I Promessi Sposi - Capitoli I-III - Questo Matrimonio non s'ha da Fare (superiori)

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I Promessi Sposi - Capitoli I-III - Questo Matrimonio non s'ha da Fare (superiori)
Tipo di risorsa Tipo: lezione
Materia di appartenenza Materia: Italiano per le superiori 2
Avanzamento Avanzamento: lezione completa al 100%

Di Seguito è Disponibile le Letture e i Riassunti del Capitolo I, II e III de "I Promessi Sposi", la Scheda dei Personaggi di "Renzo", "Lucia", "Don Abbondio", "Agnese", "Azzecca-garbugli" e "Perpetua" e Approfondimenti su "La Carestia" e su "Manzoni e il Lettore".

Letture[modifica]

Per le Letture dei Capitoli, i Testi Sono Disponibili Qui:

Riassunti[modifica]

Capitolo I[modifica]

Il primo capitolo può essere paragonato per molti versi a una ouverture di melodramma.
Se l'overture in musica è la parte introduttiva dell'opera, che anticipa tutti i temi musicali in essa presenti, il primo capitolo mostra tutti i tipi di sequenze tipiche del romanzo del Manzoni.

La prima scena, la descrizione a volo d'uccello del paesaggio del lago di Como, presenta una doppia valenza temporale, in quanto la descrizione del paesaggio del '600 è uguale a quella dei tempi in cui Manzoni scrive: per questo egli si riferisce a luoghi ben definiti (usando aggettivi come "quel").
In questa scena diagetica (cioè riflessivo/descrittiva, ma non narrativa) è presente per la prima volta una caratteristica della narrazione manzoniana, l'ironia (una figura retorica che dice una cosa quando in realtà si vuole dire il suo contrario).

L'incontro tra don Abbondio e i bravi

La seconda scena, di tipo mimico, introduce il primo personaggio del romanzo, don Abbondio, tramite una descrizione focalizzatrice dell'ambiente, cioè che oltre a fornire indicazioni puramente informative, anticipa in qualche modo lo stato d'animo o il carattere del personaggio che verrà.

La terza sequenza è una digressione sul fenomeno dei bravi e della dominazione spagnola: anche questo passo si gioca sull'ironia, in quanto con i nomi dei governatori che man mano emanano le grida contro i bravi, come dice il Manzoni:

«viene una gran voglia di credere che, al solo rimbombo di esse, tutti i bravi siano scomparsi per sempre»

(Capitolo 1)

Questa sequenza evidenzia le ricerche storiche effettuate da Manzoni per il componimento del uso romanzo come uno dei temi del romanzo, la giustizia.

A Partire dalla Narrazione[modifica]

7 novembre 1628
Descrizione prima geografica e poi topografica del Lago di Como (Quel ramo ... diventar città) ed ironica riflessione sulla dominazione spagnola nel 1600 (Ai tempi ... della vendemmia)
...un gran borgo al giorno d'oggi e che s'incammina a diventar città: Manzoni fa una previsione sul futuro di Lecco.

Don Abbondio e i bravi

Abitudini di don Abbondio con descrizione della strada.

  • Don Abbondio incontra i bravi, i quali lo minacciano affinché non celebri il matrimonio.

Descrizione dell'abbigliamento dei bravi. Digressione di commento alla fine del dialogo

  • Don Abbondio torna a casa e parla del problema a Perpetua che gli consiglia di rivolgersi all'arcivescovo.

Don Abbondio usa il “Voi”, Perpetua il “Lei”. Parlando con Perpetua non mostra la solita vigliaccheria, anzi si sfoga ed a volte usa termini di basso registro (schioppettate, baggianate...).

Capitolo II[modifica]

La prima parte secondo capitolo è incentrata sui pensieri e sui sogni passati in una notte travagliata da don Abbondio, che delineano ancora meglio la figura del curato come uomo pauroso, che antepone la sua tranquillità al bene dei suoi parrocchiani.

La descrizione di Renzo dà spazio a Manzoni di introdurre per la prima volta nel romanzo il tema della carestia, ora sullo sfondo, ma che diventerà successivamente elemento fondamentale della storia:

«E quantunque quell'annata fosse ancor più scarsa delle antecedenti, e già si cominciasse a provare una vera carestia, pure il nostro giovine, [...] non aveva a contrastar con la fame.»

(capitolo 2)

Durante un discorso teatralizzante con Renzo il curato si inventa una serie di scuse facendo leva sul latino, segno della cultura utilizzata come strumento di potere nei confronti dei poveri e degli ignoranti.

Le sequenze successive sono tutte unite dai passi di Renzo e dal suo modo di camminare, ora una lieta furia, ora passi infuriati: il lettore segue quindi i suoi spostamenti tra la casa del curato e la casa di Lucia, dove si reca per chiedere spiegazioni.

A Partire dalla Narrazione[modifica]

8 novembre 1628
Accenno alla prossima battaglia del 19 maggio 1643 tra Francesi e Spagnoli, vinse Luigi di Borbone (il principe di Condè che la notte prima, come raccontano gli storici contemporanei, dormì sonni molto tranquilli).

