Neorealismo (superiori)
La fine della seconda guerra mondiale, l'esperienza della Resistenza e la libertà ritrovata dopo il rovesciamento del regime fascista hanno fatto sì che in Italia, negli anni dell'immediato dopoguerra, si diffondesse un nuovo clima di fiducia nel futuro. A partire dagli anni trenta si è assistito in letteratura a una maggiore attenzione per la realtà popolare e a un ritorno ai modelli del realismo della seconda metà dell'Ottocento, che porteranno tra gli anni quaranta e cinquanta all'affermarsi del neorealismo. L'intellettuale perde la sua aura aristocratica e abbraccia l'impegno politico e sociale in favore del progresso. Tuttavia, come si vedrà, questa corrente mostrerà presto i suoi limiti, che hanno indotto molti scrittori a cercare nuove vie.
Caratteri generali
[modifica]Gli anni che seguono la fine della guerra in Italia sono caratterizzati dall'entusiasmo per il rovesciamento della dittatura e il ritorno alla libertà e per la fiducia nel rinnovamento del paese. Questo clima si riflette anche nella letteratura, attraverso l'insofferenza verso la produzione che aveva caratterizzato i decenni precedenti, e in particolare l'ermetismo e il decadentismo, di cui vengono stigmatizzati il culto della forma, la concezione aristocratica dell'arte, il lirismo evasivo. Viceversa, diventa sempre più forte l'idea che l'intellettuale abbia una responsbilità civile e sociale, e che il suo compito sia quello di prendere contatto con la realtà del paese, così da arrivare a conoscerne chiaramente i problemi e contribuire alla loro soluzione. Molti intellettuali scelsero quindi la via dell'impegno e si avvicinarono alla politica, militando attivamente nei partiti della sinistra.[1] In questo contesto ha un ruolo centrale la riflessione di Antonio Gramsci, di cui nel dopoguerra vengono pubblicati i Quaderni del carcere. Particolarmente influente sarà la proposta di una letteratura nazionalpopolare, che secondo il pensatore comunista deve annullare la distanza che tradizionalmente separa le classi subalterne dai letterati.[2]
Con il nome di "neorealismo" si suole quindi indicare questo orientamento, che non ha dato vita a una scuola o a un movimento organizzato, né si è limitato alla sola letteratura: risultati significativi si sono ottenuti in campo cinematografico, in film come Ossessione e La terra trema di Luchino Visconti, Ladri di biciclette di Vittorio De Sica, Roma città aperta di Roberto Rossellini (solo per citare alcuni titoli tra i più famosi). In ambito letterario si assite a un ritorno ai modelli del realismo ottocentesco, che erano stati abbandonati durante la stagione del decadentismo, e in particolare alla lezione di Verga e Zola. I primi esempi di letteratura realistica si erano d'altra parte già avuti negli anni trenta: si pensi a Gli indifferenti di Alberto Moravia, Fontamara di Ignazio Silone, Gente in Aspromonte di Corrado Alvaro. A questi modelli si affianca il mito della letteratura americana, che viene considerata schietta, essenziale, estranea agli artifici tipici del decadentismo europeo e capace di rappresentare direttamente la realtà. Inoltre, grazie alle traduzioni di Vittorini e Pavese si diffonde in Italia la conoscenza di autori come Hemingway, Dos Passos, Faulkner, Steinback e altri.[2]
