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La Letteratura latina nell'Età di Cesare (superiori)

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La Letteratura latina nell'Età di Cesare (superiori)
Tipo di risorsa Tipo: lezione
Materia di appartenenza Materia: Letteratura latina per le superiori 2
Avanzamento Avanzamento: lezione completa al 100%
Giulio Cesare

Sallustio nel capitolo 11 del De coniuratione Catilinae dà la colpa dell'inizio del declino di Roma alla condotta sfrenata e dissoluta avuta dall'esercito di Silla a contatto con la infrollita civiltà dell'Oriente. Secondo una errata tradizione si è voluto per forza vedere nell'età del I secolo a.C. l'età della decadenza di Roma collegandola agli eventi delle guerre civili. In realtà sotto i vari colpi dati alla stabilità della Repubblica inferti da Mario, Silla, Catillina, Cesare e Augusto, l'aristocrazia con la chiusura compiuta in ogni modo possibile per non permettere alla plebe l'accesso nelle sfere di potere portò comunque al mantenimento di un ideale di raffinata civiltà permettendo a Roma di adeguarsi alla nuova caratteristica di città egemone. L'espansione territoriale, la necessità di una riforma militare e il dovere di far entrare nelle file del potere anche questi nuovi soldati crearono a Roma una nuova casta autonoma e gelosa del suo potere. Nel frattempo Roma iniziava a compiere la sua più importante opera, che è quella della civilizzazione dell'Occidente. Accanto a tutti questi moti sociali si verificano anche moti mistici, primo fra tutti quello stoico di Posidonio che predicava una esigenza di religiosità più intima di quella del passato. Dall'altro lato ci sono le spinte filosofiche nel campo culturale, soprattutto dell'epicureismo che troverà il suo apice in Lucrezio e nelle scuole campane di Sirone, ma anche correnti innovatrici come l'atticismo nell'oratoria, il neoterismo nella poesia, l'antitradizionalismo nella vita politica. L'individualismo ha il suo massimo splendore in questa epoca, dato che le crisi politiche sfociano nel culto delle grandi individualità e nell'ultimo periodo della dittatura di Cesare e nelle manifestazioni della monarchia di Antonio in Asia e in Egitto si colorerà delle forme del dispotismo orientale. Ma questo culto riesce ad infondere nelle opere dell'ingegno un'impronta di originalità e il respiro possente di un valore universale. E proprio su questi rinnovamenti sociali e culturali si innestano i rinnovamenti anche del mondo letterario. I modelli greci saranno rielaborati in maniera molto più originale e vigorosa di prima. In tale spirito di rinnovamento il vecchio e il nuovo si contrasteranno tra loro anche in un medesimo autore. Varrone Reatino, mentre con la sua opera antiquaria si conferma il sunto della civiltà romana tradizionale, con le Saturae Menippeae analizza la crisi morale contemporanea in forma derivata dalla tradizione greca. Cicerone è il massimo difensore della politica e cultura dell'età precedente ma allo stesso tempo esegue questa difesa traendo spunti e teorie dalla civiltà ellenica. Tutte le massime figure di quest'età letteraria sono invase da siffatta doppia personalità. Cesare nell'aristocratica nudità del suo dettato sembra rimarcare l'idea catoniana dell'attenersi alle cose senza gli svolazzi espressivi, ma è lui stesso a creare la letteratura memorialistica in cui esposizione e critica dei fatti creano una superficie fascinosamente increspata anche se sotto un'apparenza di distacco oggettivo. Sallustio rivendica la severità della natia Sabina, ma nelle sua opera storiografica apre le porte alla dottrina ellenistica. Lucrezio si fa banditore della più spregiudicata dottrina ellenistica, con l'intento di ridare la serenità agli animi, ma intanto assurge alle vette della più alta poesia proprio quando esprime con abissale profondità il loro dramma. Catullo segue i precetti d'una poetica raffinatissima, ma in essa cala il magma incandescente della sua passionalità senza freni.

