Pietro Bembo (superiori)
Pietro Bembo ebbe un importante ruolo per quanto riguarda la questione della lingua. Regolò per primo in modo sicuro e coerente la lingua italiana fondandola sull'uso dei massimi scrittori toscani trecenteschi. Contribuì potentemente alla diffusione in Italia e all'estero del modello poetico petrarchista. Le sue idee furono inoltre decisive nella formazione musicale dello stile madrigale nel XVI secolo.
La vita
[modifica]Nasce a Venezia il 20 maggio 1470 dall'antica famiglia patrizia dei Bembo, da Bernardo e da Elena Morosini.[1]. Ancora bambino, segue il padre, senatore della Serenissima, a Firenze, dove impara ad apprezzare il toscano, che avrebbe preferito alla lingua della sua città natale per tutta la vita. Dal 1492 al 1494 studia il greco a Messina con il famoso ellenista Costantino Lascaris (1434-1501). Vi si reca con l'amico e condiscepolo Angelo Gabriele, e arrivarono a Messina il 4 maggio 1492. Resta per sempre memore del suo soggiorno siciliano, di cui gli rinnovano il ricordo la corrispondenza con letterati messinesi, fra i quali Francesco Maurolico (1494-1575) e la presenza del fedelissimo amico e segretario Cola Bruno (1480-1542)[2], che lo segue a Venezia e gli starà vicino per tutta la vita.[3] Ritornato a Venezia, collabora attivamente con Aldo Manuzio, inserendosi nel suo programma editoriale con la pubblicazione nel 1495 della grammatica greca di Lascaris (chiamata Erotemata) che egli e il suo compagno Angelo Gabriele avevano portato da Messina.[4] Il suo esordio letterario avviene con la pubblicazione del dialogo latino De Aetna ad Angelum Gabrielem liber (da Manuzio, Venezia, 1495), dove racconta del suo soggiorno siciliano e della sua ascensione sull'Etna.
Pietro Bembo si laurea all'Università di Padova e fa ulteriori studi (1497-1499) alla corte di Ferrara, che allora gli Este avevano trasformato in un importante centro letterario e musicale. Lì incontra Ludovico Ariosto e inizia ad elaborare Gli Asolani. I poeti che lo ispireranno sempre nella sua poesia saranno Boccaccio e Petrarca. Amava far accompagnare le sue opere poetiche da fanciulle che suonavano il liuto, e in un'occasione ebbe l'onore di avere Isabella d'Este come accompagnamento, a cui poi regalò una copia de Gli Asolani.
Torna a Ferrara nel 1502, dove conosce Lucrezia Borgia, all'epoca moglie di Alfonso d'Este, con la quale ha una relazione. In quel periodo Ferrara era in guerra con Venezia per il controllo del Polesine, di Rovigo e del mercato del sale ("guerra del sale"). Bembo fugge nel 1505 quando la peste decima la popolazione della città. Fra 1506 e 1512 vive a Urbino, e qui inizia a scrivere una delle sue opere maggiori, le Prose della volgar lingua (pubblicata solo nel 1525), e il suo lavoro assurge ai livelli più alti della sua carriera di umanista. Nel 1513 segue a Roma Giulio de' Medici, futuro papa Clemente VII. A Roma papa Leone X lo vuole suo segretario e in tale veste protegge molti letterati ed eruditi presenti nella capitale, fra cui Christophe de Longueil. Risale a quegli anni una discussione con Giovan Francesco Pico sul problema dell'imitazione dei classici. È amico di Latino Giovenale Manetti e di Bernardo Cappello, che lo riconosce esplicitamente come suo maestro ed è considerato il suo discepolo più importante[5].
Dopo la morte del pontefice nel 1521, si trasferisce a Padova, dove abita la sua amante Faustina Morosina della Torre, dalla quale avrà anche un figlio. Durante il suo soggiorno a Padova pubblica a Venezia le Prose della volgar lingua, nel 1525. Nel 1529 ritorna a Venezia dove ricopre l'incarico di storiografo della Repubblica di Venezia e bibliotecario della Biblioteca Marciana. Nel 1539 papa Paolo III lo crea cardinale diacono con titolo di San Ciriaco in thermis. Torna quindi a Roma, dove, sempre nel 1539 è ordinato sacerdote.[6] Rinuncia agli studi di letteratura classica, dedicandosi alla teologia e alla storia classica. Nei quattro anni successivi è eletto vescovo di Gubbio prima e di Bergamo poi. Muore a Roma, all'età di 76 anni, il 18 gennaio 1547.
Le opere in latino e in volgare
[modifica]Da scrittore, Bembo è uno dei più eminenti rappresentanti dei ciceroniani, gruppo che si prefiggeva la restaurazione di uno stile ispirato alla classicità romana, contrassegnato dall'imitazione dei due modelli principali della lingua latina (trasportati anche in quella volgare): Cicerone per la prosa e Virgilio per la poesia.[7] Fu anche l'iniziatore del Petrarchismo, proponendo lo stile del poeta come esempio di purezza lirica e come modello assoluto. Su questa indicazione la poesia dell'epoca prenderà esempi e imitazione dalle rime petrarchesche.
