I Promessi Sposi - Capitoli XXXI-XXXVIII - La Conclusione (superiori)

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I Promessi Sposi - Capitoli XXXI-XXXVIII - La Conclusione (superiori)
Tipo di risorsa Tipo: lezione
Materia di appartenenza Materia: Italiano per le superiori 2
Avanzamento Avanzamento: lezione completa al 100%

Di Seguito è Disponibile le Letture e i Riassunti del Capitolo XXXI, XXXII, XXXIII, XXXIV, XXXV, XXXVI, XXXVII e XXXVIII de "I Promessi Sposi", la Scheda dei Personaggi de "Il Nibbio" e Approfondimenti su "La Peste".

Letture[modifica]

Per le Letture dei Capitoli, i Testi Sono Disponibili Qui:

Riassunti[modifica]

Capitoli XXXI-XXXVI[modifica]

Con i Lanzichenecchi entra in Lombardia ed infine a Milano la peste, sottovalutata inizialmente dalle autorità, in particolar modo dal governatore don Gonzalo de Cordova, preso dall'assedio di Casale Monferrato, e dal Senato: solo il cardinale Federigo si prodigherà nell'assistenza ai malati, unica autorità rimasta in una Milano abbandonata a sé stessa. Di peste si ammalano Renzo – che guarisce – e don Rodrigo, che viene tradito e derubato dal Griso, il capo dei suoi bravi che – contagiato anch'egli dalla peste – però non avrebbe goduto dei frutti del suo tradimento.

Manzoni, Promessi Sposi, capitolo XXXIV, p. 661: «Scendeva dalla soglia d’uno di quegli usci, e veniva verso il convoglio, una donna, il cui aspetto annunziava una giovinezza avanzata, ma non trascorsa».

Una volta guarito Renzo torna al paese - ove trova una grande desolazione e scopre da un convalescente don Abbondio della morte di Perpetua - per cercare Lucia, preoccupato dagli accenni fatti da lei per lettera a un suo voto di castità fatto quando era dall'Innominato. Non trovandola, il giovane viene indirizzato a Milano, dove apprende che si trova nel Lazzaretto. Nella descrizione della città colpita dal morbo v'è una spaventevole verosimiglianza: non più la luce dell'alba cara al Manzoni, ma la spietata intensità del sole a picco. La descrizione dei carri dei monatti è pagina potente e sinistra. L'accordo dei vari temi dell'episodio si rivela però nelle note soavi della scena della madre di Cecilia, nell'umoristico contrasto tra l'angoscia dell'ambiente e il comico errore dei monatti su Renzo scambiato per untore.

La Madre di Cecilia[modifica]

Il capitolo XXXIV, oltre a descrivere le nuove disavventure di Renzo scambiato per untore e una Milano trasformata in un grande cimitero, si sofferma anche sull'episodio della madre di Cecilia, una bambina la quale – ormai morta – è posta sul carro dei monatti dalla madre, che li implora di non toccare il piccolo corpo composto con tanto amore e chiede poi di tornare dopo a «[...] prendere anche me e non me sola». La donna è presentata piena di dignità umana e di amore materno che sarebbe riuscita a impietosire anche il "turpe monatto" che le voleva strappare la bambina. Il personaggio è descritto accostando coppie di termini in antitesi collegati da forme oppositive e negative: «[...] una giovinezza avanzata ma non trascorsa [...] una bellezza velata e offuscata, ma non guasta, da una gran passione, e da un languor mortale [...] la sua andatura era affaticata, ma non cascante...».

