Operette Morali (superiori)
Le Operette morali sono prose di argomento filosofico. Non rivelano però una filosofia soltanto speculativa, teoretica, ma hanno un fine pratico.
Genesi
[modifica]La genesi del testo può essere rintracciata in una nota dello Zibaldone del 29 luglio 1821, in cui Leopardi si prefigge di scuotere le sorti della sua "povera patria e secolo" con le armi dell' "affetto e dell'entusiasmo e dell'eloquenza e dell'immaginazione" in poesia e quelle " della ragione, della logica, della filosofia" nei trattati e, infine, quelle del ridicolo nei dialoghi e nelle "novelle lucianee" a cui stava lavorando. Nel 1824, di ritorno da Roma dopo la prima sortita da Recanati, Leopardi si dedica all'attuazione di quest'ultimo punto; compare infatti in questo periodo il gruppo più folto delle Operette morali, pubblicate nel 1827, che vedrà aggiunte posteriori: nel '25 compare il Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco, nel '27 il Copernico e il Dialogo di Plotino e di Porfirio, infine nel '32 il Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere e il Dialogo di Tristano e di un amico. Alle Operette può essere aggiunta anche un'epistola in versi, Al conte Carlo Pepoli (1826), raccolta nei Canti, in cui il poeta investiga il suo stato di aridità e dichiara di volersi dedicare all'indagine dell' "acerbo vero".
Intento e strumenti espressivi
[modifica]Alla base della scrittura vi è dunque l'impegno morale e civile che pervade anche le precedenti Canzoni, sebbene con strumenti e linguaggi diversi, impegno riflesso nell'aggettivo "morali". Il diminutivo operette, poi, indica non solo la ridotta lunghezza di questi testi, ma anche la loro impostazione lontana dalla dotta serietà del trattato filosofico. Il tono usato è più lieve, fa leva sul "ridicolo", sul comico, sull'ironia, senza però pregiudicare la serietà degli intenti. Il diminutivo del titolo va, insomma, letto in chiave ironico-antifrastica: non si tratta di facezie, ma di scritti dal profondo peso intellettuale, dove il comico non sminuisce affatto la serietà del pensiero. Le armi del ridicolo, infatti, servono a fini seri (sferzare costumi, idee correnti, stereotipi dell'epoca), ciò che fa rientrare l'opera in un genere già esistente nell'antichità, il serio-comico (spoudoghélaion in greco). Molte operette, poi, sono strutturate in forma di dialogo avente per protagonisti creature fantastiche personificazioni, personaggi mitici o favolosi, personaggi storici oppure personaggi storici mescolati con esseri bizzarri o fantastici. In alcune operette dialogiche, poi, l'interlocutore principale è proiezione dell'autore stesso. Altre poi sono svolte in forma narrativa, altre ancora utilizzano una prosa lirica.
I temi del pessimismo
[modifica]La varietà della fantasia leopardiana, che spazia tra miti, allegorie, paradossi, apologhi, narrazioni aforistiche e veri e propri canti lirici in prosa (cui si aggiunge un testo in versi, il coro dei morti che apre il Dialogo di Federico Ruysch e le sue mummie). Questa invenzione non ha nulla di bonariamente sofisticato, nulla di distesamente umoristico. Ogni invenzione, anche le più irrealistiche, si concentra intorno ai temi fondamentali del pessimismo leopardiano: l'infelicità inevitabile dell'uomo, l'impossibilità del piacere, la noia, il dolore, i mali che affliggono l'umanità. Ciononostante, la lettura non è oppressa dalla cupezza, dalla tetraggine ossessiva e opprimente: lo sguardo lucido e fermo, l'attitudine ironica e distaccata con cui Leopardi contempla il "vero" dissipano una simile cappa. Quest'atteggiamento contemplativo si risolve in una prosa d'arte di straordinario pregio, talora gelida, ma anche ravvivata da vibrazioni più intense.
Analisi di alcune Operette
[modifica]Per il testo completo delle Operette, vedere qui. Di seguito forniremo l'analisi delle più studiate.
Storia del genere umano
[modifica]La Storia del genere umano, scritta all'inizio del 1824, è il primo testo in ordine di composizione.