Don Abbondio e Renzo, canonica

Don Abbondio appena svegliato riflette sul da farsi: a) Celebrare ugualmente il matrimonio; b) Rivelare tutto a Renzo; c) Fuggire. Decide di prendere tempo rimandando il matrimonio di una settimana, dopo la quale scatterà il periodo vietato per le nozze, ma Renzo non lo sa.

  • Renzo giunge da don Abbondio, che lo liquida con la scusa di dover fare accertamenti.
  • Tornando a casa Renzo si imbatte in Perpetua, che accenna a birboni e prepotenti
  • Renzo, senza darlo ad intendere a Perpetua, ritorna da don Abbondio e minacciandolo e sequestrandolo lo fa confessare.

Renzo si mostra assetato di giustizia ed impulsivo al punto da sequestrare e minacciare un prete, ma poi ritorna in sé e porge le sue scuse.

Renzo e Lucia, casa di Lucia
  • Renzo va a casa di Lucia e, mandando una delle amiche di Lucia che l'aiutava a prepararsi in vista del matrimonio a chiamarla, le racconta del misfatto.
  • Emerge che Lucia sapeva qualcosa, nel frattempo giunge la madre, le donne vengono mandate via con la scusa che il curato ha la febbre.

Capitolo III[modifica]

La prima parte del terzo capitolo introduce l'antefatto della vicenda: il sommario del racconto di Lucia ha un'importante funzione narrativa e dà spazio al Manzoni di:

  • spiegare la vicenda precedente all'inizio della storia;
  • introdurre il personaggio di fra Cristoforo.

Viene introdotto anche il personaggio di Agnese e la sua astuzia paesana: non appena viene a sapere della vicenda ha subito un'idea, quella di rivolgersi al dottor Azzecca-garbugli. Nelle sue parole si evidenzia il pensiero che la cultura sia un potere, che chi ha studiato parte "con una marcia in più".

Renzo nello studio dell'avvocato

La descrizione dello studio del dottore e il suo atteggiamento trasandato sono segno del suo modo di vivere la giustizia.
Se da una parte uno dei temi del capitolo è la soggezione degli illetterati nei confronti dei dotti (nei confronti dell'avvocato, Renzo si dimostra timido e rispettoso), l'equivoco dà spazio a Manzoni di mostrare il modo di amministrare la giustizia nel '600; lo stesso avvocato, che dovrebbe essere tutore della legge, afferma:

«Chi dice le bugie al dottore, vedete figliuolo, è uno sciocco che dirà la verità al giudice. All'avvocato bisogna raccontar le cose chiare: a noi tocca poi a imbrogliarle»

(capitolo 3)

A Partire dalla Narrazione[modifica]

Renzo, Agnese e Lucia, casa di Lucia
  • Lucia racconta di aver già incontrato don Rodrigo e che egli l'aveva molestata con chiacchiere. Padre Cristoforo, il suo confessore le aveva consigliato di accelerare le nozze.
  • Agnese consiglia di rivolgersi all'avvocato Azzecca-garbugli e prepara quattro capponi per guadagnarsene le grazie.
  • Renzo si reca a Lecco, dall'avvocato sfogando l'ira sui capponi.
Renzo e Azzecca-garbugli, studio di Azzecca-garbugli

Lo studio di Azzecca-garbugli è polveroso e l'avvocato stesso si presenta con una toga smunta, è un modo del Manzoni per rappresentare una giustizia inefficace.

  • L'avvocato cade nell'equivoco, crede che Renzo sia il bravo e comincia a tirare fuori una serie di grida contro le minacce ai preti.

Anche le numerosissime grida, in contrapposizione ai libri impolverati, sono segno dell'inefficacia giudiziaria.

  • Renzo chiarisce l'equivoco e l'avvocato lo manda via in malo modo.
Agnese, Lucia e fra Galdino, casa di Lucia

Nel frattempo a casa di Agnese e Lucia è arrivato fra Galdino, un laico cercatore cappuccino per chiedere un'elemosina di noci (che servivano a preparare l'olio). L'autonomia e l'indipendenza di Lucia si notano quando fa cenno alla madre di non rivelare al cappuccino le minacce di don Rodrigo e quando risponde alla madre che era contraria a dare una tale quantità di noci, ma che poi si convince che era necessario.

  • Il frate racconta il miracolo delle noci e Lucia gli offre un'abbondantissima elemosina chiedendogli di consegnare un messaggio a padre Cristoforo.

I Personaggi[modifica]

Renzo[modifica]

Renzo in un'illustrazione del 1840

Renzo (Lorenzo e in precedenza Fermo) Tramaglino è uno dei protagonisti del romanzo: egli è infatti il promesso sposo di Lucia.

