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Prosa tra le due guerre (superiori)

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Prosa tra le due guerre (superiori)
Tipo di risorsa Tipo: lezione
Materia di appartenenza Materia: Letteratura italiana per le superiori 3
Avanzamento Avanzamento: lezione completa al 75%

Nelle prime due decadi del nuovo secolo la narrativa perde la centralità che aveva avuto nella seconda metà dell'Ottocento, e le opere più importanti si devono ad autori già affermati del periodo precedente (D'Annunzio, Fogazzaro, Deledda) oppure a scrittori che rimangono ai margini delle tendenze dominanti (Pirandello, Svevo). I vociani intraprendono la strada della narrazione autobiografica, mentre più sperimentale è la via battuta dai futuristi. In questi anni si sviluppa anche una produzione rivolta a un pubblico borghese.[1]

L'esperienza della rivista La Ronda, pubblicata tra il 1919 e il 1922, ha rappresentato nella letteratura italiana un ritorno all'ordine e al classicismo, in controtendenza rispetto ai programmi delle avanguardie primonovecentesche. Viene così riaffermato il valore istituzionale della letteratura, seguendo un «classicismo moderno» che evita i modelli più recenti e si rifà alla lezione di Leopardi e Manzoni.[2]

Il romanzo europeo nel Novecento

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Thomas Mann

Le esperienze di D'Annunzio, Svevo e Pirandello hanno modificato il genere del romanzo rispetto al modello verista. Trasformazioni ancor più radicali interessano la letteratura europea negli anni a cavallo tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento, e proseguono nel periodo tra le due guerre. Alcune tendenze si rafforzano, come quelle che interpretano il romanzo come la trascrizione dell'esperienza soggettiva, come la proiezione di problematiche esistenziali, come la disintegrazione di forme prestabilite. Il tedesco Thomas Mann, ad esempio, ben rappresenta l'evoluzione del romanzo novecentesco, passando attraverso naturalismo, decadentismo, simbolismo mitico e sperimentalismo.

Grande influenza sui narratori del Novecento avrà la monumentale opera del francese Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto, in cui la narrazione in prima persona da parte del protagonista penetra nei meandri della coscienza, rinnovando la concezione del tempo narrativo: questo non è più commisurato agli avvenimenti come nel romanzo naturalista, ma alla memoria e alla soggettività del narratore.

James Joyce

Con James Joyce avviene uno sconvolgimento delle strutture romanzesche. Il romanzo accoglie ogni aspetto del reale, sia sul piano delle tematiche sia su quello del linguaggio, che diventa complesso, mutevole e fluido, tanto da trasformarsi in flusso di coscienza (una tecnica con cui si riproduce il linguaggio dell'inconscio). Un chiaro esempio di tutto questo è la sua opera più famosa, Ulisse (1922), in cui il mito narrato nell'Odissea rivive nella giornata di un ebreo irlandese a Dublino. Il monologo interiore e il flusso di coscienza saranno largamente utilizzati anche da Virginia Woolf, in opere come Mrs Dalloway, Gita al faro e Le onde. Sempre con Joyce si afferma la nozione di opera aperta, cioè un'opera in continuo divenire, una caratteristica che esprime la precarietà e la relatività del mondo contemporaneo (ne è un classico esempio la sua ultima opera, Finnegans Wake).

Negli stessi anni lo scrittore ceco Franz Kafka torna sul tema ottoncentesco dell'inettitudine, rinnovandolo. I protagonisti dei suoi racconti sono privi di volontà, straniati nei confronti del reale. La perdita di significato delle azioni conduce all'assurdo, a una dimensione sconvolgente che diventerà centrale nella narrativa europea del Novecento. Le ragioni psicanalitiche diventano inoltre un atto di accusa contro la società.

Sugli stessi temi, ma con risultati diversi, si sofferma anche Robert Musil, autore de L'uomo senza qualità (1930-1933, incompiuto). In questo romanzo la frantumazione dell'io viene registrata con freddezza scientifica, mentre il rapporto con la realtà diventa sempre più inautentico. La stessa struttura narrativa è discontinua, procede per digressioni giustapposte l'una all'altra ed è quindi prolungabile all'infinito.