Varrone Reatino

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M. Terenzio Varrone nacque a Reate (Rieti) nel 116 a.C. e morì quasi monagenario nel 27 a.C.. Ebbe come maestri il grammatico Elio Stilone e il filosofo Antioco d'Ascalona. Nato nella regione che è fortemente legata all'austerità e al ricordo passato anche la sua opera sarà segnata dal bisogno di perpetuare il ricordo dell'austero passato che la trasformazione di questi tempi sembra distruggere. Così nella scena politica si schierò con chi appariva depositario delle tradizioni. Tuttavia all'inizio fu seguace di Pompeo che segui nella guerra contro Sertorio, nella guerra piratica e forse nella terza guerra mitridatica. Da Pompeo sembrò staccarsi, come Cicerone, quando questi si accostò a Cesare (una delle Saturae Menippeae, il Tricáranos (il mostro a tre teste) metteva in ridicolo il primo triumvirato. Allo scoppio della guerra civile tra Cesare e Pompeio fu a capo delle truppe pompeiane nella Spagna Betica ma nel 49 a.C., abbandonato da buona parte delle truppe, si arrese a Cesare, il quale lo propose alla direzione della biblioteca pubblica che intendeva istituire a Roma, la prima del genere. Fu però, a causa del suo pompeianismo e le sue ricchezze, esposto alla proscrizione del secondo triumvirato ma un partigiano di Antonio, Fufio Caleno, lo salvò e Ottaviano finì col graziarlo. Fu in contatto con i principali rappresentanti della cultura del suo tempo: dedicò opere a Cesare, Pomepio, Attico e Cicerone. Quest'ultimo lo scelse come interlocutore, insieme con Attico, dei cosiddetti Academica posteriora, il cui primo libro volgarmente è intitolato Varro. In esso Varrone sostiene le idee del suo maestro Antioco d'Ascalona, il platonico convertito allo stoicismo. Varrone fu un poligrafo prodigioso. Un catalogo incompleto, tramandato da S. Girolamo, porta all'ingrosso sue 48 opere ma mettendo insieme varie sue testimonianze le sue opere abbracciano all'incirca 74 opere in 620 libri. Esse si possono grosso modo dividere in opere storiche e antiquarie, opere di storia letteraria e linguistica, opere più generiche didascaliche, opere di creazione artistica. In ognuna di queste categorie emerge una o più opere intorno alle quali ruotano opere minori. Nella categoria delle opere storiche e antiquarie emerge forse l'opera più monumentale di Varrone: i 41 Antiquitatum libri, divisi in 25 rerum humanarum e 16 rerum divinarum (nelle quali vi erano le più minute conoscenze sulle antichità profane e sacre di Roma, ripartite in categorie). Tra le opere di storia letteraria e linguistica emergono le Immagines in quindici libri. Un opera singolare che sotto i ritratti di 700 uomini celebri è collogato un epigramma laudativo e un breve riassunto della vita e, all'occasione, delle opere. Gli epigrammi potevano essere opere di Varrone o di autori precedenti. In questa opera Varrone rinuncio' al nazionalismo affiancando celebri personaggi della Grecia a uomini illustri di Roma. Opere minori più strettamente storico-letterario sono il De poetis (sul cammino inaugurato da Santra) di cui ci sono rimasti frammenti e testimonianze e che sarà da modello per Svetonio. Tra le opere di carattere più strettamente linguistico occupano il primo posto i 25 libri De lingua latina. Di essi ci sono rimasti incompleti i libri 5-10. In essi è contenuta la difesa della ricerca etimologia e dell'analogia. Le etimologie varoniane sono proverbiali per la loro fantasiosa arbitrarietà, tuttavia l'opera è una miniera di notizie sulla lingua latina e di frammenti di antichi autori. Nel gruppo delle opere didascaliche emergono i nove libri Disciplinarum e i tre De re rustica. I primi sono una enciclopedia e a ciascun libro è dedicata una delle arti liberali (grammatica, dialettica, retorica, geometria, aritmetica, astronomia, musica, medicina e architettura). Da qui deriva, con qualche lieve modifica, il canone medioevale dell'arti liberali. È l'opera in cui più si rileva il carattere utilitaristico e peripatetico dell'arte varroniana. Il De re rustica, opera della tarda vecchiaia, e fu suggerita a Varrone dall'acquisto fatto dalla moglie Fundania di un podere. È l'unica opera pervenutaci quasi integralmente e, in forma dialogica, tratta della cerealicultura nel primo libro, della zootecnica nel secondo, delle api e degli animali da cortile e da riserva nel terzo. Virgilio riprenderà i medesi argomenti (eccetto gli animali da cortile e da riserva) nelle Georgiche. Assai significativo per comprendere lo spirito di Varrone con cui compose