Il Ricongiungimento di Renzo e Lucia[modifica]

Renzo, alla fine, giunge al Lazzaretto ove, in mezzo al dolore e alla morte degli appestati, trova fra Cristoforo, giunto in città per soccorrere i più bisognosi. Benché afflitto dalla malattia che l'ha colpito - mortalmente, come si saprà alla fine del romanzo -, il vecchio cappuccino si prodiga con tutte le sue forze per alleviare le sofferenze altrui, e inveisce contro Renzo quando quest'ultimo gli parla dei sentimenti di vendetta che nutre verso Don Rodrigo, indegni in un animo che aspira ad essere cristiano. Renzo, pentitosi, si ricongiunge con il nobile, ormai morente, e parte alla ricerca di Lucia, senza sapere se sia viva o morta. Trovata risanata, la giovane manifesta reticenza nel ricongiungersi al suo promesso a causa del voto pronunciato quando era prigioniera dell'Innominato, ma fra Cristoforo, saputo di tale inghippo - non vincolante, visto che fu pronunciato in condizioni di impedimento -, la scioglie dai voti pronunciati. L'arrivo, poi, della pioggia purificatrice annuncia la prossima fine della pestilenza.

Il matrimonio tra Renzo e Lucia

Capitoli XXXVII-XXXVIII[modifica]

Con gli ultimi due capitoli ci si avvia alla fine del romanzo. Renzo e Lucia - la quale viene a sapere dell'arresto di suor Gertrude - tornano al loro paese insieme ad Agnese per potersi finalmente unire in matrimonio. Don Abbondio prima tentenna ma poi, saputa della morte di don Rodrigo, acconsente a celebrare le nozze, allietate dal benvolere della mercantessa amica di Lucia e del marchese, erede dei beni di don Rodrigo. Renzo e Lucia, finalmente sposati, si trasferiscono nella bergamasca ove Renzo acquista con il cugino una piccola azienda tessile e Lucia, aiutata dalla madre, si occupa dei figli. Hanno una prima figlia che chiamano Maria, come segno di gratitudine alla Madonna, cui ne seguono altri. Solo alla fine dell'ultimo capitolo, però, viene esplicitato il messaggio che Manzoni vuole trasmettere, quello che lui definisce «sugo di tutta la storia», «che [i mali] quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce, e li rende utili per una vita migliore».

I Personaggi[modifica]

Il Nibbio[modifica]

Il rapimento di Lucia a opera del Nibbio, in un'immagine dell'edizione del 1840 dei Promessi Sposi

Nibbio è il capo dei bravi al servizio dell'Innominato, e come scrive Manzoni nel capitolo 20, è "uno de' più destri e arditi ministri delle sue enormità". Non viene descritto fisicamente, ma si capisce che è una persona scaltra e rapida nell'eseguire gli ordini (il nome Nibbio si riferisce indubbiamente al rapace), e molto robusta e massiccia di aspetto in quanto l'Innominato si riferisce a lui chiamandolo "quel bestione del Nibbio!". Il personaggio riveste un ruolo cruciale nella trama, in quanto sblocca una situazione di stallo che si era creata, rapendo Lucia da Monza e avviando la conversione dell'Innominato.

Storia del Personaggio[modifica]

Il Rapimento di Lucia[modifica]

Il Nibbio appare per la prima volta nel capitolo 20, perché incaricato di rapire Lucia tenuta a Monza da Gertrude. L'Innominato non ebbe dubbi su chi scegliere per questa delicata missione, in quanto ha fede nel suo più ardito ministro, che inoltre ha anche una corrispondenza con Egidio.

L'Innominato gli ordina di rapire Lucia a Monza, ma comunque di dimostrarsi sempre gentile con lei durante l'operazione. Il Nibbio rapisce Lucia attirandola in una trappola, dopodiché la carica su una carrozza, dirigendosi verso il castello del suo signore. In un primo momento, la ragazza sviene di paura, nonostante le rassicurazioni dei bravi. Il Nibbio inoltre, adempiendo al meglio agli ordini del padrone, tenta di tranquillizzare la giovane e sgrida gli altri suoi complici per il loro comportamento rozzo che può spaventarla, ordinando loro di metter via le armi.

«Non vedete che costei è un pulcin bagnato che basisce per nulla? Se vede armi è capace di morir davvero!»

(Il Nibbio sgrida gli altri bravi, Capitolo 20)

«Vi dico che non abbiate paura: non siete una bambina, e dovete capire che noi non vogliamo farvi del male. Non vedete che avremmo potuto ammazzarvi cento volte, se avessimo cattive intenzioni? Dunque state quieta.»