Posta in apertura del libro, svolge una funzione proemiale. In forma di racconto favoloso, vi si svolgono i temi principali della meditazione leopardiana di questo periodo. Si nota come il pessimismo non sia ancora cosmico e strettamente materialistico, ma storico (gli antichi più felici dei moderni) e psicologico-esistenziale in un'accezione sensistica: la causa dell'infelicità è infatti l'impossibilità di raggiungere un piacere perpetuo e illimitato, perché ogni godimento è effimero e genera un senso d'inerzia e nullità di tutte le cose.
Leopardi esplica le sue tesi nel racconto, in cui nelle età primitive e antiche l'uomo poteva supplire alla mancanza di piacere con le illusioni e l'immaginazione, che fanno vedere il mondo infinitamente bello e vario, grazie agli aspetti che suscitano l'illusione dell'infinito. Tuttavia, arriva poi la scoperta del vero, che annichilisce ogni immaginazione e genera noia. Qui va individuata la causa della decadenza storica dell'umanità: la cognizione del vero cancella le illusioni antiche e rende gli uomini meschini, egoisti, incapaci di grandi azioni e di sublimi passioni; ciò ha conseguenze ovviamente negative sul piano morale e civile. Diviene così evidente la contrapposizione antichi-moderni che informa il pessimismo storico leopardiano.
Questa storicità dell'infelicità umana risalta comunque da uno sfondo di infelicità universale, fuori dal tempo e necessaria, congenita all'uomo stesso, impossibilitato a raggiungere il piacere a cui tende. Anche la felicità degli antichi è solo relativa: le illusioni fungono semplicemente da velo che nasconde una condizione di oggettiva infelicità. Dietro il pessimismo comico c'è già quindi un pessimismo assoluto.
In questa operetta emerge, infine, la concezione ancora provvidenziale della natura. I mali fisici, infatti, rientrano nel suo piano benefico (qui reso con i provvedimenti di Giove), per far risaltare per contrasto il pregio dei beni, per scongiurare un sentimento di sazietà e per distogliere gli uomini dalla noia spingendoli all'azione. La natura diverrà nemica e persecutrice solo più tardi, nel Dialogo della Natura e di un Islandese.
Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare
[modifica]L'operetta tocca temi fondamentali nel pensiero e nell'opera di Leopardi:
- L'amore, con la conseguente idealizzazione della donna.
L'amore, come teorizzato ampiamente nella Storia del genere umano, è l'illusione più resistente all'azione distruttiva del "vero". Esso ha perciò la facoltà di far rivivere anche nell'uomo maturo, che conosce la crudeltà della vita, la condizione giovanile del fiorire delle illusioni. Il motivo della donna idealizzata dissolta impietosamente dalla presenza della donna reale offre lo spunto per una riflessione sulla dolcezza dell'immaginare, inevitabilmente corrotta dalla conoscenza del vero. Di qui si passa al motivo del sogno, funzionalmente analogo all'immaginazione nel creare mondi fittizi alternativi a una realtà dominata dall'infelicità. La felicità, non raggiungibile nella veglia, è sperimentabile dormendo (motivo toccato anche nel Cantico del gallo silvestre).
- Il piacere, identificato sensisticamente con la felicità.
Qui il poeta riprende la teoria enunciata nello Zibaldone nel 1820: il piacere vero è irraggiungibile nel presente, perché proiettato o nel futuro (la speranza di godere) o nel passato (la falsa convinzione di aver goduto in passato). Tasso-Leopardi deduce, con logica implacabile, che se il fine della vita è il piacere, cioè nulla, la vita è uno stato imperfetto e violento. Perché, dunque, si vive? Tale interrogativo, che anche il pastore del Canto notturno si pone, resterà insoluto; la soluzione più razionale sarebbe il suicidio, ma Leopardi, come testimoniato nel Dialogo di Plotino e di Porfirio, lo rifiuta in nome della solidarietà umana. Dandosi la morte, infatti, si causerebbe la sofferenza delle persone care.
- La noia e la solitudine.
