinquecento, ma prosegue fino al Novecento, con momenti di particolare vivacità nel Settecento illuminista e nell'Ottocento. All'inizio del XIX secolo si assiste all'affermazione del purismo classicistico, mentre dopo l'unificazione politica italiana Manzoni rende pubblica la Relazione a lui richiesta dal ministro dell'Istruzione Broglio, nella quale suggerisce metodi e strumenti per unificare la lingua nel Regno da poco costituito.[1] Questo intervento di Manzoni riaccende il dibattito, che prosegue con il linguista Graziadio Ascoli e, nel Novecento, con il filosofo Benedetto Croce.[2][3]

La polemica contro l'Accademia della Crusca

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Frontespizio della prima edizione del Vocabolario della Crusca, 1612

Come si è visto nel modulo sulla questione della lingua nel Cinquecento, il modello bembiano conosce con il tempo un processo di snaturamento. Nel Seicento la tendenza da esso diffusa viene rovesciata, e Firenze torna ad avere autorità normativa in fatto di lingua. A dimostrazione di questo, nel XVII secolo è stampata proprio nella città toscana la grammatica di Benedetto Buonmattei. Con la pubblicazione del vocabolario dell'Accademia della Crusca nel 1612 la questione della lingua si sposta sul dibattito tra sostenitori e contrari al vocabolario.

In questo contesto, l'autorità del fiorentinismo viene avversata in nome di un generico toscanismo, che fa leva sui meriti letterari della città di Siena, la quale può vantare una tradizione linguistica risalente Claudio Tolomei e portata avanti da Celso Cittadini. A questo si aggiunge, nel Settecento, il Dizionario cateriniano (cioè il lessico dei termini usati da Caterina da Siena) curato da Gerolamo Gigli, in cui vengono attaccati la Crusca e il fiorentinismo. Il Dizionario segna anche il momento più acre di tutto il dibattito sulla questione della lingua: il granduca di Toscana esige una punizione per Gigli, che è bandito da Roma e costretto a ritrattare, mentre il Dizionario, non ancora ultimato, viene bruciato pubblicamente.[4]

D'altra parte, i principali intellettuali del Seicento e del Settecento si dimostrano contrari al fiorentinismo e alle posizioni dell'Accademia della Crusca, che con il passare del tempo diventano sempre più anacronistiche. Tuttavia la mancanza di altri strumenti normativi idonei fa sì che il Vocabolario, ampliato, continui a fare testo, seppur fermo nelle sue posizioni arcaicizzanti. Gli illuministi in particolare mostrano acredine verso la Crusca: si ricordano per esempio la Rinunzia avanti notaio al Vocabolario della Crusca di Alessandro Verri e il Saggio sulla filosofia delle lingue di Melchiorre Cesarotti, che propone l'istituzione a Firenze di un Consiglio nazionale della lingua che sostituisca l'Accademia. Nel suo saggio Cesarotti si dimostra inoltre aperto ad accettare forestierismi e termini provenienti dai dialetti, posizione che finisce per scontrarsi con l'ostilità verso gli stranieri diffusa in seguito alle campagne napoleoniche in Italia (si pensi al Misogallo di Alfieri). A questo segue un rinato amore per la lingua del Trecento e per il modello bembiano, un purismo che in qualche modo ovvia alla mancanza di unità politica della penisola. Tra le opere più importanti di questa fase si ricorda la Dissertazione sopra lo stato presente della lingua italiana di padre Antonio Cesari, fondatore di una Crusca Veronese.[4][5]

La questione della lingua all'inizio dell'Ottocento si sviluppa in base alla contrapposizione tra romantici e classicisti, riprendendo per altro alcune posizioni espresse dagli illuministi. Nel dibattito rientra anche la questione sull'uso dei dialetti: se Pietro Giordani individua in questi un limite per la circolazione delle idee, Carlo Porta gli risponde con una serie di poesie polemiche. Vero e proprio oppositore del purismo è invece Vincenzo Monti, che dirige una Proposta di correzioni e aggiunte al Vocabolario della Crusca in più volumi (1817-1826).[4] Il poeta di Alfonsine, insieme al genero Giulio Perticari e ad altri intellettuali, propone un classicismo moderno aperto alle novità e ai forestierismi,[6] che sia caratterizzato da un equilibrio tra tradizione e libertà, che sia consapevole dell'evoluzione della lingua a partire dal Trecento e che si rifaccia alla lezione di Alfieri e Parini.[5]

Il modello manzoniano

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Alessandro Manzoni

Le teorie linguistiche di Alessandro Manzoni hanno grande importanza per la cultura dell'epoca e per quella dell'età successiva. Lo scrittore milanese si oppone al purismo e porta alle estreme conseguenze le tesi dei romantici, per i quali è urgente abbandonare le mere questioni stilistiche ed elaborare «una lingua, semplicemente» che consenta la comunicazione dei concetti tra tutti gli italiani. Non dunque una lingua letteraria, ma una lingua parlata che, utilizzata in letteratura, si rivolga a tutto il popolo e non a pochi eletti.[7]