Tematiche simili saranno affrontate anche dagli autori italiani e in particolare, come si è visto, dalle ultime opere di Pirandello, Svevo e Tozzi.[3]

Giuseppe Antonio Borgese

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Negli anni venti si assiste a un ripresa del romanzo in Italia, e uno dei primi esempi si deve a Giuseppe Antonio Borgese (Polizzi Generosa, 12 novembre 1882 – Fiesole, 4 dicembre 1952), uno dei più autorevoli intellettuali della prima metà del Novecento. Già conosciuto per la sua attività di critico letterario "militante", durante gli anni dieci e venti si distacca dalle tendenze culturali dominanti. La scelta dell'antifascismo lo costringe però all'esilio in America, dove tra il 1931 e il 1949 è docente in vari atenei.

Particolare rilievo ha il romanzo Rubè (1921), nel quale critica la cultura interventista. Il libro parla delle modificazioni nella coscienza di Filippo Rubè, un intellettuale siciliano, nel passaggio dalla foga interventista alla crisi sociale del primo dopoguerra. Rubè passa dall'una all'altra esperienza senza alcuna maturazione, incapace di prendere posizione perché divorato dai dubbi. L'io del protagonista viene scavato a fondo, attraverso una prosa rapida e scorrevole, che segue una trama di simboli e analogie. Viene così messo in mostra il carattere velleitario dell'ambizione di Rubè di immergersi nel flusso del presente.[4]

Massimo Bontempelli e il realismo magico

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Massimo Bontempelli (a sinistra) e Luigi Pirandello in visita agli studi cinematografici della Lumitor nel 1933

L'opera di Massimo Bontempelli (Como, 12 maggio 1878 – Roma, 21 luglio 1960) è protesa verso la creazione di un'arte destinata a un pubblico di massa. Il fondatore della rivista 900 esordisce con due romanzi vicini alle istanza del futurismo: La vita intensa. Romanzo dei romanzi (1920) e La vita operosa (1921). Queste due opere si caratterizzano per l'uso di una prosa semplice e per una comicità che nasce da sorprese e paradossi, che descrivono l'imprevedibilità della vita moderna. Seguono i romanzi La scacchiera davanti allo specchio (1922) e Eva ultima (1923). Molto importante è la sua produzione teatrale, che risente dell'influenza di Pirandello: in particolare, le intuizioni del drammaturgo siciliano vengono tradotte in opere comiche dai tratti bizzarri. In questo senso, la sua prova migliore è rappresentata dalla commedia Nostra Dea (1925).

Il nome di Bontempelli è però legato alla rivista 900, da lui fondata nel 1926. Attraverso questa pubblicazione lo scrittore risolve su un piano programmatico la sua concezione di modernità basata sul rapporto tra artista e pubblico. Il suo realismo magico, fedele a questa formulazione, propone una narrativa che riesca a ricavare figure mitiche dalla realtà moderna. Nella sua concezione della storia ritiene che debba sorgere una «terza età», in cui l'uomo ha il compito di creare oggetti nuovi in grado di modificare il mondo. A questo tema Bontempelli dedicherà varie riflessioni critiche, raccolte in L'avventura novecentista (1938). Ha inoltre proseguito con la ricerca di congegni narrativi artificiosi: si possono ricordare i titoli Il figlio di due madri (1929), Vita e morte di Adria e dei suoi figli (1934), Gente nel tempo (1937).[5]

Un nuovo realismo

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Negli anni trenta si assiste all'affermarsi di un realismo moderno, lontano sia dai modelli naturalisti sia da quelli espressionisti. Osservando la vita nei grandi centri urbani e nella provincia, cerca di proporre un'immagine critica della realtà. In particolare, vengono affrontati temi come la prospettiva della memoria e l'analisi dello spazio sociale in cui si consumano i rapporti tra i personaggi. Le prime opere che con una certa efficacia mettono in luce questi nuovi elementi sono Gli indifferenti (1929) del giovane Alberto Moravia (di cui si parlerà nel modulo a lui dedicato) e i romanzi di Corrado Alvaro. Il suo pieno sviluppo in una direzione europea sarà però possibile grazie all'attività della rivista Solaria: il realismo italiano sarà infatti stimolato dalle esperienze letterarie che all'estero si proponevano di descrivere la realtà, criticandone le trasformazioni.[6]

Corrado Alvaro

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Corrado Alvaro

L'esperienza di Corrado Alvaro (San Luca, 15 aprile 1895 – Roma, 11 giugno 1956) è una delle prime manifestazioni del nuovo realismo. Avendo come modello Verga, la sua produzione letteraria risente dell'influenza di Pirandello e della rivista 900, aprendosi a suggestioni liriche e fantastiche. In particolare, viene messa in luce la distanza tra la realtà della sua terra, la Calabria, e il mondo industriale: si consuma in questo modo lo scontro tra la nostalgia per la terra natia, vista come un mondo primitivo, e la volontà di superare l'arretratezza e la miseria.