Tasso dà una definizione "scientifica" della noia: come l'aria occupa tutti gli interstizi tra i corpi, così la noia s'insedia in tutti gli intervalli della vita tra piaceri e dolori. Essendo i piaceri vani, la vita oscilla perpetuamente tra dolore e noia. Tasso, prigioniero in una squallida cella, vede la propria noia alimentata dalla solitudine. Il Genio, però, ne fornisce un aspetto positivo: essere distanti dal mondo degli uomini insegna il distacco dalle cose, e la lontananza le fa apparire più belle di quanto non siano in realtà. La solitudine viene a svolgere la stessa funzione dell'immaginazione, e in un certo modo riporta l'uomo alla gioventù. Tornando al tema iniziale, l'operetta si chiude in una forma circolare. Tuttavia, la conclusione del ragionamento del Genio è sconsolante: la vita di Tasso andrà sprecata tra sogno e fantasticheria, essendo questo l'unico utile che l'uomo ne può ricavare. L'esistenza umana è di una vanità irrimediabile. La chiusura è però in calando: la notazione finale, in tono amaro e insieme scherzoso, sul conforto che può procurare qualche "liquore generoso".
Dialogo della Natura e di un Islandese
[modifica]Scritta fra il 21 e il 30 maggio 1824, fu probabilmente ispirata dalla Storia di Jenni di Voltaire, nella quale all'interno di un discorso sui flagelli che tormentano l'umanità si parla delle terribili condizioni degli Islandesi, minacciati da venti, ghiacci e vulcani.
Questo testo è espressione della fondamentale svolta del pensiero leopardiano: il passaggio da un pessimismo legato all'impossibilità di raggiungere il piacere (e dunque sensistico-esistenziale) a un pessimismo radicalmente materialistico e cosmico; dall'idea di una natura benefica e provvidente a quella di una natura bieca e persecutrice. L'infelicità dipende dunque, materialisticamente, dai mali esterni, fisici, che l'uomo non può fuggire. L'Islandese, portavoce di Leopardi, ne fa un minuzioso elenco che assume toni ossessivi e terribili: i climi avversi, le tempeste, i cataclismi, le bestie feroci, le malattie, la decadenza fisica, la vecchiaia. Gli ultimi due mali sono i più terribili, in quanto non risparmiano nessuno. Di qui l'idea della natura "matrigna". Già tempo prima, nello Zibaldone, Leopardi metteva in dubbio che la natura avesse come fine il bene del singolo. In quest'operetta si concretizza una scoperta folgorante, traumatica. Egli approda quindi a un materialismo assoluto e a un pessimismo cosmico, slegato dal tempo e dalle circostanze. Il dolore, la distruzione e la morte non sono errori accidentali nell'imperscrutabile piano della natura; anzi, sono elementi fondamentali per mantenerne l'ordine. Il mondo è un ciclo continuo di "produzione e distruzione", e la distruzione è indispensabile alla sopravvivenza del mondo quanto la produzione (animali e piante, ad esempio, vengono uccisi per fungere da nutrimento per altri esseri). Nella conclusione, infatti, l'Islandese si trasforma nel cibo che permette a due leoni stremati di sopravvivere. È il dolore la legge dell'universo, e nessun essere ne è immune, in nessun luogo e in nessun tempo. Si giunge così di nuovo a interrogarsi sul senso della vita stessa, e di nuovo l'interrogativo resta irrisolto.
In realtà, l'opinione dell'Islandese sulla natura e quella della Natura su se stessa non coincidono. Per l'Islandese, infatti, essa è un'entità malvagia che perseguita intenzionalmente le proprie creature; la Natura, invece, obietta che il male che compie non è intenzionale, ma solo la conseguenza dell'obbedienza a leggi oggettive. Si vedono qui due atteggiamenti diversi dello scrittore: quello filosofico-scientifico, che considera la natura non più che un cieco meccanismo, e quello poetico, che la ritrae come una sorta di divinità maligna. Tale visione informerà poi, tra le altre cose, la lirica A se stesso.
Lo stile di quest'operetta, poi, è differente da quello delle precedenti. Manca l'atteggiamento distaccato e contemplativo del saggio: vi si sostituisce un'incalzante e appassionata requisitoria, anticipazione del clima degli idilli pisano-recanatesi.