(Il Nibbio a Lucia, Capitolo 20)

Durante il tragitto, nonostante il Nibbio tenti di farle capire che non c'è da temere niente, Lucia continua a lamentarsi e alla fine si abbandona alla preghiera, singhiozzando. Giunti a destinazione, il Nibbio viene chiamato a rapporto dall'Innominato.

La Compassione[modifica]

Nel capitolo 21 assistiamo al colloquio tra il Nibbio, appena tornato dalla missione, e il suo padrone. Alla richiesta dell'Innominato di raccontargli l'esito della vicenda, il bravo spiega che tutto è andato a puntino, ma conclude la sua relazione con una congiunzione che preoccupa il padrone: "Ma...". L'Innominato, che avverte nel comportamento del Nibbio qualcosa che mai aveva avvertito prima, chiede ulteriori spiegazioni.

  • Nibbio: Ma... dico il vero, che avrei avuto più piacere che l'ordine fosse stato di darle una schioppettata nella schiena, senza sentirla parlare, senza vederla in viso.
    Innominato: Cosa? Cosa? Che vuoi tu dire?
    Nibbio: Voglio dire che tutto quel tempo, tutto quel tempo... m'ha fatto troppa compassione.

L'Innominato rimane turbato dall'affermazione del Nibbio, arrivando a temere Lucia, l'unica persona che sia riuscita a far provare compassione al suo bravo più crudele. Il Nibbio non aveva mai provato compassione prima d'ora, è confuso, e alla domanda del suo padrone "Che sai tu di compassione?" risponde:

«Non l'ho mai capito così bene come questa volta: è una storia la compassione un poco come la paura: se uno la lascia prender possesso, non è più uomo.»

(Capitolo 21)

Durante il tragitto, i pianti, i singhiozzi e le preghiere della giovane Lucia avevano riscaldato quella freddezza d'animo dello sgherro più crudele e bestiale. La preghiera a Dio, affinché potesse cambiare il cuore degli uomini malvagi, ha agito sul Nibbio, seppur in maniera leggera, mentre agirà successivamente nell'Innominato stesso, in maniera totale. La prima reazione del signore alla compassione mostrata dal Nibbio è quella di cacciare Lucia, "Compassione al Nibbio! Come può aver fatto costei?", è intimorito e non sa come comportarsi.

La vicenda del Nibbio e la sua definizione di compassione saranno il punto di avvio della celebre conversione dell'Innominato. Dopo il capitolo 21, il Nibbio non compare più nel romanzo. Dopo la conversione dell'Innominato, si scopre che molti suoi bravi se ne sono andati al servizio di altri padroni, mentre alcuni sono rimasti, non avendo posto dove andare, e pochi si sono convertiti. Non viene però specificata la situazione del Nibbio, e non è dunque dato sapere se se ne sia andato oppure sia rimasto al servizio dell'Innominato.

Approfondimenti[modifica]

La Peste[modifica]

La peste è uno degli elementi fondamentali del romanzo e rientra nella "grande" storia che come un turbine vasto sconvolgerà la società e i destini dei nostri personaggi. L'analisi storica del Manzoni si estende sui capitoli 32 e 33 mentre nei capitoli successivi coinvolgerà direttamente le vicende della narrazione.

La peste, che colpisce l'Italia nel periodo compreso tra il 1628 e il 1630, diventa quasi il culmine di due grandi avvenimenti che avevano sconvolto il Nord Italia in quegli anni: la guerra dei trent'anni (che nel romanzo vede il culmine con la calata dei Lanzichenecchi) e la carestia.

Lo scopo del narratore è da un lato quello di rappresentar lo stato delle cose e dall'altro quello di far conoscere, per quanto si riesca, un tratto di storia patria più famoso che conosciuto. Manzoni spiega infatti che in ognuna delle molte relazioni contemporanee, siano omessi fatti essenziali e regni una strana confusione di tempi e di cose.