l'opera è il proemio in cui non vi è l'invocazione alle Muse ma un lungo elenco di dei protettori dell'agricoltura, i dodici dei Consenti (si credeva formassero il consiglio consultivo di Giove), Giove e Tellùre, il Sole e la Luna, Cerere e Bacco, Robigo e Flora, Minerva e Cerere, Linfa e Buon Evento. Opere di creazione artistica possono essere considerati i 76 libri di Logistorici e i 150 di Saturae Menippeae. I primi sono una fusione, come dice lo stesso titolo, tra lògos (pensiero, riflessione) e historia (ricerca storica). Ogni libro trattava di un argomento di carattere morale incentrandolo in un personaggio che ne rappresentava l'esempio più cospicuo: per esempio Cato de liberis educandis e Marius de fortuna. Non si sa se fu Varrone a seguire l'esempio di Cicerone con i suoi trattatelli, come Cato maior de senectute e Laelius de amicitia, o viceversa. Ma l'opera più caratteristica furono sicuramente le Saturae Menippeae. In esse tornò alla forma della satura enniana ma travasandovi i contenuti e gli intendimenti di quella luciliana con contenuti didascalici e moralistici come è da sua mentalità di uomo all'antica. Alunno dello storico Antioco di Ascalona, trasferì in queste opere, la tendenza di vita, propria delle correnti più popolari dello stoicismo, ad adeguarsi alle concezioni e ai modi della setta dei cinici: da qui il nome dell'opera dal Menippo di Gàdara che nel secolo III a.C. aveva elaborato principi morali e velleità della sua setta in forma letteraria analoghe alla satura romana. Dagli esempi della diatriva e della satira cinica l'opera varroniana eredita scene e spunti (raffigurazioni di città simboliche, fantasiosi viaggi in paesi straordinari ecc.) che ritroveremo nell' Apocolocyntosis di Seneca, nel Satyricon di Petronio e nell'opera del greco Luciano. Principale preoccupazione dell'autore è il commento acre e sconsolato alla vicende politiche della sua età e l'analisi, non meno sconsolata, della decadenza morale dei suoi contemporanei. Essa avviene in una infinità di varietà di tecniche: ora prendendo in esame la figura di un celebre personaggio per trattare una determinata questione morale come nell' Agatho per l'amore; ora ci si ispira in modo più o meno buffonesco a un evento dell'antica poesia come nell' Armorum iudicium; ora ci si ispira da luoghi tradizionali di corruzione come Baia; ora, sfruttando un tipico spunto della letteratura cinica, l'autore analizza se stesso come scisso in due persone (Bimarcus) o si oblia raffigurando una immaginaria città secondo i suoi gusti (Marcopolis). Fantasiosa anche la scelta dei titoli in cui si alterna greco e latino. Sotto l'aspetto linguistico, nonostante i frammenti ci presentano la solita lingua incondita miscugliosa d'arcaismi, popolarismi e ricerche preziose, non è forse da respingere l'ipotesi che Varrone, per il tramite di Sisenna, avrebbe ormeggiato il fare sentenzioso, nervoso, saltellante dell'asianesimo di Egesia. Non mancano nei frammenti pervenutici felici movenze espressive ma Varrone si muove sempre al di sopra del terreno dei luoghi comuni e difficilmente riesce a fecondarlo cun un soffio di vera poesia. Non sembra conoscere il sorriso e la grazia che raggentiliscono e spesso fanno scendere più in profondo. Gli manca il gusto e la capacità di caratterizzare come invece farà magistralmente più avanti Petronio. Varrone è il primo grande sistematore delle tradizioni culturali di Roma e la sua erudizione e fecondità rappresentano ancora oggi un prodigio ma proprio la mole straordinaria delle sue opere non gli permise di dominare a assimiliare le nozioni in un ripensamento originale. Nell'immenso fluire d'idee di quest'epoca lui ravviso più viva l'esigenza dell'eciclopedismo empirico insito nel tardo e degradato peripatetismo. La sua poesia è aridita in satira disordinata, la cultura è erudizione schedatrice, la storia è ricerca antiquaria che sfocia nella biografia contesta di dati esteriori. L'unica sua eredità è data dall'anelito a sistemare per gli usi quotidiani le dottrine che servono a illuminare l'uomo sul mondo in cui vive. L'influenza di Varrone su tutti gli scrittori che si occuparano di cose romane fu enorme: Virgilio se ne servì per l' Eneide; gli scrittori cristiani, Tertulliano, Lattanzio, S. Agostino lo posero largamente a frutto. Sebbene alle soglie del Medioevo la conoscenza dell'opera sua non fosse più vasta di quella che abbiamo oggi, pure ancora Francesco Petrarca lo poneva con Cicerone e Virgilio nella triade dei massimi rappresentanti della civiltà di Roma.