Cantico del gallo silvestre
[modifica]È l'ultima delle venti operette scritte nel '24 e ne costituisce l'ideale epilogo. L'operetta è costruita sulla consolidata finzione letteraria del manoscritto ritrovato tra carte antiche, in questo caso costituito da un testo tracciato su pergamena con lettere ebraiche e altre lingue curiosamente combinate.
Antichi racconti ebraici tramandano che sulla terra vive un gallo selvatico di dimensioni gigantesche, che con la cresta arriva a toccare il cielo. Dispone dell'uso della ragione e ha imparato a parlare. Ogni giorno, o forse solo in rare occasioni, rivolge il suo cantico agli uomini per scuoterli dal sonno e spingerli a sobbarcarsi il peso doloroso della vita, essendo l'unico vero momento di riposo la quiete eterna della morte. Agli uomini viene ricordato che "l'ultima causa dell'essere non è la felicità" e la vita stessa è un morire lentamente, un ineluttabile avvicinarsi alla morte. L'ordine naturale tende al dissolvimento: e "tempo verrà" in cui tutto l'universo si dissolverà nel nulla, senza ragione, come non aveva ragione la sua esistenza.
Il testo riprende la prospettiva assunta nel Dialogo della Natura e di un Islandese. Non manca però la ripresa di temi legati a concetti espressi in altre operette: l'idea psicologico-esistenziale dell'infelicità come mancanza di piaceri, la contrapposizione tra sogno e verità, l'impossibilità di raggiungere una vera felicità, il sonno come rimedio momentaneo e la morte come rimedio definitivo al dolore, l'illusione che coincide col risveglio del mattino, paragonato al fiorire della giovinezza. A imporsi come tema centrale è però la morte. La morte è l'unico fine dell'essere delle cose, è l'intenzione principale della natura nei confronti delle sue creature, è la decadenza inarrestabile che avanza da ogni parte, accompagnando le creature per tutta la loro vita. La morte e la distruzione sono leggi universali.
Questa realtà, come avviene nel Dialogo della Natura e di un Islandese, è descritta da un osservatore straniato (il gallo, appunto), posto al di fuori del genere umano e delle sue illusioni, che può quindi osservare la condizione degli uomini da una prospettiva distaccata. Il voler investigare l'universo e i suoi travagli implica lucidità e distacco, che le illusioni non sempre permettono: non è dunque un uomo a riferire della condizione degli uomini, bensì una figura bizzarra e favolosa, il gallo silvestre.
Ciononostante, la prosa non è affatto lucida, raziocinante, puramente e distaccatamente contemplativa, come è proprio delle altre operette. Escludendo il preambolo, che ostenta gravità filologica al punto da risultare comico (ma che serve da raccordo col tono del resto del libro), si nota una prosa poetica, percorsa da una forte tensione lirica (è Leopardi stesso ad avvertirne nel preambolo) e semiapocalittica. Ne può essere un efficace sunto la conclusione:
«E nel modo che di grandissimi regni ed imperi umani, e loro maravigliosi moti, che furono famosissimi in altre età, non resta oggi segno né fama alcuna: parimente del mondo intero, e delle infinite vicende e calamità delle cose create, non rimarrà pure un vestigio; ma un silenzio nudo, e una quiete altissima, empieranno lo spazio immenso. Così questo arcano mirabile e spaventoso dell'esistenza universale, innanzi di essere dichiarato né inteso, si dileguerà e perderassi.» |
Riguardo a quest'ultimo punto, Leopardi si preoccupa di avvertire con una nota al testo che si tratta di conclusione poetica e non filosofica, perché filosoficamente parlando l'esistenza, che non è mai cominciata, non avrà mai fine.
Dialogo di Plotino e di Porfirio
[modifica]L'operetta fu composta nel 1827, ma pubblicata solo nell'edizione postuma curata da Ranieri. Qui Plotino, avendo intuito che il diletto allievo Porfirio medita il suicidio, lo invita a confidarsi con lui.
Era inevitabile che la meditazione leopardiana, impregnata di pessimismo, confluisse nella riflessione sul problema del suicidio. Altrettanto ovvio sarebbe aspettarsi che il poeta ne sia un acceso sostenitore, ma questa operetta rivela una posizione a riguardo assai più problematica. I due interlocutori, i filosofi Plotino e Porfirio, sono entrambi portavoce di istanze compresenti e contrapposte nel poeta. Il dialogo fra di loro, perciò, è più un dissidio nell'anima dello scrittore.