Questa tensione verso la rappresentazione della realtà porta con sé determinate soluzioni espressive. Anzitutto, al rifiuto delle raffinatezze dell'estetismo corrisponde la scelta di utilizzare una lingua antiletteraria, che riprenda le caratteristiche del parlato. Tuttavia nessuno degli autori neorealisti farà uso direttamente del dialetto, ma si ricorrerà piuttosto a un italiano colorito da espressioni dialettali (utilizzando strutture sintettiche del dialetto, cercando di imitarne la cadenza e inserendo qualche termine dialettale). D'altra parte, il neorealismo presenta anche una serie di limiti: l'idealizzazione del popolo in quanto portatore di una forza primigenia incontaminata, la divisione elementare tra bene e male (per esempio: operai e contadini sono buoni, i padroni cattivi), l'incapacità di penetrare le contraddizioni della realtà, l'uso di tecniche narrative superate e inadatte a rendere il mondo contemporaneo e la sua complessità (come l'impiego di un narratore diegetico onnisciente).[2]
Va ricordato ancora una volta che i caratteri sin qui delineati sono frutto di un'astrazione, che il neorealismo fu un movimento molto variegato e che molti autori, pur partendo da esso, con gli anni se ne sono distanziati e hanno preso strade differenti. I più rappresentativi di questo periodo sono considerati Elio Vittorini, Cesare Pavese, Alberto Moravia e Beppe Fenoglio, per i quali tuttavia il neorealismo ha costituito un orizzonte di contenuti rimasto sullo sfondo alla loro attività.[3] Vittorini è infatti più orientato verso un lirismo allegorizzante, mentre Pavese si concentra sull'irrazionale e si dedica a una narrazione più simbolica. Moravia si sofferma sulla crisi della coscienza borghese e a partire dalla Noia (1960) prenderà un indirizzo totalmente diverso. Dietro al realismo di Fenoglio si cela un'esplorazione della questione esistenziale. Italo Calvino e Leonardo Sciascia, pur partendo dal neorealismo, proseguiranno prendendo altri indirizzi. L'etichetta di neorealista risulta poi troppo stretta per l'opera di Pier Paolo Pasolini, il quale scriverà delle borgate romane non per amore di realismo ma perché attratto dalla vitalità del sottoproletariato, e insisterà sullo sperimentalismo e il plurilinguismo. Nel dopoguerra prosegue anche l'attività letteraria di Carlo Emilio Gadda, che pur ricorrendo al pastiche e al dialetto rimarrà estraneo al neorealismo.[4]
La memorialistica
[modifica]Il filone memorialistico rappresenta la più spontanea e immediata manifestazione del neorealismo. Come scrive Calvino nella prefazione al Sentiero dei nidi di ragno:
«L'essere usciti da un'esperienza – guerra, guerra civile – che non aveva risparmiato nessuno, stabiliva un'immediatezza di comunicazione tra lo scrittore e il suo pubblico: si era faccia a faccia, alla pari, carichi di storie da raccontare, ognuno aveva la sua, ognuno aveva vissuto vite irregolari drammatiche avventurose, ci si strappava le parole di bocca.[5]» |
Moltissime opere nascono infatti dalla necessità di raccontare e documentare queste esperienze vissute in prima persona. Il filosofo Pietro Chiodi (Córteno, 2 luglio 1915 – Torino, 22 settembre 1970), per esempio, in Banditi (1946) racconta della guerra partigiana in Piemonte, mentre Sergio Antonielli (Roma, 31 agosto 1920 – Monza, 8 luglio 1982) in Campo 29 (1949) ripercorre la sua prigionia in India. Si possono poi ricordare le opere di Nuto Revelli (Cuneo, 21 luglio 1919 – Cuneo, 5 febbraio 2004), dedicate alla campagna di Russia (Mai tardi, 1946) e alla condizione dei contadini (Il mondo dei vinti, 1977). Anche Mario Rigoni Stern (Asiago, 1º novembre 1921 – Asiago, 16 giugno 2008) narra della ritirata durante la campagna di Russia nel suo celebre Il sergente nella neve (1953), a cui seguirà una serie di racconti sugli alpini.[6] Il critico Giacomo Debenedetti (Biella, 25 giugno 1901 – Roma, 20 gennaio 1967), invece, in 16 ottobre 1943 (1945) rievoca il rastrellamento del ghetto ebraico di Roma a opera dei tedeschi.