I Mimografi

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Se l'età di Silla per il teatro comico latino era stata l'età dell'atellana, l'età di Cesare fu quella del mimo. La parola mimus è di origine greca, e in Grecia indicava un bozzetto animato che rappresentava la vita quotidiana fissa in un tipo. Sofrone di Reggio, Teachito, Eroda, sono i più celebri rappresentanti di questa forma d'arte che per la sua brevità e assenza di vera azione drammatica è un quid medium fra lirica e teatro. Nel mondo latino il mimo assunse un aspetto di crudo verismo favorito dalla tradizione indigena meridionale della commedia di Epicarmo e del mimo di Sofrone, non c'è del contatto con il teatro istrionesco d'origine etrusca, col fescennino e con l'atellana. Anche alcune scene di Plauto sono da considerarsi autentici mimi inseriti nel tessuto un po' frusto dei modelli attici. Dalle testimonianze che ci sono pervenute esistevano vari tipi di mimo: recitato, cantato e danzato. Proprio questo ultimo tipo farà concorrenza alla fabula saltica e accelererà la degenerazione del mimo verso la licenza favorita dal fatto che è l'unica azione scenica dove potevano recitare anche donne. La parola dialogata permase tuttavia, vista la parentela con l'atellana e l'utilizzo come intermezzo e di comica finale, ma nella decadenza del teatro comico svolse con incondita e sfrenata libertà quegli spunti di italico aceto che Plauto aveva sapientemente inserito nella sua palliata. Era il sintomo della decadenza del teatro infatti in età augustea il dialogo passerà nelle ecloghe virgiliane di cui si ha notizia il loro utilizzo anche sulla scena, o nell'eta imperiale nelle tragedie di Pollione, di Vario e di Pomponio Secondo. I due principali mimografi dell'età di Cesare sono il romano Decimo Laberio e il liberto Publilio Siro che come ci dice il nome era originario dalla Siria. Laberio, che sembra contemporaneo di Cicerone, morì a Pozzuoli nel 43 a.C. secondo San Girolamo. La singolarità del suo lessico ha fatto in modo che i grammatici ci tramandassero un centinaio di suoi versi oltre a numero titoli dei suoi mimi mentre di Publilio possediamo solo due titoli. La plebea prolissità, biasimata da Orazio, si univa in lui ad uno spirito aggressivo e mordace, anche contro personaggi in vista del momento: non per questo il mimo si ricollega all'istinto parodico della vecchia commedia di tipo aristofanesco. Macrobio narra che Cesare si è vendicato obbligandolo a recitare un mimo davanti a se in concorrenza con Publilio e premiando quest'ultimo. Il prologo della recita di Laberio esprimeva il dolore del poeta che divenuto ormai cavaliere romano era costretto ad umiliarsi come istrione contro un ex-schiavo da cui prevedeva di essere sconfitto e lo fa con una alte amarezza che stride con la plebea trivialità e mordacità dell'arte di lui. Cesare tuttavia gli ridonò l'anello distintivo dell'ordine equestre che aveva perduto accettando di salire sulla scena e gli regalò una grossa somma di danaro. E Publilio non fu da meno nel manifestare al vecchio emulo la sua deferenza. La novità che Publilio recava nel mimo era un profondo senso di umanità e una semplicità e compostezza di linguaggio sorprentende per il genere del mimo: tutte doti che dovevano essere apprezzate dal raffinato Cesare e costituivano uno dei tanti segni della scissione tra gusto dei plebei e delle classi colte e che farà d'ora in poi della letteratura latina una delle tipiche manifestazioni di cultura aristocratica e selezionata. Non stupisce che Publilio sia stato ammirato da uomini come Seneca e che, come il commediografo Cecilio Stazio, la sua fortuna ai versi di contenuto morale (in età imperiale si costituì una vera e propria raccolta delle massime publiliane). Nel cap. 55 del Satyricon di Petronio, Trimalchione recita ai suoi convitati un frammento contro il lusso, dicendo che ne è autore Publilio. Nella prima metà del primo secolo sembra essere vissuto Cn. Mazio, autore, oltre che di una versione dell' Iliade, di mimiambi sul gusto di Eroda. Gellio ne loda la lingua. Dell'una e dell'altra opera ci sono giusti dei frammenti.