Vita contadina e vita cittadina, regionalismo e cosmopolitismo, sono gli argomenti di molti racconti di Alvaro. Il suo lavoro più noto è però il romanzo breve Gente in Aspromonte (1930): la scoperta della violenza da parte di un giovane calabrese diventa l'occasione per toccare temi come l'oppressione, il riscatto sociale, la rivolta. Nel 1938, dopo un viaggio in Russia, esce L'uomo è forte, in cui descrive il carattere allucinatorio dello Stato totalitario. Il ciclo delle Memorie del mondo sommerso attinge invece a materiale autobiografico; dei tre romanzi previsti sarà però completato e pubblicato solo il primo, L'età breve (1946).[7][8]

Romano Bilenchi

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Collocatosi inizialmente sulle posizioni del fascismo di sinistra, negli anni trenta Romano Bilenchi (Colle Val d'Elsa, 9 novembre 1909 – Firenze, 18 novembre 1989) entra in contatto con l'ambiente culturale fiorentino, e in particolare con il gruppo di Solaria e quello degli ermetici, stringendo poi rapporti con Elio Vittorini. In seguito si avvicina ai gruppi antifascisti clandestini. Durante la resistenza intensifica la sua attività giornalistica, e nel dopoguerra partecipa alla fondazione delle riviste Società e Il Contemporaneo. Impegnato nel PCI, mantiene sempre una certa indipendenza. Dal 1948 è inoltre direttore del Nuovo Corriere di Firenze, che sospenderà le pubblicazioni nel 1956, quadro prenderà le distanze dalla linea stalinista seguita dal PCI.

La prima opera di una certa importanza scritta da Bilenchi è la raccolta Il capofabbrica. I racconti che la compongono, scritti tra il 1930 e il 1932, sono accomunati dallo stesso punto di vista, quello di un bambino, di cui vengono espressi i turbamenti nel rapporto con la famiglia e la società. Punti di riferimento sono Federigo Tozzi e la letteratura europea contemporanea. La lingua utilizzata è però semplice ed essenziale, allo scopo di seguire il ritmo monotono della vita. Non mancano tuttavia suggestioni e momenti lirici, a cui si accompagna un senso di sospensione. Il rapporto con la natura sembra costituire l'unica promessa di felicità, che però viene delusa dai rapporti tra il protagonista, i familiari e gli altri ragazzi. L'esperienza della formazione dell'individuo nella provincia borghese è caratterizzata dalla mancanza di senso e da una ragione negativa.

Bilenchi tornerà sul tema dell'infanzia e dell'adolescenza nei romanzi Anna e Bruno (1938) e Conservatorio di Santa Teresa (1940), e nella raccolta Mio cugino Andrea (1943). Seguono i romanzi del trittico Gli anni impossibili (1984), composto da La siccità, La miseria (1941), Il gelo (1982). Da ricordare poi le sue pagine di memorie dedicate alla realtà fiorentina degli anni trenta, raccolte in Amici. Vittorini, Rosai e altri racconti (1976) e poi riprese in Due ucraini e altri amici (1990).[9]

Ignazio Silone

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Ignazio Silone negli anni venti

L'opera di Secondo Tranquilli, meglio conosciuto con lo pseudonimo di Ignazio Silone (Pescina, 1º maggio 1900 – Ginevra, 22 agosto 1978), all'epoca rimane pressoché sconosciuta in Italia. Militante comunista, Silone è costretto a riparare in Svizzera nel 1930. L'anno successivo abbandona però il PCI dopo che i suoi dirigenti hanno aderito allo stalinismo, orientamento a cui negli anni successivi riserverà aspre critiche. Nel 1947 aderisce infine alla socialdemocrazia.