Il lavoro dello storico è quindi (parafrasando le parole dell'autore) quello di esaminare e confrontare quelle memorie per ottenere una serie concatenata degli avvenimenti, una storia, distinguendo e verificando i fatti più generali e più importanti per disporli nell'ordine reale e osservando la loro efficienza reciproca.

Le principali fonti utilizzate dal Manzoni sono il De peste quae fuit anno 1630 di Giuseppe Ripamonti, il De peste di Federico Borromeo e le opere del Tadino e del Rivola.

Il morbo è portato dai Lanzichenecchi: i primi casi si verificano in Lombardia sulla striscia di territorio percorsa dall'esercito; la gente inizia ad ammalarsi e a morire di mali violenti e strani nei quali i più anziani riconoscono quelli della peste che aveva colpito il milanese cinquantatré anni avanti, nota come peste di San Carlo (1576).

In seguito ai casi verificatesi nella terra di Chiuso e, successivamente a Lecco e a Bellano, il tribunale di sanità ordina un'ispezione che accerta la presenza delle brutte e terribili marche della peste. Il fatto viene riportato al governatore ma, come dice il Ripamonti, belli graviores esse curas (le preoccupazioni della guerra erano più gravi).

Tra la noncuranza della popolazione e la preoccupazione dei due medici (il Tadino e Senatore Settala) in autunno la peste entra a Milano. Alla morte del soldato italiano al servizio della Spagna portatore della peste in città seguono alcune morti tra i medici che lo curavano e tra le persone della casa in cui il soldato aveva alloggiato; tuttavia, l'arrivo dell'inverno e il rallentamento del contagio confermavano sempre di più la stupida e micidiale fiducia che non ci fosse le peste, portata avanti dal popolo e anche da alcuni medici.

Tuttavia, verso la fine del mese di marzo dell'anno 1630, il contagio ricomincia e aumenta di continua l'attività del lazzaretto che viene così affidato ai cappuccini sotto la presidenza del padre Felice Casati.

La peste è ormai conclamata ma essa viene accompagnata l'idea di quelle arti venefiche, operazioni diaboliche, gente congiurata a sparger la peste, per mezzo di veleni contagiosi, di malìe: è il celebre delirio delle unzioni, confermato anche da un dispaccio inviato un anno prima del re Filippo IV, a cui nessuno aveva mai dato retta, ma che parlava di quattro francesi scappati da Madrid sospetti di spargere unguenti velenosi e pestiferi.

Il cardinale Federigo Borromeo l'11 giugno 1630 accetta di guidare una grande processione per le vie di Milano con le reliquie di San Carlo: da allora il contagio nella città, favorito dalla riunione di una così gran massa di persone, infuria e la mortalità è in continuo aumento, così come gli episodi di criminalità e la delinquenza dei monatti.

È proprio questa la Milano che Renzo attraversa quando entra in città per la seconda volta (la prima volta era stato nel capitolo 11).

È interessante notare come uno dei personaggi più influenti nell'intera opera, Don Rodrigo, sia personalmente colpito dalla peste, che lo uccise.

La peste non risparmia neanche il crudele Griso, fido servitore di don Rodrigo. Dopo aver fatto portare via il padrone morente da due monatti, viene lui stesso colpito dalla stessa sorte che aveva riservato il primo: viene colpito dalla peste per aver toccato i panni infetti del padrone nell'avida ricerca di denaro e portato via da alcuni monatti, dopo che i suoi compagni di bisboccia lo hanno gettato via senza pietà in un carro.

«in quell'ultima furia del frugare, aveva poi presi [...] i panni del padrone, e li aveva scossi, senza pensare ad altro, per veder se ci fosse danaro. C'ebbe però a pensare il giorno dopo, che [...] gli vennero a un tratto de' brividi, gli s'abbagliaron gli occhi, gli mancaron le forze, e cascò. Abbandonato da' compagni, andò in mano de' monatti, che, spogliatolo di quanto aveva indosso di buono, lo buttarono sur un carro; sul quale spirò, prima d'arrivare al lazzeretto, dov'era stato portato il suo padrone.»

(capitolo 33)