Cornelio Nepote

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Cornelio Nepote

Ignoriamo il praenomen di Cornelio Nepote e la sue date di nascita e di morte. Da Plinio il vecchio sappiamo che fu Pati accola, morto sotto il principato di Augusto e di costumi illibati. Originario della Gallia Cisalpina a Roma fu vicino e amico di uomini della sua stessa terra e che formavano il nerbo del cenacolo dei poetae novi. Catullo gli dedicò il Liber o la serie delle nugae ed egli stesso compose faciles versus. Fu anche amico di Cicerone e di Attico dei quali scrisse lunghe biografie. Delle sue opere ci è pervenuta solo parte del De viris illustribus. Le altre sue opere (oltre i Chronica, un libretto in cui si distingueva il litteratus dall' eruditus, una collana di Exempla moraleggianti in cinque libri, un'opera geografica, e due biografie, una di Cicerone in vari libri e l'altra di Catone poi rifusa nel De viris illustribus) sono andate perdute compresi i Chronica in tre libri lodati da Catullo. Essi, forse un corrispettivo latino dei cronica grechi di Apollodoro, sono forse la prima opera di stistemazione cronologica della storia universale di Roma prima di Varrone e di Attico. Il De viris illustribus fu composto per categorie, disposte ciascuna in una coppia di libri, il primo dedicato agli illustri rappresentanti greci il secondo agli illustri rappresentanti latini. Del complesso di categorie (ra, generali, storici, oratori, ecc.) ci sono rimasti il libro dedicato ai generali stranieri, due biografie del libro dedicato agli storici latini, Catone il Censore (riassunto di quella già pubblicata a parte) e Attico (che abbiamo nella seconda redazione più ampia pubblicata dopo la morte dell'amico). Ad Attico sembra dedicata tutta l'opera e non solo il libro dedicato ai generali stranieri come sembrerebbe dai manoscritti. La biografia di Annibale è ispirata alla corrente scolastica filo-annibalica. Non si può supporre che Cornelio abbia scritto queste sue biografie a uso didattico per le scuole. Tuttavia dalla loro composizione trapela l'uomo di integrità dei costumi dipinto da Plino il vecchio. Di ogni personaggio è registrato scrupolosamente tutto cio' che serve a renderlo esemplare. L'intento di edificazione morale è dimostrato anche dal porre in parallelo, da parte della struttura dell'opera, Greci e Romani che poi sarà ripreso da Plutarco, sicuramente con molta più maestria, un secolo dopo. Con Cornelio Nepote, quindi, la biografia si adegua a pieno agli scopi moralistici della biografia ellenistica e questo avviene proprio in un periodo dove anche la storiografia, impersonata da Sallustio, si avvicina alla biografia e alla sua sensibiltià moralistica e del culto della personalità. E dello stile sallustiano si ravvisano le tracce nella prosa di Cornelio al quale però, come tutti gli aspetti di questo scrittore mediocre, non ha una personalità ben definita, e indulge contemporaneamente anche a coloriti ciceroniani, principalmente nella lunghezza, spesso smisurata, dei periodi.