Carlo Levi
[modifica]Per approfondire su Wikipedia, vedi le voci Carlo Levi e Cristo si è fermato a Eboli. |
Agli anni quaranta risale la stesura di Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi (Torino, 29 novembre 1902 – Roma, 4 gennaio 1975), una delle opere più incisive di questa stagione letteraria.
Nato in una famiglia ebraica, laureato in medicina e legato al gruppo torinese Giustizia e Libertà (composto da intellettuali uniti nella lotta al fascismo), tra il 1935 e il 1936 Carlo Levi fu posto al confino in Lucania in quanto opporitore del regime, quindi fu costretto a emigrare in Francia. Entrato nel Partito d'Azione, partecipò alla Resistenza e, nascosto a Firenze, compose tra il 1943 e il 1944 il suo libro più celebre, che fu poi pubblicato nel 1945, ottenendo grande risonanza. Nella sua opera l'aspetto narrativo e memorialistico si intreccia con intenti sociologici e antropologici:[7] viene infatti evidenziata la distanza assoluta che separata il mondo contadino della Lucania, chiuso nelle sue tradizioni arcaiche, dal resto del mondo moderno, e descrive in modo partecipe le sofferenze e le miserie di quella realtà.[8]
La fortuna di Cristo si è fermato a Eboli è dovuta al fatto che rispondeva a un'esigenza nuova per la letteratura, quella di guardare alla realtà e ai problemi sociali veri; d'altra parte Levi, seppur guardando con l'occhio dell'intellettuale progressista di sinistra, dimostra di subire la fascinazione dell'elemento primitivo, irrazionale e magico, che viene mitizzato dall'autore (un atteggiamento simile alla suggestione di D'Annunzio per l'Abruzzo, visto come terra pastorale primitiva e ancestrale). A questo si aggiunge una visione populistica che contrappone il popolo contadino, portatore di tutti i valori, alla borghesia, gretta e opportunista.[7] In primo piano c'è sempre la figura dello scrittore-artista, che ha l'ambizione di porsi come guida delle masse, ma che al tempo stesso riconosce sedimentazioni ancestrali anche sul fondo del suo inconscio.[9]
Nel dopoguerra Carlo Levi si sarebbe poi dedicato alla pittura, all'attività giornalistica e alla politica. Tra il 1945 e il 1946 diresse L'Italia libera, quotidiano del Partito d'Azione, e pubblicò il volume satirico L'orologio (1950) e i libri di viaggio Le parole sono pietre (1955), Il futuro ha un cuore antico (1956),[8] La doppia notte dei Tigli (1959).
Primo Levi
[modifica]Per approfondire su Wikipedia, vedi la voce Primo Levi. |
Alla memorialistica è possibile ricollegare anche le opere di Primo Levi (Torino, 31 luglio 1919 – Torino, 11 aprile 1987) dedicate allo sterminio nazista. Nato in una famiglia ebraica piemontese, si laureò in chimica nel 1941 e subì le conseguenze dell'approvazione delle leggi razziali in Italia. Dopo essersi unito a un gruppo di partigiani operante in Valle d'Aosta, fu catturato alla fine del 1943. Fu deportato dapprima al campo di Fossoli, quindi, nel 1944, fu trasferito a Monowitz, parte del campo di concentramento di Auschwitz. Sopravvissuto alla prigionia, fu liberato all'arrivo dell'esercito sovietico nel 1945. Negli anni successivi iniziò la sua attività letteraria, per rispondere alla necessità di raccontare la sua drammatica esperienza. Lavorò inoltre alla fabbrica di vernici Siva di Torino, di cui poi divenne direttore. Lasciò il mestiere di chimico nel 1975 e si dedicò esclusivamente alla scrittura. Morì suicida nella sua città natale nel 1987.[10]