Una testimonianza della ricerca linguistica di Manzoni ci viene proposta dalle fasi di lavorazione del suo romanzo. Il Fermo e Lucia è scritto in un italiano «comune», sganciato dalle forme classiche. L'autore è però insoddisfatto del suo lavoro. Con la revisione che porterà ai Promessi Sposi (1825-1827), Manzoni cerca una lingua più generale, attraverso cui rivolgersi a un pubblico più ampio, e la individua nella parlata fiorentina e nel toscano.[8] La sua convinzione trova conferme durante il soggiorno a Firenze del 1827: la seconda edizione dei Promessi Sposi, che esce nel 1840-1842, è ulteriormente rivista nella sua forma linguistica alla luce dell'esperienza diretta con la parlata toscana e il fiorentino vivo. In particolare, Manzoni ha qui come riferimento la lingua utilizzata dalla classe colta della città di Firenze, e non il fiorentino rurale e arcaico, che invece riscontra i favori di molti cultori del toscanismo come Niccolò Tommaseo o padre Giambattista Giuliani.[4]

Nel 1868 Manzoni riceve l'incarico, da parte del ministro della Pubblica istruzione Emilio Broglio, di presiedere la doppia commissione milanese e fiorentina per individuare i provvedimenti utili per rendere universale la lingua e diffonderne il corretto uso a tutti i livelli del popolo. La richiesta presenta elementi di novità: proviene infatti da un ministro del neonato Stato unitario, e la questione della lingua non riguarda più solo un gruppo di letterati, ma il popolo dell'intera nazione. Tuttavia la commissione fiorentina non accoglie le soluzioni di Manzoni, e lo scrittore pubblicherà nello stesso anno una propria Relazione sull'unità della lingua, in cui propone di diffondere il fiorentino vivo attraverso l'insegnamento scolastico. A questa segue un vivace dibattito, ricalcando temi già affrontati, dalla difesa delle prerogative del fiorentino all'estensione al toscano della funzione letteraria della lingua.[4]

Contro la soluzione manzoniana prende posizione anche Graziadio Isaia Ascoli nel Proemio al primo fascicolo dell'Archivio Glottologico Italiano (scritto nel 1872 ma pubblicato nel 1873). A differenza di molti suoi contemporanei, il celebre glottologo non contrappone al toscano un altro idioma, bensì contrappone al modello centralistico manzoniano uno policentrico, sostenendo che lo sviluppo sociale e culturale della nazione avrebbe inevitabilmente portato all'unificazione linguistica. Tuttavia queste tesi non conoscono grande fortuna, mentre sono più popolari le interpretazioni facilitate del manzonismo, come quella proposta da [[../Edmondo De Amicis|De Amicis]] nell'Idioma gentile (1905). Le tesi toscaniste si diffondono così anche tra gli educatori.[4]

Ferroni in proposito scrive che il manzonismo linguistico ben presto ha rappresentato una «prospettiva sterile e di grave ostacolo ai nuovi orizzonti linguistici e culturali del paese», poiché pretendeva di imporre nella nuova scuola italiana la lingua del ristretto ambiente borghese fiorentino dell'età del Risorgimento, senza affrontare le questioni legate all'incontro tra le diverse tradizioni regionali e all'affacciarsi di un'economia di tipi industriale.[9]

Sviluppi successivi

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Toscanismo e fiorentinismo continueranno a contrapporsi anche nei primi del Novecento e, come si vedrà, nella questione della lingua interverrà anche il filosofo Benedetto Croce. In seguito, si profilerà un'avversione ai dialetti, che crescerà durante il fascismo, quando si affermeranno anche atteggiamenti esterofobi.

La questione della lingua ha poi un rilancio nel 1964-1965 grazie a una conferenza di Pasolini dedicata alle Nuove questioni linguistiche. Nei decenni successivi sono sorte polemiche attorno al progetto di legge sulla definizione delle minoranze, che dopo essersi arenato nel 1991 è stato approvato nel 1999.

Note

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  1. Alessandro Manzoni, Dell'unità della lingua e dei mezzi di diffonderla, in Edizione critica del ms. Varia 30 della Biblioteca Reale di Torino a cura di C. Marazzini e L. Maconi, con due note di G. Giacobello Bernard e F. Malaguzzi, Imago, 2011.
  2. Claduio Marazzi, Da Dante alla lingua selvaggia. Sette secoli di dibattiti sull'italiano, Roma, Carocci, 1999.
  3. Maurizio Vitale, La questione della lingua, Palermo, Palumbo, 1978.
  4. 4,0 4,1 4,2 4,3 4,4 4,5 Claudio Marazzini, Questione della lingua, in Enciclopedia dell'Italiano, Treccani, 2011. URL consultato il 15 febbraio 2015.
  5. 5,0 5,1 Giuseppe Petronio, L'attività letteraria in Italia, Palermo, Palumbo, 1969, p. 571.
  6. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2001, p. 564.
  7. Giuseppe Petronio, L'attività letteraria in Italia, Palermo, Palumbo, 1969, p. 633.
  8. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2001, p. 652.
  9. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2001, p. 654.