Ninfale fiesolano
Il Ninfale fiesolano è un poemetto di Giovanni Boccaccio con il quale ha termine la sua produzione prima del Decamerone.
Il poema, che è composto da circa cinquecento ottave di endecasillabi, ci è stato tramandato anonimo e in seguito attribuito al Boccaccio da un unico manoscritto, degli oltre cinquanta che riportano il testo, risalente al 1414. La data alla quale far risalire la stesura dell'opera è incerta e il parere dei critici è contrastante. C'è chi, come Armando Balduino,[1] colloca l'opera tra quelle della maturità dello scrittore e ritiene che l'opera sia da far risalire agli anni tra il 1344 e il 1346, mentre c'è chi, come Pier Giorgio Ricci[2] è più propenso a ritenerla un'opera del periodo giovanile viste le imprecisioni di carattere mitologico che contiene l'opera.
Struttura dell'opera
[modifica]La struttura dell'opera non è ben definita. In alcuni codici si trovano delle rubriche che hanno didascalie parzialmente in rima senza dedica e con un proemio composto da sole quattro ottave dove l'autore dichiara che ad ispirargli le parole del canto è l'Amore e che lo stile gli è dettato dalla donna che ama.
Dopo il breve proemio introduttivo inizia il racconto che si svolge a Fiesole al tempo degli dei "bugiardi e viziosi"[3]quando a regnare sulle ninfe era Diana.
Trama
[modifica]Un giorno, un giovane pastore di nome Africo assiste non visto ad una riunione delle ninfe e si innamora della bella e giovanissima Mensola:
«Avea la ninfa forse quindici anni:/ biondi com'oro e grandi i suoi capelli, / e di candido lin portava i panni, / du' occhi in testa rilucenti e belli, / che chi li vede non sente mai affanni;/ con angelico riso ed atti isnelli..."op. cit. ottava 30[4]» |
Nei giorni che seguono Africo, dopo aver inutilmente domandato alle ninfe della fanciulla, decide di cercarla e alla fine la trova ma Mensola, alla vista del giovane, fugge. Fatto ritorno a casa il pastore si chiude sconsolato nella sua stanza dove rimane per diversi giorni distruggendosi dalla disperazione e preoccupando gli amorevoli genitori, Alimena e Gitafone.
Venere, invocata da Africo, gli appare in sonno e rassicurandolo gli suggerisce di travestirsi da donna per poter così avvicinarsi alle ninfe.
Indossato un abito della madre, il giovane pastore si addentra nel bosco e incontra Mensola con le compagne. Non viene riconosciuto e, aggregatosi al gruppo, caccia un cinghiale e dopo averlo ucciso ne mangia la carne ricevendo i complimenti di Mensola.
Quando poi le ninfe decidono di bagnarsi in un limpido lago, Africo, costretto a dire la sua identità, prende Mensola e la possiede. La ninfa tenta quindi il suicidio ma Africo riesce ad impedirne il gesto e la giovane gli sviene tra le braccia. Riavutasi, viene consolata amorevolmente dal pastore tanto che, presa anche lei d'amore, gli cede completamente e concepisce un figlio.
Ma in seguito Mensola si pente del suo gesto perché capisce di aver violato le leggi di Diana e da quel momento si rifiuta di incontrare Africo che, disperato di non poter più rivedere la sua amata, si getta in un fiume e il suo corpo verrà ritrovato da Girafone.
Intanto Mensola si accorge di essere rimasta gravida e cerca inutilmente di avvisare Africo. La giovane partorisce un bambino e Diana, scoperto lo sbaglio, la tramuta in un fiume che prenderà il suo nome e, dopo aver affidato il bambino chiamato Pruneo ai genitori di Africo, si allontana da quei luoghi con le altre ninfe.
Il poema ha la sua conclusione con la narrazione del mito che fa risalire la nascita di Fiesole ad Atlante. Pruneo intanto è diventato grande e viene accolto alla corte di Atlante che lo nomina siniscalco e all'età di venticinque anni lo sposa con una nobildonna, Tironea, facendogli dono del territorio compreso tra il fiume Mensola e Mugnone.
Pareri della critica
[modifica]Secondo Carlo Salinari[5] "Lo schema dell'arioso poemetto sembra rifarsi alle favole etiologiche, assai diffuse sulle orme delle Metamorfosi di Ovidio...ma la materia dell'idillio non è ovidiana, come potrebbe far pensare la metamorfosi della ninfa, perché il suo mondo è quello della realtà, interpretato con un gusto fresco e con schietta aderenza, attraverso un linguaggio che, superando le tendenze auliche, esprime, nei modi della poesia popolaresca, i temi della passione, del pudore e del rimorso, accanto a quelli nuovi per il Boccaccio, degli affetti familiari "
Il Ninfale fiesolano viene considerato da Mario Marti,[6], insieme all'Elegia di Madonna Fiammetta, "il testo d'inizio dell'umanesimo ideologico di Boccaccio, in cui la mitologia cede il posto a una vicenda decisamente umana".
Note
[modifica]- ↑ Armando Balduino, Premessa ad una storia della poesia trecentesca, in Boccaccio, Petrarca e altri poeti del Trecento, Firenze, Olschki, 1984
- ↑ Pier Giorgio Ricci, Giovanni Boccaccio, Opere in versi, Ricciardi, Milano-Napoli, 1965
- ↑ Giovanni Boccaccio, Ninfale fiesolano, a cura di Armando Balduino, in Tutte le Opere, a cura di Vittore Branca, vol.III, Mondadori, 1974, ottava 6
- ↑ op. cit., ottava 30
- ↑ C.Salinari C. Ricci, Storia della letteratura italiana Laterza, Roma-Bari, 1991, pag. 613
- ↑ Giovanni Boccaccio, Opere Minori in volgare, a cura di Mario Marti, Rizzoli, Milano, 1969-1972