Se questo è un uomo, il primo e più importante romanzo di memorie scritto da Primo Levi, fu pubblicato da De Silva nel 1947 e poi ripreso da Einaudi nel 1956. Il ricordo della vita nel lager viene presentato nella forma del racconto-diario, in cui al tempo presente (tempo del diario) si affianca il passato (tempo della storia). Il libro è inoltre pervaso dalla volontà di capire e di mettere dei punti fermi in una realtà che sembra invece priva di razionalità. Il prigioniero tuttavia non cede all'assurdità, ma si sforza di mantenere sempre un barlume di ragione e di umanità.[11] Lo stile di Levi si caratterizza per una prosa lucida, sobria, priva di emotività o retorica, grazie alla quale riesce a fissare un quadro dell'orrore e della barbarie nazista. La chiarezza scientifica sarà poi una delle costanti nella produzione di Primo Levi. La sua esperienza letteraria è segnata dall'incontro tra due culture, quella umanistica e quella tecnico-scientifica: in tutti i suoi scritti conserva infatti la fiducia nella forza ordinatrice della ragione. A questo si aggiunge, in Se questo è un uomo, l'attenta analisi delle particolari condizioni che regolano la società umana all'interno del lager. Per tutti questi motivi, il romanzo di Levi finisce per staccarsi dal clima del neorealismo e affermarsi come un vero e proprio classico.[12]
Nel successivo La tregua (1963) si racconta della liberazione dal campo di concentramento e del viaggio per tornare a casa attraverso un'Europa disintegrata dalla guerra. Levi descrive un'umanità alla ricerca di una nuova volontà per vivere, in un miscuglio di popoli che dà al romanzo un tono picaresco, reso anche dalla gioia per la libertà ritrovata dopo la miseria più nera della guerra e del nazismo.[11] Tra le altre opere di Primo Levi si ricordano le raccolte di racconti Storie naturali (1967), Vizio di forma (1971), Il sistema periodico (1975), Lilìt e altri racconti (1981), e i romanzi La chiave a stella (1978), Se non ora, quando? (1982), I sommersi e i salvati (1986). Da non dimenticare poi le poesie di Ad ora incerta (1984) e gli scritti di L'altrui mestiere (1985).[13]
Vasco Pratolini
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L'opera di Vasco Pratolini (Firenze, 19 ottobre 1913 – Roma, 12 gennaio 1991) riunisce alcuni dei motivi più rappresentativi del neorealismo. Nato in una famiglia operaia, in gioventù compì studi irregolari, militò nel fascismo di sinistra e collaborò con la rivista Il Bargello, che riuniva gli intellettuali che chiedevano un ritorno alle radici rivoluzionarie del fascismo. In seguito alla guerra di Spagna e allo scoppio nella seconda guerra mondiale si convertì all'antifascismo, si trasferì a Roma e si unì alla lotta partigiana. All'inizio degli anni quaranta iniziò inoltre a scrivere prose autobiografiche, influenzate dall'ermetismo. Dal 1945 al 1951 visse a Napoli, insegnando all'Istituto statale d'arte, quindi tornò a Roma, dove rimase fino alla morte.[14][15]
Nei suoi romanzi, Pratolini parla del proletariato cittadino e del suo sistema di valori, in cui hanno un ruolo predominante le relazioni affettive, la solidarietà sociale, l'appartenza a una realtà comune ben definita. Si tratta però di un mondo lontano dal proletariato urbano che si delinea negli anni quaranta e cinquanta, legato ancora alle antiche tradizioni artigianali e comunali. L'ambiente principale delle sue opere è il quartiere fiorentino, il luogo in cui si sviluppano i rapporti tra i personaggi.[14]
Proprio Il quartiere (1944) è il titolo del primo suo libro di una certa importanza, in cui si parla della vita nel quartiere di Santa Croce durante il regime. Seguono Cronaca familiare (1947), Cronache di poveri amanti (1947), Un eroe del nostro tempo (1949), Le ragazze di San Frediano (1951). Negli anni cinquanta Pratolini si dedicherà invece a un'opera più ambiziosa, una trilogia che ripercorre la via sociale italiana dalla fine dell'Ottocento all'età contemporanea, intitolata Una storia italiana. Metello (1955), il primo volume, racconta le lotte sociali tra il 1875 e il 1902 attraverso le vicende del protagonista, un giovane muratore fiorentino. Lo scialo (1960) è dedicato alla crisi della borghesia durante il fascismo, mentre Allegoria e derisione (1966), il terzo libro, parla del passaggio di un intellettuale dal fascismo al comunismo, soffermandosi sulle contraddizioni contemporanee. Negli ultimi anni l'autore pensò di trasformare Una storia italiana in una tetralogia, aggiungendovi un quarto romanzo dedicato alla sinistra italiana degli anni sessanta, intitolato provvisoriamente Malattina infantile. Il romanzo rimase però incompiuto. L'ultima sua opera degna di nota è La costanza della ragione (1963), in cui si racconta della vita a Firenze negli anni cinquanta.[16]