Proprio a Davos, in Svizzera, nel 1930 scrive durante una malattia il suo romanzo più celebre, Fontamara, che sarà pubblicato nel 1934 a Parigi (in edizione italiana) e nel paese elvetico (in traduzione tedesca). Il romanzo parla della difficile vita dei cafoni di un borgo montano della Marsica. Lo stile è semplice e immediato, e dà una rappresentazione diretta della realtà. In seguito, Silone pubblica Pane e vino (1937), Il segreto di Luca (1956), L'avventura di un povero cristiano (1965) e Uscita di sicurezza (1965), in cui ripercorre la propria esperienza politica.[10]

Carlo Bernari

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All'inizio degli anni trenta si collocano anche le opere di Carlo Bernari, che in Tre operai (scritto tra il 1930 e il 1932) descrive il mondo del proletariato napoletano, attraverso le vicende di tre personaggi. Per questo motivo, e anche per il linguaggio utilizzato, il romanzo si è affermato nel dopoguerra come un punto di riferimento per il neorealismo. Tra le altre opere si ricordano Speranzella (1949), Vesuvio e pane (1952), Domani e poi domani (1957), Amore amaro (1958).[10]

Letteratura fantastica

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Oltre al realismo, si assiste negli anni tra le due guerre all'affermazione della narrativa fantastica, che avrà i suoi risultati migliori nelle opere di Dino Buzzati e Tommaso Landolfi. Anche in Italia arriva inoltre l'eco del surrealismo, la cui influenza è riscontrabile negli scritti di Alberto Savinio e Antonio Delfini.

Alberto Savinio e il surrealismo

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Si è già parlato del surrealismo, un movimento artistico fondato da André Breton negli anni venti che, a partire da una propria interpretazione della psicanalisi freudiana, si propone di portare alla luce ciò che si trova negli strati psichici più profondi. Da qui l'interesse per temi come la libido, la follia, il sogno; particolare attenzione si ha inoltre per l'infanzia e il mondo della fantasia. Il surrealismo cerca nuove forme, nuovi linguaggi, nuove figure, attingendo da ambiti diversi, dal mito alla vita quotidiana. A questo scopo si ricorre alla scrittura automatica (écriture automatique), un metodo ideato da Breton che consiste nel registrare ogni movimento dell'immaginazione, dando libero sfogo all'inconscio, libero da ogni logica.[11]

In Italia la diffusione del surrealismo è molto limitata. Alcuni artisti figurativi hanno in questi anni rapporti con i surrealisti, le cui idee circolano per la letteratura italiana degli anni venti e trenta. In particolare, se ne sente l'eco nel realismo magico di Bontempelli e in alcune opere di Pirandello e Palazzeschi. Il surrealismo agisce più direttamente su forme di letteratura in cui vengono attuate scomposizioni, associazioni di elementi, giochi intellettuali. Il maggiore rappresentante di questa "letteratura surrealista" italiana è Alberto Savinio.[12]

Andrea Francesco Alberto de Chirico, meglio noto come Alberto Savinio (Atene, 25 agosto 1891 – Roma, 5 maggio 1952), fratello maggiore del pittore Giorgio De Chirico e pittore egli stesso, vive a Parigi dal 1910, dove viene in contatto con il mondo dell'avanguardia. Tornato in Italia allo scoppio della prima guerra mondiale, si arruola insieme al fratelo Giorgio. Di stanza a Ferrara incontra Corrado Govoni, Carlo Carrà e Filippo De Pisis. Nel dopoguerra vive tra Roma e Milano, e si interessa di teatro. Nel 1926 sposa l'attrice Maria Morino e inizia a dipingere. Di nuovo a Parigi, frequenta Breton e i surrealisti. Tornato a Roma nel 1935, evita di prendere posizione nei confronti del regime fascista. Nel secondo dopoguerra, e fino alla morte avvenuta improvvisamente, si dedica all'attività teatrale e all'allestimento di spettacoli.[13]

Savinio definisce la propria opera sotto il nome di dilettantismo, una superficialità che rifiuta di identificare la saggezza con l'assoluto e i valori metafisici. Nelle sue opere, anche per via delle sue origini greche per parte materna, mostra predilezione per il mondo classico, allontanandosi però dall'immobilità tipica del classicismo. Al contrario, la libertà di immaginazione attacca ogni forma di serenità e ogni convenzione. La sua scrittura segue percorsi insoliti, attraverso il libero gioco delle associazioni, aprendosi al sogno e ai giochi di parole. Anche il mito si presenta spesso nei suoi scritti, fondendosi con situazioni quotidiane e banali. Molto forti sono i temi dell'infanzia, dei limiti imposti dalla vita famigliare e della sessualità. Anche Savinio, come altri autori del Novecento (a cominciare da Proust) si confronta con il tema del tempo: questo però non si risolve nel suo recupero del passato attraverso la memoria, bensì nell'annullamento del tempo stesso nel suo eterno ritorno.[14]