La sua figura è introdotta, a differenza di altri personaggi del romanzo, in modo esplicito nel secondo capitolo:

«Lorenzo o, come dicevan tutti, Renzo [...] andò [da don Abbondio], con la lieta furia d'un uomo di vent'anni, che deve in quel giorno sposare quella che ama. Era, fin dall'adolescenza, rimasto privo de' parenti, ed esercitava la professione di filatore di seta, ereditaria, [...]. Oltre di questo, possedeva Renzo un poderetto che faceva lavorare e lavorava egli stesso, quando il filatoio stava fermo; di modo che, per la sua condizione, poteva dirsi agiato. E quantunque quell'annata fosse ancor più scarsa delle antecedenti, [...] non aveva a contrastar con la fame.»

(capitolo 2)

Nella descrizione del Manzoni appare come un contadino ingenuo e ignorante, assiduo ed onesto lavoratore, animato da grande forza di volontà che gli permette di affrontare tutte le situazioni, a volte cacciandosi in guai seri.

È un ragazzo buono ed onesto ed ha una personalità paesana, semplice e sincera. Non si pone troppi problemi nell'agire, anche in modo eccessivo, ed a volte ha dei ripensamenti sulle proprie azioni: ad esempio, nel capitolo 2 si infuria con don Abbondio, chiedendo poi perdono per declinare la propria ira verso il vero responsabile del sabotaggio, don Rodrigo.

Anche in altre occasioni si dimostra impulsivo ed attivo: appoggia in pieno il piano del matrimonio clandestino di Agnese e fa di tutto per convincere Lucia a parteciparvi.

Il Suo Percorso di Formazione[modifica]

Le vicende vissute da Renzo a Milano possono essere considerate un unico percorso di formazione, a sé stante rispetto alla storia.

Quando egli arriva a Milano è solo un "povero montanaro" (così lo chiama il Manzoni): abituato alla vita in un piccolo paese, è impreparato di fronte alla novità costituita dalla grande città.
Egli non sa interpretare i segni della realtà che lo circonda: il pane e la farina che trova per strada, anziché destare in lui i sospetti della rivolta, gli fanno credere di essere giunto nel "paese della cuccagna".

Spinto dalla curiosità e dall'istinto, si fa coinvolgere dagli avvenimenti e prende parte al tumulto di San Martino; la sua ingenuità lo porta a credere alle parole e ai sorrisi del cancelliere Ferrer, che egli ritiene essere un galantuomo (quando in realtà questi gode di una popolarità mal acquistata). Renzo dal capitolo 14° al capitolo 17° affronterà un cammino di formazione in cui imparerà dai propri errori. Nel capitolo XIV vediamo Renzo come uno sprovveduto e ingenuo ragazzo di campagna, ma, quando nel capitolo XVII la sua maturazione morale e spirituale si conclude, il lettore nota facilmente in lui un cambiamento, che gli servirà per andare avanti.

Lucia[modifica]

Lucia in un'illustrazione del 1840

Lucia Mondella è una delle protagoniste del romanzo, essendo infatti la promessa sposa di Renzo.

Nella descrizione manzoniana fin dalla sua prima apparizione traspare la classica figura della pia donna, devota e religiosa, ma anche semplice e timorosa, con una bellezza non appariscente ma modesta e pacata:

«Lucia aveva quello quotidiano d'una modesta bellezza, rilevata allora e accresciuta dalle varie affezioni che le si dipingevan sul viso: una gioia temperata da un turbamento leggiero, quel placido accoramento che si mostra di quand'in quando sul volto delle spose, e, senza scompor la bellezza, le dà un carattere particolare»

(capitolo 2)

Ad esempio, già nelle prime scene del romanzo possiamo vederne il carattere: nel capitolo 6 è contraria all'idea del matrimonio a sorpresa proposta da Agnese, ma non impone con forza la sua idea, mostrando un affidamento totale nella Provvidenza:

«io voglio esser vostra moglie, ma per la strada diritta, col timor di Dio, all'altare. Lasciamo fare a Quello lassù. Non volete che sappia trovar Lui il bandolo d'aiutarci, meglio che non possiamo far noi, con tutte codeste furberie?»

(capitolo 6)

Questa caratteristica compare anche poi con insistenza quando l'autore ne descrive il rapimento, per mano dei bravi dell'Innominato, il quale era stato pregato di così procedere da don Rodrigo Una Lucia, durante tutta la notte del rapimento, che mostra il suo lato più debole, l'immensa paura per la sua sorte e il suo destino, seppure consolata da una serva dell'Innominato, ma anche e soprattutto la fede; proprio nella fede si rifugerà Lucia, facendo voto di castità alla Vergine Maria se l'avesse resa libera.

A liberazione avvenuta, per la redenzione dell'Innominato, Lucia comunica a Renzo di aver preso la decisione del voto, con quest'ultimo fortemente deluso per la decisione, che gli impediva di fatto non tanto di contrarre matrimonio, quanto di vivere la loro intimità.

Fortunatamente poi, Lucia viene rassicurata da fra Cristoforo sulla possibilità di sciogliere il veto, consentendole appunto di sposarsi.