Il neorealismo nell'Italia meridionale
[modifica]All'orizzonte del neorealismo sono ascrivibili vari autori e opere che affrontano la realtà popolare del meridione. Uno di questi è Francesco Jovine (Guardialfiera, 9 ottobre 1902 – Roma, 30 aprile 1950), che nel romanzo Le terre del Sacramento (pubblicato postumo nel 1950) racconta le lotte dei contadini molisani attraverso la vicenda tragica di Luca Marano, il quale negli anni del fascismo abbandona la sua condizione di intellettuale piccolo borghese per abbracciare le recriminazioni delle classi sfruttate. Da ricordare è anche il romanzo Signora Ava, del 1943. In questo filone si possono poi collocare anche la ultime opere di Ignazio Silone.[17]
Giuseppe Dessì (Cagliari, 7 agosto 1909 – Roma, 6 luglio 1977), già collaboratore di Solaria, nel dopoguerra ha tentato una rappresentazione realistica e lirica del mondo sardo, seppur lontano dalle prospettive politiche ufficiali tipiche del neorealismo. Il suo romanzo più importante è Paese d'ombre, del 1972.[6]
Vitaliano Brancati (Pachino, 24 luglio 1907 – Torino, 25 settembre 1954) unisce al neorealismo una tensione etica, che guarda con ironia al costume borghese e alle sue storture. Dopo avere iniziato come insegnante di lettere in alcuni istituti magistrali siciliani, si trasferì a Roma negli anni quaranta e si dedicò al giornalismo. In gioventù aderì al fascismo e scrisse opere ricollegabili al dannunzianesimo, ma ben presto divenne antifascista. La prima opera matura è Gli anni perduti (1941), in cui rappresenta la vita provinciale nell'Italia del sud e affronta quelli che saranno i temi fondamentali della sua produzione: la satira di costume e gli aspetti psicologico-esistenziali dei personaggi. Forte è poi il tema del «gallismo» siciliano, cioè dell'ossessione per la virilità e l'erotismo, in romanzi come Don Giovanni in Sicilia (1941), Il bell'Antonio (1949) e Paolo il caldo (1955). Brancati è d'altra parte distante dalle aspirazioni progressiste del neorealismo e dalla mitizzazione lirica del popolo, ma ricorre alla deformazione e al grottesco per portare avanti una satira amara.[18]
Una produzione originale e vivace si sviluppò infine a Napoli, dove il realismo napoletano di Matilde Serao e Carlo Bernari si legò al più recente interesse per la realtà urbana della città partenopea. Tra gli scrittori che parlarono della vita napoletana, influendo anche sul cinema degli anni cinquanta, si possono ricordare Giuseppe Marotta (Napoli, 5 aprile 1902 – Napoli, 12 ottobre 1963) e il suo L'oro di Napoli (1947), Luigi Incoronato (Montréal, 4 luglio 1920 – Napoli, 26 marzo 1967), Luigi Compagnone (Napoli, 1º settembre 1915 – Napoli, 31 gennaio 1998) e Domenico Rea (Napoli, 8 settembre 1921 – Napoli, 26 gennaio 1994), autore di Spaccanapoli (1947) e Gesù, fate luce (1950).[8]
Poesia neorealista
[modifica]Nell'ambito del neorealismo, oltre alla narrativa, si sviluppa anche un filone poetico, che però non riesce a mettere in discussione i modelli diffusi negli anni del fascismo. Già con Saba si era d'altra parte manifestata una poesia della realtà che poteva coniugarsi con il nuovo orizzonte popolare del dopoguerra. Autori come Quasimodo e Alfonso Gatto, affermatisi negli anni tra le due guerre, sposano l'impegno politico e danno vita a un miscuglio ermetico-neorealista che conosce grande fortuna tra gli anni quaranta e cinquanta.