Nella produzione letteraria di Savinio si ricordano Hermaphrodito (1918), Tragedia dell'infanzia (scritto nel 1919 ma pubblicato nel 1937), La casa ispirata (1925), Angelica o la notte di maggio (1927), Ifanzia di Nivasio Dolcemare (1941), Casa «La Vita» (1943), Tutta la vita (1945).

Antonio Delfini

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Antonio Delfini (Modena, 10 giugno 1907 – Modena, 23 febbraio 1963) ha avuto scarsa fortuna con le opere pubblicate in vita: Il ricordo della Basca (1938), La Rosina perduta (1957), Il fanalino della Battimonda (1940), I racconti (1963). Nel 1982 vengono poi pubblicati vari appunti e scritti sotto il titolo Diari.

L'atteggiamento di Delfini verso la letteratura si basa su sentimenti antiletterari, sul rifiuto dei modelli e delle forme tradizionali, ma rigettando anche poetiche e programmi artistici. La sua scrittura parte da un desiderio di affermazione dell'io, alla ricerca di qualcosa di magico in grado di rivelare la propria autenticità. Nei racconti accumula immagini della vita di provincia nell'Italia settentrionale, popolata da personaggi strani, solitari e inconcludenti. Inoltre, vita e opera si costruiscono in una serie di trasposizioni che si sovrappongono, e che rendono impossibile distinguere tra il vissuto e l'inventato.[15]

Tommaso Landolfi

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Scrittore raffinato e dotato di grande cultura, Tommaso Landolfi (Pico, 9 agosto 1908 – Ronciglione, 8 luglio 1979) si è sempre sottratto al ruolo pubblico dell'intellettuale. Il suo rapporto con la letteratura fantastica e surreale è mediato dalla letteratura ottocentesca (in particolare dalla letteratura gotica di Poe e Hoffmann, e dalla lezione dei grandi romanzieri francesi e russi, in particolare Dostoevskij), senza però avvicinarsi direttamente all'avanguardia. Nella sua opera la letteratura si accompagna al gioco: l'io si confronta con il caso e l'imprevedibilità, frantumandosi in infinite situazioni sempre uguali e sempre diverse. La sua prosa presenta un grande equilibrio, che però a tratti si rompe in aperture che trasformano l'equilibrio in qualcosa di allucinante e ossessivo.

L'immaginario e il fantastico nascono da un'insufficienza esistenziale: lo scrittore sente di non avere un ruolo sociale privilegiato, ma allo stesso tempo cerca un'esperienza assoluta nella letteratura. La ricerca di una lingua perfetta e personale, in grado di far comparire immagini di felicità, è però ostacolata dall'artificio e dalla menzogna. La vita e la letteratura, a causa della menzogna, finiscono quindi per portare alla morte ogni richiamo all'assoluto. Landolfi ricorre ad alcune tematiche costanti, come l'immaginario notturno e lunare, l'amore e la sensualità (donne sensuali ma inafferrabili, delle quali viene messa in luce anche l'animalità), il sogno, la follia.[16]

Tra le principali opere di Landolfi si ricordano il Dialogo dei massimi sistemi (1937), Il mar delle Blatte e altre storie (1939), La pietra lunare (1939), La spada (1942), Le due zitelle (1946), Racconto d'autunno (1947), Cancroregina (1950), Ottavio di Saint Vincent (1958), Un amore del nostro tempo (1965), Racconti impossibili (1966), A caso (1975). A questi si aggiungono gli scritti nella forma di diario, un diario però artificiale che mescola dati reali e fittizi, intreccia l'analisi dell'io a fatti e situazioni inventate: La bière du pecheur (1953), Rien va (1963), Des mois (1967).