Don Abbondio[modifica]

Don Abbondio (a sinistra) con il cardinale Borromeo in un'illustrazione di Gonin del 1840

Don Abbondio è il primo personaggio ad apparire nel romanzo. La sua figura è introdotta dal Manzoni tramite una descrizione focalizzatrice del paesaggio che lo circonda: la tranquillità del paesaggio che lo circonda, il modo in cui cammina, sono tutti simboli della sua vita tranquilla e del suo modo superficiale di vivere il ministero del sacerdozio.

Molto pacata, ma soprattutto dettata dalla paura (come viene indicato nel capitolo 2, egli non aveva certo un cuor di leone), è anche la reazione che ha Don Abbondio all'incontro con i bravi (gli "scagnozzi" a servizio dei signorotti locali) i quali senza mezzi termini gli raccomandano di non celebrare il matrimonio tra Renzo e Lucia con la celeberrima affermazione questo matrimonio non s'ha da fare, né domani, né mai.

Don Abbondio allora torna a casa impaurito, talmente condizionato dalle minacce dei bravi che, con astuzia e grazie all'uso di alcune frasi latine, lingua sconosciuta al povero Renzo, riesce a rimandare la celebrazione delle nozze, ma senza rivelarne il motivo, cosa questa che farà invece la sua donna di casa, Perpetua.

«- Sapete voi quanti siano gl'impedimenti dirimenti?

- Che vuol ch'io sappia d'impedimenti?

- Error, conditio, votum, cognatio, crimen,

Cultus disparitas, vis, ordo, ligamen, honestas,

Si sis affinis,... - cominciava don Abbondio, contando sulla punta delle dita.

- Si piglia gioco di me? - interruppe il giovine. - Che vuol ch'io faccia del suo latinorum?»

(Capitolo 2)

Ancora una volta il curato si mostra timoroso di uno scontro e fa leva sulle sue conoscenze di latino per poter sopraffare il giovane.

Una delle conseguenze di questa sua indole timida e paurosa è la reticenza: don Abbondio in più occasioni non ha il coraggio e la forza di completare o di esporre completamente i suoi pensieri.

Il curato dimostra in più passi del romanzo una sfiducia nei confronti delle autorità ecclesiastiche: ad esempio, nel primo capitolo rifiuta in maniera categorica l'ipotesi di chiedere l'aiuto al cardinale per risolvere la questione del matrimonio tra i due sposi.

Questi atteggiamenti sono dovuti soprattutto al suo modo di vivere il ministero sacerdotale, dettato dai motivi della sua scelta di vita: don Abbondio, come viene specificato nel capitolo 2, non si è fatto curato per motivazioni di fede, bensì perché a quei tempi il riunirsi in corporazioni era l'unico modo per i più deboli di non restare sopraffatti:

«Quindi era, in que' tempi, portata al massimo punto la tendenza degl'individui a tenersi collegati in classi, a formarne delle nuove, e a procurare ognuno la maggior potenza di quella a cui apparteneva»

(Capitolo 2)

Carneade, chi era costui?[modifica]

La celebre frase pronunciata dal curato all'inizio dell'ottavo capitolo viene usata ancora oggi quando ci si sofferma su una questione marginale senza prendere in considerazione la faccenda nel suo insieme, in relazione alla quale quell'aspetto risulta quasi insignificante.

Nell'occasione propostaci dal Manzoni, don Abbondio è intento a leggere un saggio sulla vita di San Carlo Borromeo; proprio tra le parole di San Carlo compare il nome di Carneade, su cui si sofferma il curato.

Nell'insieme, il modo di leggere di don Abbondio rispecchia una sua indole: egli sceglie i libri in modo casuale, e la sua lettura è un semplice passatempo, senza secondi fini di ragionamento o crescita culturale. È proprio in questo ambito, di una lettura distratta e poco "intelligente", che si inserisce la famosa domanda.

Agnese[modifica]

Agnese (nel centro, tra Lucia e Renzo)

Agnese è la madre di Lucia; vedova, è molto affezionata alla figlia e ne ha molta premura. La stessa Lucia prova sentimenti di amore verso la madre e per lei è come una guida.

I consigli di Agnese[modifica]

Renzo nello studio dell'Azzeca-garbugli

Agnese appare fin da subito come una donna con una grande esperienza di vita. Non esita infatti a offrire i suoi consigli ai due promessi sposi, anche se talvolta non si rivelano particolarmente utili. Ad esempio, scrivere una bella lettera al Cardinale arcivescovo (capitolo 1) è seguire la via diritta, la via giusta; ricorrere all’Azzeccagarbugli (capitolo 3) invece che al console e al podestà (cioè ai poteri civili costituiti), era far quello che tutti facevano allora, fidando più negli imbrogli dei faccendoni che nel senso di giustizia dei magistrati.

Il "Matrimonio per Sorpresa"[modifica]

L’altro parere di Agnese.. (quello del matrimonio per sorpresa nel capitolo 6) trova un po’ riluttante persino Renzo, che vi intravede una contraddizione. Avendo la consigliatrice dovuto ammettere che anche religiosi dicono che veramente "è cosa che non istà bene", Renzo osserva: "Come può essere che non istia bene, e che sia ben fatta, quand’è fatta?". A questa logica obiezione, Agnese non sa né può rispondere a tono: "Che volete ch’io vi dica? La legge l’hanno fatta loro, come gli è piaciuto; e noi poverelli non possiamo capir tutto. E poi quante cose..."