Tra i suoi scritti in latino spiccano soprattutto il De Aetna ad Angelum Gabrielem liber (da Aldo Manuzio, Venezia 1495, in cui utilizza il nuovo carattere Bembo), le Epistolae (Leonis X. nomine scriptae, 16 volumi, Venezia 1535; Familiares, 6 volumi), i Rerum veneticarum libri XII (Storia della Repubblica Veneta dal 1487 al 1513, Venezia 1551), l'Historia veneta scritta dal 1487 al 1513; pubblicata nel 1551, poi tradotta dallo stesso in italiano (Istoria Viniziana), i Carmina (Venezia 1533), dove si pone nella tradizione del dolce stilnovo e di Petrarca.
Tra i suoi più importanti scritti in volgare ci sono Gli Asolani, discorsi filosofici sull'amore platonico, stampati sempre da Aldo Manuzio (Venezia 1505) e dedicati a Lucrezia Borgia. Tuttavia, la forma volgare che più interessa Bembo è la lirica: nelle Rime, scritte durante tutta la sua vita ma pubblicate solo nel 1530, imita la lirica di Petrarca in modo attento ed equilibrato, alla ricerca di uno splendore formale rispetto al quale i contenuti sono secondari e inessenziali.[8]
Nel 1501 Bembo curò l'edizione del Canzoniere di Petrarca e nel 1502 quella delle Terze Rime (Divina Commedia) di Dante, in stretta collaborazione con l'editore Aldo Manuzio. Per la prima volta due autori in lingua volgare divennero oggetto di studi filologici, fino ad allora riservati esclusivamente ai classici antichi. Entrambe le edizioni costituiscono le basi di tutte le edizioni successive per almeno tre secoli.
Le Prose della volgar lingua
[modifica]Per leggere su Wikisource il testo originale, vedi Prose della volgar lingua
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Offerte in forma di manoscritto a papa Clemente VII nel 1524 e pubblicate l'anno seguente a Venezia, le Prose nelle quali si ragiona della volgar lingua sono il documento più autorevole della discussione sulla lingua cinquecentesca ed ebbero un'influenza decisiva sullo sviluppo della lingua italiana. L'opera è un dialogo in tre libri tra Carlo Bembo (fratello dell'autore), Giuliano de' Medici, Federico Fregoso e Ercole Strozzi. La discussione verte sulla lingua «perfetta» che deve essere utilizzata in poesia e in prosa, e la questione viene analizzata da diversi punti di vista.
Nel primo libro viene ripercorsa la storia del volgare e si afferma la superiorità del fiorentino degli autori del Trecento, ma viene escluso Dante, in quanto utilizza una lingua con troppi elementi umili e compositi. Nel secondo libro si discute di stile, della scelta delle parole, della loro disposizione, del ritmo della prosa. Nel terzo libro si parla invece della grammatica del volgare, ripresa dai modelli trecenteschi di Petrarca, che diventa modello per le opere in versi, e Boccaccio, per i testi in prosa.[9] Il modello linguistico scelto ha il vantaggio, secondo Bembo, si sottrarre le opere letterarie sia alla realtà del mondo quotidiano, sia alla minaccia del tempo, conferendo ai testi stabilità.[10]
Il modello bembiano permetteva di superare lo sperimentalismo linguistico e le varie koiné regionali in favore di una lingua che avesse un'estensione nazionale. La sua teoria rispondeva alle esigenze sorte nel Quattrocento con il ritorno al volgare e la riscoperta della letteratura duecentesca e trecentesca, oltre alla necessità di avere una lingua letteraria illustre che superasse la frammentazione linguistica, conseguenza del frazionamento politico.[9] La soluzione di Bembo, d'altra parte, è espressione della volontà di avere uno strumento utile per una letteratura aristocratica, elevata e immobile, lontana dal parlato del popolo, che è di per sé mutevole). Da questo deriva la contrarietà agli ibridismi, agli sperimentalismi e a tutto quello che poteva minare la stabilità della lingua.[11]
Le tesi di Bembo ebbero degli oppositori, ma si affermarono ben presto e conobbero la consacrazione quando Ludovico Ariosto pubblicò la sua terza edizione dell'Orlando furioso, dopo avere riveduto il poema alla luce dei canoni bembiani.
Note
[modifica]- ↑ R. Rosada, Per l'identificazione della madre di Pietro Bembo, in "Quaderni veneti", n.15 (1992)
- ↑ V. Cian, Un medaglione del Rinascimento: Cola Bruno Messinese e le sue relazioni con Pietro Bembo (1480-1542), con appendice di documenti inediti. - In Firenze: G. C. Sansoni Editore, 1901: (tip. G. Carnesecchi e Figli)
- ↑ V. G. Santangelo, p. 255.
- ↑ V. G. Crupi, p. 226
- ↑ Cappello, Rime (in francese)
- ↑ Paolo III aveva creato Pietro cardinale diacono in pectore nel dicembre 1538, senza peraltro rendere pubblica la nomina, cosa che avvenne quasi un anno più tardi, quando il Bembo era stato ordinato sacerdote e poté così ottenere un titolo presbiterale e non una diaconia.
- ↑ Giuseppe Petronio, L'attività letteraria in Italia, Palurmo, Palermo, 1970, p. 263.
- ↑ Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Einaudi, Torino, 2001, p. 305.
- ↑ 9,0 9,1 Giuseppe Petronio, L'attività letteraria in Italia, Firenze, Palumbo, 1970, p. 263.
- ↑ Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Einaudi, Torino, 2001, p. 304-5.
- ↑ Giuseppe Petronio, L'attività letteraria in Italia, Firenze, Palumbo, 1970, p. 264.
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