I "Poetae Novi"

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Il cenacolo

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L'introduzione della poesia amorosa è sicuramente il segno più grande della trasformazione dei tempi a Roma. Un suo albore è stato già riscontrato nel circolo di Lutazio Catulo ma è proprio in questo periodo storico che si sviluppa un gruppo di giovani poeti dediti a questo genere. Essi sono così artisticamente simili che si può quasi parlare di membri di un cenacolo poetico. Si cerca, in realtà, di contestare questa visione unitaria e quindi come se davvero ci fosse a Roma una corrente letteraria uniforme considerando casuale la presenza in questo periodo di autori così simili. Tuttavia, il fatto che Cicerone mostri un avversione generale verso questi giovani poeti, che tra loro ci sia una fitta relazione amichevole come dimostrato dai frammenti e dalle opere e come tutti provenissero dalla Gallia Cisalpina legittima il pensare che sia davvero un indirizzo artistico consapevole ed unitario. Le denominazione di νεώτεροι e di poetae novi, che oggi usiamo per indicarli, sono termini spegiativi coniati ed usati da Cicerone in un passo di un'epistola ad Attico e in uno dell' Orator. Gli ideali poetici di questi giovani poeti, come abbiamo potuto ricavare da Catullo e da frammenti di altri, sono volti all'abbandono dell'epos di tipo omerico ed enniano, la composizione di brevia carmina e di poemetti dedicati a celebri casi d'amori del mito (che oggi chiamimo epilli), la tendenza ad esprimere o apertamente o tramite il velo del racconto mitologico i propri sentimenti soprattutto quelli amorosi, lo sfoggio dell'erudizione e la cura scrupolosa della tecnica metrica e dell'eloquio. La semplice enunciazione di questi ideali fa capire come fossero vicina alla poesia ellenistica e particolarmente a quella di Callimaco. A cio' contribui l'opera del poeta greco Partenio di Nicea, ultimo epigono dell'elegia ellenistica, che condotto a Roma come schiavo fu amico di molti poetae novi, maestro di Virgilio e Cornelio Gallo. Il volger le spalle agli autori passati è dettato dal voler collegare la vita Romana a quanto ancora la cultura dell'Oriente ellenizzato potesse offrire. Essi, nonostante tradissero gli ideali conservatori, furono in politica quasi tutti conservatori e avversi a Cesare. Ma loro, indirettamente, gli diedero una gran mano dato che l'intento di Cesare era proprio quello di rendere la tradizione Romana quanto più mescolata a quella Greca e Orientale in un ottica di universale missione e dominio di Roma. Una vicinanza di sentimenti legava il neoterismo romano all'atticismo in retorica e all'epicureismo in filosofia. Il primo per la poetica stringata, puntuale e sobria che recava in sè l'esperienza di Callimaco. Il secondo per l'esperienza edonistica e legata ala seduzione dell'erotismo ellenistico. È sbagliato però porre i tre movimenti sotto una stessa rigida equiparazione. Si tratta di simpatie e di spunti per le loro composizioni. Questi poeti crearono il principale centro di raccolta della vita letteraria di Roma e riuscirono a superare anche la reazione classicistica e moralistica del circolo di Mecenate. Saranno infatti richiamati, in età imperariale, ogni volta che ci sarà un richiamo alla poesia ellenizzata. In realtà quello che va segnalato è che il gusto, o meglio il feticismo, per la pura tecnica supera l'esternazione dei sentimenti dei singoli poeti (da quanto ne sappiamo essa era confinata nel solo ambito della poesia epigrammatica). Ugualmente i carmi di Catullo e di Calvo, proprio per questa rivoluzione nel gusto e nella tecnica, contribuiscono a giustificare l'orgogliosa affermazione di Quintiliano sul valore dell'elegia romana di fronte alla greca.