Si noti che il consiglio è dato in piena buona fede, e non solo: ciò che Agnese afferma di aver sentito dire sulla validità dei matrimoni per sorpresa, corrisponde esattamente a verità; infatti fu ritenuto allora e poi, anche da autorevoli trattatisti di diritto canonico (per esempio dal gesuita secentista Tommaso Sanchez), che, nonostante ciò ch’era stabilito dal Concilio di Trento circa la necessaria e indispensabile presenza del parroco nel matrimonio, questo fosse da considerarsi come valido, se avvenuto nelle circostanze precisate da Agnese, per il rifiuto del sacerdote a intervenire

Messa alle strette da Renzo, prima adduce come scusante l’ignoranza della legge da parte della povera gente; poi con quella sospensione: "e poi quante cose...", lascia intendere che insomma, a questo mondo, ci son cose che, giuste per un verso, sono illecite per un altro: è, in fondo, il pensiero stesso espresso dal dottor Azzeccagarbugli alla tavola di don Rodrigo (capitolo 5), nel momento chiamato a dire il suo parere su ciò che ha sentenziato fra Cristoforo; tuttavia la distinzione tra morale e morale si può perdonare alla povera donnicciola, che pensava e parlava a fin di bene, non al leguleio imbroglione, per il quale la giustizia si riduceva all’usar due pesi e due misure. Infine Agnese crede di tagliare la testa al toro con quel suo: "Ecco; è come lasciar andare un pugno a un cristiano. Non istà bene, ma, dato che gliel’abbiate, né anche il papa non glielo può levare". Quest’uscita è un portento di comicità, specialmente perché l’esempio non calza affatto: un pugno, quand’è dato è dato, e su ciò non c’è dubbio; è dubbio, invece, se un matrimonio per sorpresa, una volta fatto, sia valido: un pugno, il papa non può levarlo di certo; ma un matrimonio per sorpresa, il papa lo può annullare, se non lo ritien legittimo. L’argomentazione di Agnese non solo zoppica, ma ottiene l’effetto opposto a quello desiderato, perché Lucia, seguendo l’ispirazione morale che le viene dagli insegnamenti di fra Cristoforo, osserva: "Se è cosa che non istà bene, non bisogna farla". S’essa poi s’arrende, non è già perché sia persuasa della bontà delle ragioni della madre, ma perché le fa paura la collera (forse a bella posta esagerata) di Renzo (capitolo 7).

Agnese e i Potenti[modifica]

La Signora di Monza in un'illustrazione del romanzo

Il disastroso insuccesso dei due pareri non deprime l’animo di Agnese, né le toglie gli spiriti arditi coi quali suole difendere i suoi interessi. Così, appena presentata dal padre guardiano del monastero di Monza alla Signora, le si rivolge, per nulla imbarazzata, dicendole: "Deve sapere reverenda madre..."; né l’occhiata con cui il padre guardiano le tronca le parole in bocca, vale a farle capire che con quella Signora non s’aveva da parlare se non interrogati; sicché poco dopo, vedendo che la figliuola non risponde a quanto le si chiede intorno al suo persecutore, la madre, per venirle in aiuto, le dà le notizie richieste. Anche questa volta la sua iniziativa è disgraziata perché la Signora la interrompe con un atto altero e iracondo: "Siete ben pronta a parlare senza essere interrogata. State zitta voi; già lo so che i parenti hanno sempre una risposta da dare in nome de’ loro figliuoli". Qui il discorso è indirizzato, sì, ad Agnese, ma lo strale mira a ben altro segno: il rimprovero fatto alla povera donna è una frustata contro la patria podestà che abusa de’ suoi diritti. Ciò che provoca quel rimprovero non è dunque l’ardimento di Agnese, ma il segreto rancore della Signora (capitolo 9).

Se quella volta, da persona di rango elevato Agnese ricevette una mortificazione, ebbe un compenso più tardi nel trattamento benevolo e cordiale usato a lei e alla figlia dal cardinale Federigo nella casa del sarto (capitolo 24). Lì essa poté sfogarsi liberamente col narrare le cose a modo suo, gettando tutta la colpa su don Abbondio e sorvolando sul tentato matrimonio di sorpresa. Quello sì era un signore che ascoltava i poveri! E come sapeva compatire! Compativa tanto, da non scandalizzarsi neppure del tentativo fatto in casa del curato. Che respiro per Agnese, dopo gli occhiacci fatti alla figliola perché tacesse, a sentir dire dal Cardinale, come conclusione, queste semplici e sante parole: "Prendete dalla sua mano i patimenti che avete sofferti e state di buon animo".

