La critica e Manzoni
Nel quadro del Romanticismo italiano la posizione di Manzoni è senz'altro di primo piano, se non la più importante in senso assoluto.
Le proposte romantiche di una letteratura più popolare, di una lingua maggiormente adeguata ai tempi, di un impegno educativo nei confronti del popolo, obbligarono il Manzoni a un lavoro lungo, sfibrante, ma le cui soluzioni restano a tutt'oggi un documento delle eccezionali risorse che furono messe in atto per il conseguimento dello scopo.
Nell'immensa bibliografia manzoniana, spiccano per complessità e completezza di informazioni i saggi di alcuni critici assai noti, da Sapegno a Caretti, ed è rifacendoci ai loro studi che noi tenteremo di dare un quadro organico delle soluzioni proposte da Manzoni alle istanze romantiche. Un impegno di eccezionale portata, dicevamo, quello di Manzoni.
Tale aspetto è stato messo in particolare evidenza da L. Caretti (A. Manzoni, milanese), il quale ha insistito sul fatto che occorre rendersi conto che soltanto dopo Manzoni è stato possibile in Italia sia il romanzo sia l'avvio di una prosa narrativa veramente moderna.
Nel periodo in cui egli operava, continua Caretti, egli si trovò a battere una via del tutto nuova e inesplorata, in quanto nulla esisteva in Italia cui avrebbe potuto rifarsi: per questo si deve vedere in Manzoni il fondatore di una nuova forma di narrativa, il romanzo, per l'appunto.
Quanto alla lingua, Manzoni partì dal "grado zero della scrittura", nell'individuazione di una lingua veramente di carattere nazionale, viva, creando così anche la lingua del romanzo italiano.
Il problema della lingua è stato indagato da Caretti in un suo saggio successivo, "Romanzo di un romanzo", dove il critico indaga il lungo lavorio che portò Manzoni a rielaborare più volte la sua opera maggiore.
Sin dal 1806 Manzoni si pose il problema di una lingua popolare e nazionale, scartando con diverse argomentazioni le soluzioni puristiche: lamentava lo scrittore milanese l'eccessiva distanza che separava la lingua parlata e la lingua scritta, che sembrava ai suoi occhi una lingua morta e, proprio per questo, incapace di avvicinare la gran massa delle persone e di educarle, com'era nell'intento suo e del Romanticismo.
Nel momento in cui egli decise di porre insieme, nel suo romanzo, personaggi aristocratici e popolari, il problema della lingua divenne fondamentale.
Manzoni nella continua ricerca di una lingua che rispondesse ai suoi bisogni si trovò a scartare molte soluzioni, a cominciare dalla lingua letteraria della tradizione, estremamente povera, nel senso che era parlata da una minoranza, condannata quasi all'uso scritto e per nulla adatta al colloquio quotidiano.
Fuori del tempo è, secondo Manzoni, anche la soluzione puristica. Per chi, come lui, non intendeva rinunciare al proprio ruolo di scrittore, occorreva tentare nuove sperimentazioni, crearsi un laboratorio linguistico, dove gli facevano buona scorta i classici e ciò che in loro vi era di moderno, le strutture sintattiche del francese, del lombardo, ecc.: una mescolanza che fu poi condannata dal suo stesso autore al primo apparire del romanzo. Successivamente Manzoni si accorse che vi era in fondo una lingua capace di esprimere le idee generali, lungamente provata dal tirocinio dei grandi scrittori: quella toscana.
Il passaggio dal "Fermo e Lucia" ai "Promessi Sposi" segnò il lavoro più lungo e ingrato: un lavoro un po' libresco, dato che non gli riuscì mai di compiere quel viaggio in Toscana più volte desiderato.
Però fu un lavoro molto intelligente: furono indagati non tanto gli scrittori aulici quanto quelli popolareggianti, dai comici ai berneschi ai volgarizzatori, sempre con l'obiettivo di conseguire quella lingua media cui egli tendeva.
Ma, un uomo come lui, non poteva certamente accontentarsi di uno spoglio di repertorio: dopo il 1827 iniziava perciò quel famoso viaggio in Toscana, da cui sarebbe nata l'edizione definitiva del romanzo.
Dal passaggio dalla Ventisettana alla Quarantana non vi furono radicali rifacimenti; però è avvertibile lo sforzo di un sempre maggiore adeguamento della lingua del romanzo alla lingua media, soprattutto fiorentina: uno sforzo questo che durò per tutta la vita a testimonianza di un impegno che non conobbe soste e che trovò la sua appendice dopo l'unità d'Italia, quando egli preparò, per invito dell'allora Ministro Broglio, una relazione che riguardava i problemi della diffusione della lingua unitaria. Le posizioni di Manzoni sono ben riassunte in un bel saggio di Gerardo Grassi, "Scritti sulla questione della lingua" (Einaudi).