Dino Buzzati

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Dino Buzzati (San Pellegrino di Belluno, 16 ottobre 1906 – Milano, 28 gennaio 1972) compie una lunga carriera giornalistica presso il Corriere della Sera, occupandosi prevalentemente di cronaca nera. Nelle sue opere più famose il fantastico nasce non da particolari effetti linguistici o stilistici, ma sorge a partire da una lingua media, che non altera i rapporti tra le cose nella realtà. Ecco quindi comparire in questo mondo "normale" il mistero e l'assurdità; il mondo stesso si sospende in un'angoscia che rimanda ad altro, a un segreto inconoscibile che è poi il senso stesso del vivere.

Buzzati dà corpo a queste intuizioni in vari racconti; l'opera che però gli ha dato la fama a livello internazionale è il romanzo Il deserto dei Tartari (1940).

Trama
L'ufficiale Giovanni Drogo viene inviato alla fortezza Bastiani, presidio militare al confine con un deserto inesplorato in cui vive la misteriosa popolazione dei Tartari. Il romanzo è pervaso da sentimenti di sospensione e di attesa: Drogo consuma la sua esistenza ad aspettare inutilmente l'attacco dei Tartari, nella speranza, poi delusa, di ottenere la gloria in guerra. La sua vita e quella della guarnigione di stanza alla fortezza si svolge lenta, sempre uguale, secondo rigide norme militari. Drogo ha anche l'occasione di ottenere un trasferimento per motivi di salute, ma a causa di un tentennamento la sua richiesta viene poi rifiutata, condannandolo a restare nella fortezza.

Come scrive Ferroni, Buzzati sposta in un luogo al di fuori della storia i sentimenti di attesa e tensione che serpeggiano nell'Italia di quegli anni, mentre il fascismo conduce il paese nel disastro della guerra.[17]

Achille Campanile e la letteratura umoristica

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Achille Campanile

Oltre a essere un elemento essenziale nelle opere di molti autori che sono stati fin qui trattati, l'umorismo nel corso degli anni venti si è affermato come un genere letterario molto seguito e amato. Tra i più prolifici umoristi di questi anni c'è Achille Campanile (Roma, 28 settembre 1899 – Lariano, 4 gennaio 1977), autore di una vasta produzione artistica. Non si possono poi dimenticare le opere di Cesare Zavattini, che tra gli anni trenta e quaranta firma romanzi come I poveri sono matti (1937) e Totò il buono (1943).[17]

La critica letteraria

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Nel Novecento il rapporto tra critica e scrittori si fa più stretto: la critica diventa un processo interno alla stessa letteratura, e molti scrittori si occupano di critica letteraria. Si distinguono in particolare una critica accademica e una critica militante: la prima si occupa soprattutto di studiare le opere del passato, mentre la seconda è rivolta all'intervento della letteratura nel mondo contemporaneo. Bisogna tuttavia sottolineare come questa distinzione non sia rigida: anche nella critica accademica ci sono casi di studiosi militanti. Possono essere inseriti tra i critici militanti autori come Giuseppe Antonio Borgese, Emilio Cecchi, Adriano Tilgher, Pietro Pancrazi, Alfredo Gargiulo.

Il punto di riferimento per i critici della prima metà del Novecento continua a essere Croce, sebbene non manchino studiosi che hanno seguito esperienze originali pur nel confronto con il grande filosofo. Tra questi si possono ricordare i nomi di Attilio Momigliano, Luigi Russo e Francesco Flora.

Centrale nel panorama della critica letteraria italiana di questo periodo è la figura di Giacomo Debenedetti. Conoscitore della cultura europea, ha avuto un rapporto complesso con la letteratura contemporanea. In particolare, è autore di sottili interpretazioni che tengono conto della singolarità dell'opera letteraria ed è riuscito a illuminare esperienze, come quella di Saba, che fuggono a programmi poetici.[18]

Note

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  1. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2001, p. 856.
  2. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2001, pp. 856-857.
  3. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, La narrativa del Novecento, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, p. 2.
  4. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2001, p. 917.
  5. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2001, pp. 858-859.
  6. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2001, p. 972.
  7. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2001, p. 959.
  8. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, La narrativa del Novecento, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, p. 64.
  9. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2001, pp. 972-973.
  10. 10,0 10,1 Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2001, p. 974.
  11. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2001, p. 961.
  12. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2001, p. 962.
  13. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2001, p. 963.
  14. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2001, pp. 963-964.
  15. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2001, pp. 968-969.
  16. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2001, pp. 968-969.
  17. 17,0 17,1 Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2001, p. 970.
  18. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2001, p. 971.