Con un personaggio così affabile e alla mano, quello che in Agnese potrebbe sembrar sfrontatezza, diviene una ingenua e simpatica, anche se un po’ rozza, disinvoltura. Così, avuta da donna Prassede la lettera da recare al Cardinale con la proposta di ricoverar Lucia in casa sua (capitolo 25), Agnese la presenta al porporato con queste parole: "è della signora donna Prassede, la quale dice che conosce molto bene vossignoria illustrissimo, monsignore, come naturalmente tra loro signori grandi si devon conoscer tutti". Se ci fosse stato presente don Abbondio le avrebbe detto di star zitta, che non era quello il modo di trattar coi grandi. Ma Agnese gli avrebbe risposto con un’occhiata simile a quella che gli diede, più tardi, al loro giunger, profughi, al castello dell’lnnominato (capitolo 30): "un’occhiata che voleva dire: veda un po’ se c’è bisogno che lei entri di mezzo tra noi due a dar pareri". E aveva ben ragione la buona donna d’andare orgogliosa d’esser la madre di Lucia, se quell’uomo divenuto santo in grazia di questa esclamava, voltandosi a lei con la testa bassa: "Del bene, io! Dio immortale! Voi mi fate del bene a venir qui... da me... in questa casa. Siate la ben venuta. Voi ci portate la benedizione". Al momento di lasciare il rifugio Agnese ha una nuova prova della benevolenza dell’innominato, che le regala un corredo di biancheria e del denaro, e la congeda pregandola di ringraziare Lucia e di dirle ch’egli confida in Dio che la sua preghiera tornerà anche in tante benedizioni per lei.

Coi denari ricevuti in dono Agnese può rimettere in sesto la casa guastata dai soldati; e pensa: "si sarebbe creduto che il Signore guardasse altrove, e non pensasse a noi, giacché lasciava portar via il povero fatto nostro: ecco che ha fatto vedere il contrario, perché m’ha mandato da un’altra parte di bei danari con cui ho potuto rimettere ogni cosa". E poiché dopo la peste, tornando da Pasturo, trova ogni cosa come l’aveva lasciata non può far a meno di dire, che trattandosi d’una povera vedova e d’una povera fanciulla, avevan fatto la guardia gli angioli (capitolo 37).In quella vecchia casa la povera vedova e la povera fanciulla avevano sofferte molte tribolazioni; ma ne furono l’una e l’altra compensate dalle consolazioni che la Provvidenza largì loro nella casa nuova del paese adottivo. E là ecco nonna Agnese affaccendata a portare i nipotini "in qua e in là, l’uno dopo l’altro chiamandoli cattivacci, e stampando loro in viso dei bacioni, che ci lasciavano il bianco per qualche tempo" (capitolo 38).

Agnese e Renzo[modifica]

Il rapporto tra Agnese e Renzo, suo futuro genero, è piuttosto buono. Infatti lei ritiene che Renzo sia un bravo ragazzo e lo difende anche in momenti piuttosto delicati, come quando questo viene accusato di essere un rivoluzionario. Invece lui stima Agnese come una madre e riceve da lei qualsiasi aiuto fidandosi ciecamente.

Azzecca-garbugli[modifica]

Il dottore in un'immagine dell'edizione del 1840 dei Promessi Sposi

Il dottor Azzecca-garbugli è tra tutti i personaggi quello che meglio esprime la concezione della giustizia nel '600, disordinata e inefficiente.

Renzo nello studio di Azzecca-garbugli

La sua figura è introdotta dal Manzoni con una descrizione focalizzatrice del suo studio. La caratteristica che subito viene all'occhio è il disordine e la trasandatezza nella quale vive questo personaggio, basti pensare alle carte disordinate o alla sua tonaca ormai consunta.

Successivamente lo vediamo subito entrare in azione: l'equivoco che si instaura tra i due personaggi durante il discorso con Renzo è dovuto all'ottusità del personaggio, che probabilmente in tutta la sua vita non si è mai trovato a difendere la parte lesa, e che anzi scaccia il giovane come eliminando ogni traccia del suo passaggio.

Successivamente (capitolo 5) lo vediamo alla tavola di don Rodrigo insieme ad altri commensali: egli tuttavia non prende mai posizione durante la triplice disputa e, interrogato verso la fine, fa affermazioni generiche, che non possano essere causa di critiche; elogia la ricca tavola di don Rodrigo e il piacere del vino, e coglie l'occasione per sfoggiare le sue conoscenze di latino:

«dico, proferisco, e sentenzio che questo è l'Olivares de' vini: censui, et in eam ivi sententiam, che un liquor simile non si trova in tutti i ventidue regni del re nostro signore, che Dio guardi: dichiaro e definisco che i pranzi dell'illustrissimo signor don Rodrigo vincono le cene d'Eliogabalo; e che la carestia è bandita e confinata in perpetuo da questo palazzo, dove siede e regna la splendidezza.»

(capitolo 5)

Perpetua[modifica]

Nel romanzo di Alessandro Manzoni I Promessi Sposi, Perpetua (1588-1630) è la serva di don Abbondio. Il suo padrone le è molto affezionato, ma, nonostante la donna gli dia preziosi consigli, egli non ne usufruisce per paura delle possibili conseguenze (come accade ad esempio nel primo capitolo). È molto affezionata e devota a Don Abbondio, e quando può lo aiuta. L'unico suo difetto e anche punto debole è di essere pettegola.