Le idee "fiorentiniste" di Manzoni, osserva Grassi, erano un poco normative, nel senso che prevedevano esclusioni sia nei confronti dei dialetti sia della ulteriore evoluzione dello stesso fiorentino, in qualche modo bloccato al periodo in cui la proposta manzoniana si enucleava. In ciò Manzoni trovò un degno e fiero avversario in Graziadio Isaia Ascoli, il quale, con grande lungimiranza, non intendeva espungere i contributi lessicali provenienti dagli altri dialetti e, anziché proporre una lingua normativa, pensò che una lingua veramente nazionale si poteva avere soltanto con un salto culturale e qualitativo dell'intera società italiana: promuovere tale balzo in avanti specie sul versante economico era anche promuovere la diffusione della lingua italiana.
Un ampio riconoscimento è venuto a Manzoni da critici quali per esempio G. Lukàcs (Manzoni e il romanzo storico). Dopo aver detto che Manzoni, per quanto riguarda il romanzo storico, ha superato addirittura il maestro, Walter Scott, Lukàcs ha reso omaggio a Manzoni riconoscendo che i "Promessi Sposi" hanno caratterizzato molto bene la storia politica italiana.
Attraverso il tema del dramma dei due poveri contadini, Manzoni ha saputo caratterizzare la secolare situazione politica italiana, fatta di divisioni, di forze feudali e reazionarie, di guerre e di soggezione a popoli stranieri; ha saputo far rivivere i problemi del popolo con grande sensibilità e per questo il suo nome può essere posto accanto a quello di uomini come Puskin e Tolstoj. Molto bene ha ricostruito la storia interna dell'avvicinarsi del Manzoni al romanzo storico N. Sapegno, nell "'Introduzione ai Promessi Sposi".
L'intuizione del romanzo storico venne a Manzoni in un momento particolarmente triste e delicato della sua vita: erano infatti appena falliti i moti del 1821, molti suoi amici erano dispersi o in carcere, e lui aveva voluto isolarsi quasi per essere in sintonia di spirito con i propri compagni di lotta.
Nel chiuso della sua casa di campagna aveva avuto modo di approfondire alcune tematiche, prima fra tutte quella di dar vita a una forma letteraria popolare per eccellenza. Scartata l'idea della tragedia, rimaneva da ripensare al romanzo storico così come l'aveva visto sviluppato in Walter Scott.
A dire il vero, il romanzo di Scott non gli era troppo piaciuto, sembrandogli che l'autore lavorasse troppo di fantasia. Per Manzoni, condizione essenziale era una più netta adesione al vero sia per quanto riguarda lo sfondo, sia per i caratteri, che dovevano risultare estremamente verosimili, in quanto la funzione della letteratura, secondo i romantici, doveva essere l'utile e non il puro divertimento e la fuga dalla realtà.
Le stesse problematiche linguistiche postesi da Manzoni non avevano nulla a che fare con meri esperimenti tecnico-stilistici fini a se stessi, ma avevano aspetti pratici e politici molto rilevanti (una lingua per molti, se non per tutti), secondo il criterio di popolarità della letteratura, che prevedeva la sua poetica, che rifuggiva da qualsiasi edonismo linguistico.
Impegno politico e impegno religioso si fondevano in Manzoni in qualcosa di inscindibile. Non una religione sottomessa alla ragion di stato, ma un sentimento puro, evangelico, permeato di istanze provvidenzialistiche di cui il Manzoni era profondamente convinto.
Tale morale fu letta da molti sotto un segno negativo, nel senso che l'idea provvidenziale appariva permeata di istanze di rassegnazione (i continui inviti rivolti agli umili di pazientare in attesa della provvidenza divina).
Ma ciò, avverte Sapegno, è dovuto all'ambiente in cui visse Manzoni. Il rapporto religione-ideologia-popolo è stato ampiamente dibattuto dalla critica moderna, specialmente dopo il saggio di Antonio Gramsci, pubblicato in "Letteratura e vita nazionale".
Gramsci, in sostanza, sosteneva il carattere ancora aristocratico del cattolicesimo manzoniano e una sua evidente lontananza dal popolo, ridotto, più che altro, a pura macchietta.
L'atteggiamento di Manzoni verso gli umili è, secondo Gramsci, essenzialmente paternalistico, da "società protettrice degli animali": uguale alla posizione della chiesa cattolica; il che costituisce secondo Gramsci un grave limite del cattolicesimo manzoniano.
Alle considerazioni di Gramsci si ricollega Guido Baldi, "A. Manzoni, Cattolicesimo e Ragione Borghese".
Secondo il Baldi, il populismo manzoniano si può porre sotto un segno negativo in quanto il popolo è offerto dal romanziere come modello positivo nella misura in cui tale popolo si dimostra del tutto passivo di fronte alle violenze e ai soprusi di cui è fatto oggetto; anzi si dimostra in qualche modo contento delle proprie miserie, in quanto esse lo rendono più vicino a Dio e gli garantiscono un premio nell'altra vita, preservandolo così dalla tentazione di modificare attraverso atteggiamenti rivoluzionari il mondo esistente.