I componenti del cenacolo

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Dei poeti novi solo Catullo ci ha trasmesso sue opere. Solo titoli e pochi frammenti abbiamo di P. Valerio Catone, Marco Furio Bibaculo, Varrone Atacino, C. Licinio Calvo e C. Elvio Cinna. P. Valerio Catone, della Gallia Cisalpina, inizialmente fu grammaticus e grazie a questa professione riusci a costruirsi una villa a Tuscolo, poi sottratta dai creditori. Fu critico e poeta. Le sue due opere più importanti furono due epilli, manifesti poetici per i suoi giovani allievi, la Lydia e la Diana o Dictynna. M. Furio Bibaculo fu autore di epigrammi, due dei quali ci sono stati tramandati da Suetonio nella biografia di Valerio Catone. È incerto se esso sia da identificare con Furio Alpino autore di poemi epici derisi da Orazio (Pragmatica belli Gallicidi argomento storico e Aethiopis di argomento mitologico su Memnone). Non deve lasciare perplessi la scrittura di poemi epici da un neoterico infatti anche Varrone Atacino lo ha fatto. Diomede cita Bifulco tra i poeti satirici anche se forse si voleva riferire ai suoi epigrammi aggressivi più che a vere e proprie satire. Varrone Atacino nacque nell'82 a.C. ad Atace nella Gallia Narbonese ed è quindi il primo poeta transalpino della letteratura latina. Varie sono le sue opere pervenuteci: due opere composte secondi i moduli tradizionali, un Bellunm Sequanicum, e un libro di satire e varie opere che segnalano il gusto neoterico (rielaborazione delle Argonautiche di Apollonio Rodio, il poema didascalico-geografico Chorographia, il calendario poetico Ephemeris e le elegie raccolte sotto il nome di Leucadia, pseudonimo della donna amata, secondo l'uso della poesia erotica ellenizzante dei Romani). Si è voluto dividere la sua opera in due fasi una antecedente al neoterismo e l'altra proprio affine ma in realtà questa divisione è fine a se stessa dimostrando quando questo poeta abbia vissuto vari gusti poetici. C. Licinio Calvo, l'amico più intimo di Catullo, è l'unico sicuramente romano del cenacolo. Fu oratore e seguì l'indirizzo atticista. Dolorosa è la perdita dei suo carmi lodati anche da Seneca il vecchio. Compose epigrammi, epilli, epitalami e elegie. Degli epilli si conosce il poemetto Io uno dei tanti indirizzi letterari collegati ad un celebre episodio mitologico contrastato e drammatico. In morte dell'amata Quintilia, che forse era sua moglie, scrisse delle elegie che si è supposto abbiano inaugurato, insieme col c. 68 di Catullo, l'elegia romana di carattere subietivo. C. Elvio Cinna era anch'egli della Gallia Cisalpina. Sappiamo che compose un Propempticon per Asinio Pollione, e l'epillio Zmyrna tanto celebrato, nel c. 95, da Catullo, che si servì della sua pubblicazione per esporre i principi critici del cenacolo. Cinna si era quindi ispirato all'aspetto più rigidamente callimacheo dell'eredità ellenistica. Fu più un grande tecnico del verso ed erudito che poeta d'alta ispirazione, ma la considerazione che godè presso la più giovane generazione poetica fu altissimo. Si possono ricordare anche Cornelio Nepote, Ticida, Cecilio e Cornificio (potrebbe o essere il Cornificio a cui Catullo indirizza il c. 38 o quello che S. Girolamo identifica con Q. Cornificio, partigiano di Cesare). Può darsi che vi hanno fatto parte anche un Alfeno Varo (supponendo che Catullo nei cc. 10, 22 e 30 con Alfenus e Varus non si riferisca a due persone ma solo al giureconsulto cremonese Alfeno Varo, poi distributore delle terre ai veterani nella Gallia Cisalpina. L'identificazione potrebbe essere confermata dalla lettura Varus e non Varius al v. 35 dell'ecloga IX di Virgilio), e Cassio Parmense (sembra essere stato prevalentemente poeta tragico. Si suole ascrivere ai poetae novi più per essere nato nella Gallia Cisalpina, e per i suoi atteggiamenti politici, che per il carattere dell'opera), nonché L. Giulio Calido, che Cornelio Nepote chiama "il poeta contemporaneo di gran lunga più elegante deopo la morte di Lucrezio e di Catullo", e C. Memmio, il dedicatario del poema di Lucrezio.