Come scrisse Alessandro Manzoni, essa: « sapeva ubbidire e comandare, secondo l'occasione, tollerare a tempo il brontolìo e le fantasticaggini del padrone, e fargli a tempo tollerar le proprie [...] »

Perpetua aveva raggiunto l'età sinodale dei quaranta, ha rifiutato due pretendenti (Beppe Suolavecchia e Anselmo Lunghigna), motivando la scelta dicendo di "averli rifiutati", mentre le sue amiche dicevano che "non aveva trovato nessun cane che la volesse". Alla fine del romanzo muore uccisa dalla peste.

Approfondimenti[modifica]

La Carestia[modifica]

La carestia è uno delle principali tematiche del romanzo, nel senso che svolge un ruolo fondamentale nella vicenda determinando in modo decisivo lo sviluppo della storia, in particolare per quanto riguarda Renzo.

La carestia compare sin dai primi capitoli e non abbandona mai il lettore, anche se rimane solo accennata. Già nel secondo capitolo, quando viene descritto Renzo, viene detto:

«E quantunque quell'annata fosse ancor più scarsa delle antecedenti, e già si cominciasse a provare una vera carestia, pure il nostro giovine, [...] non aveva a contrastar con la fame.»

(Capitolo 2)

Alla carestia rimanda poi l'episodio del Miracolo delle noci ed è un elemento caratterizzante nella descrizione del paesaggio in cui si muove fra Cristoforo:

«Lo spettacolo de' lavoratori sparsi ne' campi, aveva qualcosa d'ancor più doloroso. Alcuni andavan gettando le lor semente, rade, con risparmio, e a malincuore, come chi arrischia cosa che troppo gli preme; altri spingevan la vanga come a stento, e rovesciavano svogliatamente la zolla. La fanciulla scarna, tenendo per la corda al pascolo la vaccherella magra stecchita, guardava innanzi, e si chinava in fretta, a rubarle, per cibo della famiglia, qualche erba, di cui la fame aveva insegnato che anche gli uomini potevan vivere»

(capitolo 4)

Infatti l'annata del 1628 non era la prima ad andare così male; e i contadini avevano quindi timore nell'usare il grano che rimaneva, in quanto era lo stesso che veniva usato per fare il pane: se non fosse fruttato, sarebbe stato come buttato via.

La carestia ancora elemento fisso nel paesaggio e nelle vicende: su di essa verte la triplice disputa del quinto capitolo, e i suoi effetti si vedono nel capitolo sei quando Renzo si reca a casa di Tonio:

«La mole della polenta era in ragion dell'annata, e non del numero e della buona voglia de' commensali»

(capitolo 6)

Dal capitolo 12 la carestia diventa elemento fondamentale della vicenda: Renzo a Milano diventa partecipe della rivolta di San Martino contro i fornai, a partire dall'assalto del Forno delle grucce in cerca di pane fino al tentativo di uccidere il vicario di provvisione, incolpato di essere responsabile della penuria. Accusato di essere uno dei capi della rivolta, Renzo viene arrestato ma riesce abilmente a fuggire e a raggiungere Bergamo, dove chiede ospitalità al cugino Bortolo.

Dopo la parentesi dell'Innominato, la vicenda della carestia ritorna in primo piano. Nel capitolo 28 il Manzoni riprende infatti i fatti di Milano che avevano coinvolto Renzo ed analizza storicamente i fatti susseguitisi al tumulto di San Martino

«[...] due erano stati, alla fin de' conti, i frutti principali della sommossa; guasto e perdita effettiva di viveri, nella sommossa medesima; consumo, fin che durò la tariffa, largo, spensierato, senza misura, a spese di quel poco grano, che pur doveva bastare fino alla nuova raccolta. A questi effetti generali s'aggiunga quattro disgraziati, impiccati come capi del tumulto: due davanti al forno delle grucce, due in cima della strada dov'era la casa del vicario di provvisione. [...]

A ogni passo, botteghe chiuse; le fabbriche in gran parte deserte; le strade, un indicibile spettacolo, un corso incessante di miserie, un soggiorno perpetuo di patimenti.»

(capitolo 28)

Solo qualche capitolo più avanti, infine, dopo l'arrivo dei Lanzechinecchi, la carestia lascerà spazio ad un male ancora peggiore: la peste

Un'Analisi Storica[modifica]

Il 1628, anno in cui è ambientata la vicenda, era il secondo anno di annata scarsa nel Nord Italia, le cui cause sono da cercare nella concomitanza di alcuni fattori storico-sociali:

  • la guerra dei trent'anni, che aveva portato distruzione in tutta l'Italia del Nord. Ne è un esempio l'episodio della guerra di successione di Mantova, oggetto del discorso tra i commensali alla tavola di don Rodrigo nel quinto capitolo;
  • una vera e propria speculazione da parte di chi poteva permettersi il pane e del grano, acquistando per rivendere quando i prezzi sarebbero saliti;
  • una reale coincidenza di questi fattori con annate scarsamente produttive a causa di fattori climatici e ambientali.