Quindi, definire democratica la posizione di Manzoni, solo perché gli umili sono protagonisti del romanzo e sono guardati con una certa benevolenza, è del tutto antistorico.
È altresì evidente, continua Baldi, la lezione che lo scrittore milanese intende proporre con la descrizione della sommossa di Milano: egli vuole dimostrare che quando il popolo prende l'iniziativa in campo politico, non solo non ottiene nulla ma anche provoca gravi danni alla collettività. Perciò il popolo non deve assolutamente intervenire nell'attività politica, ma anzi deve cristianamente sopportare soprusi e povertà, pensando che questo suo atteggiamento cristiano gli procurerà il giusto risarcimento nell'altra vita.
Guardiamo per un attimo alle vicende del protagonista, la cui storia è in fondo la storia dell'educazione di un popolano, che nel romanzo è portato quasi ad esempio.
Il giovane artigiano Renzo Tramaglino è inizialmente convinto che il povero non debba rassegnarsi di fronte all'oppressore: ecco perciò spiegati gli impeti di ribellione di Renzo sia verso Don Abbondio sia verso il Dottore Azzeccagarbugli. Questa sua fiducia di potersi in qualche modo fare giustizia lo porta a crearsi delle illusioni e a mettersi nei guai con la polizia.
Il vero modello di popolo è invece per Manzoni Lucia. Lucia incarna perfettamente il modello di popolano che Manzoni ha in testa: è buona, assolutamente innocente, ignara di politica, laboriosa, ha orrore della violenza e attende, umile e rassegnata, l'aiuto del Signore e del potere politico che Lui ha voluto istituire sulla terra.
Lucia funziona nel romanzo come da correttrice su quell'esemplare imperfetto di popolano che è invece Renzo, il quale, come si è visto, ha la tendenza alla ribellione, almeno agli inizi, dimostra scarsa propensione ad affidarsi interamente e senza lotta nelle mani della Divina Provvidenza.
Alla fine del romanzo però anche Renzo viene guadagnato all'ideologia moderata e pacificatrice di Manzoni: infatti, Renzo, dopo i tumulti di Milano nei quali ha rischiato la vita e la galera, giura solennemente di non mettersi più in mezzo ai tumulti della folla e di vivere serenamente all'interno della propria famiglia, disinteressandosi di politica: è il trionfo dell'ideologia moderata e cattolica del moderatissimo e cattolicissimo Manzoni.
Vittorio Spinazzola ne "I Destinatari dei Promessi sposi" riprende il discorso intorno al populismo manzoniano soffermandosi sul pubblico a cui Manzoni intendeva rivolgersi con il suo romanzo.
Il destinatario dei promessi sposi è, secondo Spinazzola, una media classe borghese letterata, comunque in grado di apprezzare lo sforzo linguistico messo in atto dal Manzoni tutto teso verso una lingua popolare e sostanzialmente realistica. Al di là di questa frontiera c'è la gran massa degli analfabeti, che la scrittura del Manzoni non può effettivamente raggiungere.
Tuttavia anche questa massa di persone illetterate è in qualche modo gratificata di questa sua esclusione, in quanto è assunta a protagonista positiva del romanzo: non dimentichiamo infatti che Renzo e Lucia sono due lavoratori analfabeti del ‘600. Questa è l'unica concessione che il Manzoni fa al popolo degli esclusi, i quali, lo si ribadisce, non sono assolutamente in grado di offrire alcuna soluzione politica, ma devono semplicemente accontentarsi di quanto la classe dirigente offre loro, in una rassegnazione totalmente cristiana.
Cesare Cases, intervenendo a proposito delle affermazioni di Gramsci, pur assentendo con lui per quanto riguarda il paternalismo manzoniano, osserva che si tratta di un paternalismo diverso dalla comune accezione del termine: esso appare al critico permeato di un altissimo senso della giustizia, di avversione continua contro l'oppressione: il che dovrebbe portare a sottolineare il sottofondo apertamente democratico di Manzoni.
Cases fa notare che è pur vero che Manzoni invita alla rassegnazione, ma è altrettanto vero che con spirito illuministico smonta da par suo e attacca istituzioni come la famiglia (l'episodio della monaca di Monza la dice lunga su questo aspetto). L'onestà intellettuale di Manzoni appare a Cases indubitabile: che poi, con le sue teorie, finisse indirettamente per favorire anche le concezioni più retrive della borghesia, è un altro paio di maniche. Comunque, al di là delle letture ideologiche, appare indubbio l'eccezionale valore dell'impegno manzoniano, che ebbe riflessi enormi sia sulla lingua sia sulla moderna letteratura italiana.