La poesia neorealista propriamente detta tenta invece di uscire dagli schemi della lirica per cercare nuovi toni. La lingua deve essere spontanea e immediata, e ancora una volta si guarda al dialetto e alla parlata popolare, di cui si cerca di riprodurre le cadenze. Si sperimentano anche misure epiche e narrative. I risultati raggiunti non sono però duraturi.[19]
Tra gli autori di poesia neorealista si possono ricordare Franco Matacotta (pseudonimo di Francesco Monterosso; Fermo, 1916 – Genova, 1º maggio 1978), Velso Mucci (Napoli, 29 maggio 1911 – Londra, 5 settembre 1964) e Rocco Scotellaro (Tricarico, 19 aprile 1923 – Portici, 15 dicembre 1953).
Altri progetti
[modifica]- Wikipedia contiene informazioni su Neorealismo
Note
[modifica]- ↑ Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti, Giuseppe Zaccaria, Moduli di storia della letteratura, La narrativa del Novecento, Torino, Paravia, 2002, p. 97.
- ↑ 2,0 2,1 2,2 Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti, Giuseppe Zaccaria, Moduli di storia della letteratura, La narrativa del Novecento, Torino, Paravia, 2002, p. 98.
- ↑ Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2001, p. 1044.
- ↑ Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti, Giuseppe Zaccaria, Moduli di storia della letteratura, La narrativa del Novecento, Torino, Paravia, 2002, p. 99.
- ↑ Italo Calvino, presentazione de Il sentiero dei nidi di ragno, Milano, Mondadori, 1993, p. VI.
- ↑ 6,0 6,1 Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2001, p. 1057.
- ↑ 7,0 7,1 Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti, Giuseppe Zaccaria, Moduli di storia della letteratura, La narrativa del Novecento, Torino, Paravia, 2002, p. 175.
- ↑ 8,0 8,1 8,2 Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2001, p. 1058.
- ↑ Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti, Giuseppe Zaccaria, Moduli di storia della letteratura, La narrativa del Novecento, Torino, Paravia, 2002, p. 176.
- ↑ Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2001, p. 1078-1079.
- ↑ 11,0 11,1 Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2001, p. 1079.
- ↑ Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti, Giuseppe Zaccaria, Moduli di storia della letteratura, La narrativa del Novecento, Torino, Paravia, 2002, pp. 178-179.
- ↑ Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2001, p. 1080.
- ↑ 14,0 14,1 Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2001, p. 1059.
- ↑ Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti, Giuseppe Zaccaria, Moduli di storia della letteratura, La narrativa del Novecento, Torino, Paravia, 2002, pp. 185.
- ↑ Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2001, p. 1060.
- ↑ Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti, Giuseppe Zaccaria, Moduli di storia della letteratura, La narrativa del Novecento, Torino, Paravia, 2002, p. 99.
- ↑ Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti, Giuseppe Zaccaria, Moduli di storia della letteratura, La narrativa del Novecento, Torino, Paravia, 2002, pp. 171-172.
- ↑ Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2001, p. 1061-1062.