Queste cause emergono in modo evidente nel capitolo 12, quando Manzoni spiega le cause storiche della carestia e insieme analizza anche altri due aspetti della carestia dal punto di vista sociale:

  • Il comportamento della massa. Il popolo cercò un capro espiatorio e riversò la colpa della carestia sugli incettatori e sui fornai (come si farà con la peste per gli untori). Addirittura si parlava con certezza di derrate di farina e pane nascoste dai fornai e spedite segretamente in altri paesi.
  • Le responsabilità dei singoli. Il governatore don Gonzalo Fernandez de Cordova, "ingolfato" dalla guerra e dall'assedio di Casale Monferrato, venne sostituito dal gran cancelliere Antonio Ferrer. Egli non ebbe però il coraggio di prendere provvedimenti impopolari e, senza una vera cognizione dei fatti, impose un limite al prezzo del pane, costringendo i fornai alla miseria.
    Venne così istituita una giunta che rialzò il prezzo del pane, con la conseguente collera della massa ("I fornai respirarono, ma il popolo imbestialì").

Manzoni e il Lettore[modifica]

Rapporto con il Lettore[modifica]

Il rapporto che Alessandro Manzoni stabilisce indirettamente con il lettore è improntato a cordialità e modestia. In particolare, il Manzoni definisce nel Capitolo I il destinatario come i miei venticinque lettori: questo passo può essere ritenuto ironico, dato l'enorme immediato successo riscosso dal romanzo. In effetti Manzoni non allude ad un lettore specifico, bensì a un lettore generico (usando un termine tecnico lo si può definire il narratario dell'opera). Questo implica un approfondimento sul punto di vista del destinatario dell'opera manzoniana.

Lettori Molteplici[modifica]

L'introduzione del romanzo presenta nell'incipit la finzione del manoscritto seicentesco. Tale stratagemma dispone dunque il seguente schema di rapporto tra emittente e destinatario

  Epoca di pubblicazione destinatario implicazioni
Manoscritto inventato Prima metà del XVII secolo Lettori seicenteschi Livello denotativo:
pura descrizione dei fatti
Riscrittura manzoniana Prima metà del XIX secolo Lettori ottocenteschi Livello connotativo:
la descrizione del XVII secolo allude alle vicende della metà dell'Ottocento
Rilettura odierna Oggi Noi, lettori del 2024 Livello interpretativo:
le vicende descritte da Manzoni superano la contingenza e ci parlano tuttora

La narrazione si inserisce nel periodo del "presunto manoscritto" del quale l'autore sta facendo una rielaborazione; il primo capitolo, con l'incontro di Don Abbondio con i bravi, avviene infatti la sera del 7 novembre 1628 mentre il termine della storia si pone nel 1630, in coincidenza con la grande epidemia di peste. La finzione del manoscritto presuppone che, data la vicinanza degli eventi, i fatti in esso narrati corrispondano a una realtà storica. Questo per Manzoni era un intento comunicativo fondamentale.

Ma evidentemente all'autore non interessava solo il livello della nuda descrizione cronistica (vale a dire il livello denotativo), ma per tutto il testo, ora con commenti fuori campo ora con accenni interni al testo intesseva un dialogo fatto di sottintesi e di complicità con il lettore per sfuggire alla rigida censura editoriale austro-ungarica. Ecco dunque che la meschina sopraffazione e l'impotente violenza delle leggi promulgate dal governo spagnolo nel Milanese rispecchiano la durezza e l'impotenza del giogo austriaco in Lombardia. Ecco dunque che la contrapposizione tra registri linguistici adottati dai diversi personaggi (il latinorum di don Abbondio, lo spagnolo del Vicario di provvigione, ecc.) allude alla questione della lingua, oggi per noi apparentemente accademica data la distanza temporale, ma all'epoca di bruciante attualità.

Infine l'autore ha coraggiosamente scelto di trattare temi di portata universale, che interrogano il lettore di qualunque epoca, indipendentemente dal fatto che Manzoni lo prevedesse o meno. Ecco dunque che quando egli ci accompagna a leggere tra le righe della sua scrittura insegna ad ogni lettore come si affronta un romanzo. È questo il livello dell'interpretazione personale. Ecco dunque che quando tenta di rispondere alla domanda "cos'è la giustizia?" provoca nel lettore uno sguardo critico che gli fa seguire le vicende dei telegiornali o della stampa quotidiana con occhio più attento. Ecco dunque che quando contrappone i punti di vista dei diversi personaggi su un argomento non cessa di chiamare in causa l'appoggio o la riprovazione del lettore odierno a uno di essi.

La conoscenza dei diversi narratari consente sia di distinguere e valutare cosa sia plausibile o possibile attribuire all'autore piuttosto che alla propria intuizione, riconoscendo così quando emettere giudizi a titolo personale o a seguito di uno studio del contesto storico e culturale del romanzo.