I minori

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Filosofi

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In questa età abbiamo notizia di alcuni oscuri filosofi epicureisti quali Amafinio, Cazio Insubre e Rabiro ma la figura più interessante è il neopitagorico P. Nigidio Figulo, pretore nell'85 a.C.. Coltivò le scienze esoteriche e acquisto la fama di stregone e di veggente (tra l'altro Lucano ce lo racconta mentre effonde presagi circa lo scoppio della guerra tra Cesare e Pompeo). Per questa sua fama di stregone e per l'inimicizia con Cesare finì in esilio dove morì nel 45 a.C..

Grammatici e retori

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Fra i critici ed eruditi va ricordato Sp. Mecio Tarpa, di cui si ricorda uno scritto che ricercava e chiariva le omonimie fra gli scrittori, e Santra (dal nome sembra originario dell'Etruria), che S. Girolamo ricorda tra i precursori di Suetonio nello scrivere biografie de viris illustribus. La scienza grammaticale è ancora in mano a gente di origine servile e proveniente da Grecia e paesi orientali. I classici sono ancora i poeti del periodo arcaico ma si percepisce già la tendenza ad essere fuori moda ad usare quei modelli. Suetonio ricorda M. Pompilio Andronico, Lucio Orbilio Pupillo, L. Ateio, Cornelio Epicado, Staberio Erote, Curzio Nicia, Pompeo Leneo. Pompilio era della Siria e seguace epicureo, compose molte opere, fra cui un opuscolo sull'argomento dei singoli libri degli Annales di Ennio. Orbilio, il plagosus Orbilius di Orazio, nativo di Benevento, era ancora legato ai vecchi metodi e vecchi programmi obbligando addirittura i suoi scolari la lettura dell' Odyssia di Livio Andronico per questo fu boicottato da allievi e genitori sfogando la sua frustrazione in un libro di cui non conosciamo il titolo. Morì, quasi cenentenario, poverissimo e afflitto dalla perdita di memoria. Di Ateio sappiamo, per sua stessa testimonianza, che compose un'opera in 800 libri, intitolata Hyle (La selva), che forse raccoglieva i suoi diversi lavori. Fu amico di Sallustio mentre questo componeva le sue opere e gli dedico un Breviarium rerum omnium Romanarum per la scelta degli argomenti. Dopo la morte di Sallustio passo ad aiutare Asino Pollione a cui dedicò Praecepta de ratione scribendi. Leneo, liberto di Pompeo, è autore di un libello contro Sallustio, in cui accusava lo storico d'avere adoperato vocaboli disusati, rubandoli in gran parte a Catone il Vecchio. Fra i retori dell'età Suetonio ricorda il liberto Voltacilio, di cui è incerto il cognomen, maestro di retorica di Pompeo e celebratore delle sue imprese; M. Epidio, che fu maestro di M. Antonio e di Ottaviano, nonché, secondo una notizia poco attendibile, di Virgilio; e Sesto Clodio, siciliano, maestro di eloquenza sia latina sia greca e autore di un Περί θεών in greco. Fra i giuristi emerge Ser. Sulpicio Rufo, grande esegeta ed elegante teorico, amico di Cicerone, morto all'inizio del 43 a.C. Sulla disciplina auguralis scrisse un libro l'augure Marco Messalla e iniziò un'opera Ap. Cladio Pulcro, l'aristocratico fratello di Clodio, che come censore escluse Sallustio dal Senato. Sull'aruspicina etrusca scrissero Tarquizio Prisco, di cui restano dei frammenti ed A. Cecina, forse il personaggio difeso da Cicerone, violento avversario di Cesare che, più tardi, mandato in esilio, adulò nello scritto intitolato Querelae.