Porfirio rappresenta l'istanza favorevole al suicidio come unico rimedio all'infelicità umana. Le sue battute riprendono tutti i temi del pessimismo leopardiano (la vanità delle cose, la noia che ne consegue, la natura nemica, il predominio dell'ingiustizia, l'impossibilità di godere, la ragione che ha allontanato l'uomo dalla natura causando sofferenza, la morte come medicina di tutti i mali). La polemica contro la teoria platonica dei premi e delle pene nell'aldilà rivela poi la polemica contro la religione, che secondo lo scrittore produce effetti nefasti (infatti Porfirio, alla fine della requisitoria, nega che tale teoria sia stata effettivamente formulata da Platone).
L'ultima parola spetta però all'altro interlocutore, Plotino. Alle argomentazioni logiche di Porfirio, Plotino risponde con argomentazioni che si collocano su un piano emotivo. Il motivo principale che adduce per non darsi la morte, infatti, è il dolore che si causerebbe alle persone care. La filosofia di Leopardi, per quanto disperata, non conduceva affatto all'odio o al disprezzo dell'uomo (come da lui stesso sottolineato), ma al contrario alla pietà per la creatura eternamente infelice. Questo atteggiamento di pietà si manifesta pienamente nel finale dell'operetta; questo atteggiamento di pietà verso i propri simili genera il bisogno di solidarietà nella miseria del vivere quotidiano. Quest'attitudine apre la strada all'ultima stagione della poesia leopardiana, che culminerà nella Ginestra.
Dialogo di Tristano e di un amico
[modifica]L'operetta fu scritta nel 1832 e pubblicata nel 1834, in chiusura di volume.
È impostata sul procedimento ironico che poi sarà della Palinodia. Tristano, proiezione di Leopardi, finge ironicamente di ritrattare le proprie concezioni pessimistiche e disilluse sulla condizione umana e di accettare le opinioni ottimistiche del suo secolo. Tuttavia, l'atteggiamento ironico è tenuto senza continuità: in alcune parti lo scrittore lo abbandona per una polemica più scoperta. Questa polemica è diretta contro il secolo decimonono, che Leopardi non sente come il suo tempo e le cui tendenze disprezza. È una polemica propria di molte opere di questo periodo, in particolare nella Ginestra. Qui lo scrittore si scaglia contro la decadenza non solo morale e intellettuale ma anche fisica dei moderni rispetto agli antichi, presso i quali l'educazione non mortificava il corpo (anche se cosmicamente pessimista, Leopardi conserva una certa ammirazione per l'antichità). Altri bersagli sono l'abbassamento generale del livello di cultura (nonostante la più vasta diffusione della cultura, gli autentici dotti restano rarità), la mediocrità imperante che soffoca i tentativi di emergere delle anime nobili e la fede nel progresso dei "lumi" verso un radioso futuro per l'umanità. Più in generale, la polemica colpisce la viltà degli uomini, che vogliono convincersi che la vita sia bella e desiderabile, senza voler ammettere di non sapere nulla, non potere nulla, non essere nulla.
A questa vigliaccheria generale Leopardi oppone orgogliosamente la propria diversità, il proprio coraggio di scrutare il "deserto della vita", di accettare le conseguenze di una filosofia disperata ma vera, di strappare il velo illusorio che nasconde la "misteriosa crudeltà del destino umano". Non c'è, tuttavia, un atteggiamento di rassegnazione. Anzi, l'atteggiamento dello scrittore è eroico e agonistico, caratterizzante della sua ultima fase. L'operetta si stacca nettamente dal gruppo di quelle composte nel '24: non c'è più l'atteggiamento imperturbabile del saggio lucidamente contemplante. Tuttavia, nell'ultima pagina Leopardi concentra il discorso su se stesso, sulla propria assoluta infelicità. L'operetta si chiude con un'invocazione alla morte come liberazione, che presenta però una dolcezza e una pacatezza nuove, immersa nella serenità distaccata della redazione di un testamento. È un motivo che si ritroverà in Amore e Morte.