Giuseppe Gioacchino Belli (superiori)
Giuseppe Gioacchino Belli inizia a dedicarsi assiduamente alla poesia dialettale negli anni trenta dell'Ottocento, a una decina d'anni dalla morte di Carlo Porta, e nei suoi 2 279 Sonetti romaneschi, composti in vernacolo romanesco, raccoglie la voce del popolo della Roma del XIX secolo. Viene spontaneo fare un raffronto tra il poeta milanese e quello romanesco: entrambi mostrano una certa sensibilità per i rapporti tra le classi sociali, ma mentre in Porta è visibile una aspirazione verso un mondo più giusto, in Belli si trovano esplosioni di rancore, e la sottomissione appare come qualcosa di ineluttabile.[1]
La vita
[modifica]Nasce a Roma il 7 dicembre 1791 nella famiglia benestante di Luigia Mazio e di Gaudenzio Belli. La coppia avrà altri tre figli: uno morto ancora in fasce, Carlo, morto a 18 anni, Flaminia, che si farà suora nel 1827. Nel 1798 i francesi occuparono Roma e i Belli si rifugiarono a Napoli. Ristabilito il potere pontificio, tornano a Roma, poi nel 1800 si stabiliscono a Civitavecchia, dove Gaudenzio Belli aveva ottenuto un impiego ben retribuito al porto. Morì nel 1802 in un'epidemia di tifo petecchiale,[2] lasciando in gravi difficoltà economiche la famiglia, che tornò a Roma stabilendosi a via del Corso.
La madre si risposa nel 1806, ma muore l'anno dopo, e dei figli si prendono cura gli zii paterni. Giuseppe Gioachino deve interrompere gli studi per impiegarsi in brevi e mal retribuiti lavori di computista, impartendo anche qualche lezione privata. Ottiene salario e alloggio nel 1812 presso il principe Stanislao Poniatowsky. È licenziato l'anno dopo per contrasti, si ipotizza, con Cassandra Luci, l'amante (e, successivamente, moglie) del principe.
Belli aveva intanto cominciato le prime prove poetiche e letterarie. Nel 1805 aveva scritto le ottave La Campagna, un componimento scolastico sulla bellezza della natura, l'anno dopo una Dissertazione intorno la natura e utilità delle voci, poco più di un sunto del Saggio sull'origine delle conoscenze umane di Condillac, laddove si tratta del linguaggio quale elemento espressivo di mediazione tra la sensazione e il pensiero. Altri suoi scritti su alcuni fenomeni naturali, pur privi di importanza scientifica, danno testimonianza della sua curiosità e del suo spirito di osservazione. Nel 1807 scrive le Lamentazioni, poemetto di nove canti in versi sciolti, con atmosfere notturne, la Battaglia celtica, entrambe a imitazione di Cesarotti, allora in gran voga, e La Morte della Morte, del 1810, è un poemetto scherzoso in ottave, scritto a imitazione d Francesco Berni.
Nel 1812 Belli entra con il nome Tirteo Lacedemonio nell'Accademia degli Elleni, istituto filo-francese fondato nel 1805. Nel 1813 una scissione porta alla fondazione dell'Accademia Tiberina, alla quale passa Belli. La nuova Accademia comprende gli oppositori dell'Impero, liberali e clericali, e ha tra i membri Mauro Cappellari, futuro papa Gregorio XVI, e il principe Metternich.
Quello è anche l'anno delle opere:
- Il convito di Baldassare ultimo re degli Assirj, poemetto di due canti in terzine, d'imitazione del [[../Vincenzo Monti|Monti]],
- Il Diluvio universale,
- L'Eccidio di Gerusalemme,
- La sconfitta de' Madianiti,
- Salmi tradotti in versi sciolti,
- sonetti dedicati all'amico Francesco Spada.
Nel 1815 si volge al teatro e scrive le farse I finti commedianti e Il tutor pittore, e I fratelli alla prova, traduzione di un dramma di Benoît Pelletier-Volméranges. Nel 1816 pubblica in terzine La Pestilenza stata in Firenze l'anno di nostra salute MCCCXLVIII e nel 1817 A Filippo Pistrucci Romano. Nel 1818 entra nell'Accademia dell'Arcadia con il nome Linarco Dirceo.
Il 12 settembre 1816 Belli, che aveva appena ottenuto un impiego all'Ufficio del Registro, e Maria Conti, vedova benestante, proprietaria di terre in Umbria, si sposano e si stabiliscono in casa Conti a palazzo Poli, presso la fontana di Trevi. Libero da assilli economici, il Belli può iniziare una serie di viaggi che lo portano a visitare Venezia, Napoli, Firenze e, fondamentale per il suo sviluppo artistico, Milano, che visita nell'agosto del 1827 - dopo aver dato le dimissioni dal suo impiego statale - e vi si trattiene a lungo, ospite di un amico, l'architetto Giacomo Moraglia. A Milano, dove torna nel 1828 e nel 1829, conosce le opere di Carlo Porta e comprende la dignità del dialetto e la forza satirica che il realismo popolare è capace di esprimere.
Dell'Accademia dell'Arcadia è segretario e, dal 1850, presidente. In questa veste è responsabile della censura artistica e come tale si trova a vietare le opere di William Shakespeare.
Muore nel 1863, a causa di un colpo apoplettico ed è sepolto al Verano (Roma). Nel testamento aveva disposto che le sue opere venissero bruciate, ma il figlio non lo farà, consentendo così che siano conosciute da tutti e per sempre.
I Sonetti romaneschi
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«Io ho deliberato di lasciare un monumento di quello che oggi è la plebe di Roma. |
(Giuseppe Gioachino Belli, introduzione alla raccolta dei sonetti) |
«Non casta, non pia talvolta, sebbene devota e superstiziosa, apparirà la materia e la forma: ma il popolo è questo e questo io ricopio.» |
(Giuseppe Gioachino Belli, introduzione alla raccolta dei sonetti) |
«Io qui ritraggo le idee di una plebe ignorante, comunque in gran parte concettosa ed arguta, e le ritraggo, dirò, col concorso di un idiotismo continuo, di una favella tutta guasta e corrotta, di una lingua infine non italiana e neppur romana, ma romanesca.» |
(Giuseppe Gioachino Belli, introduzione alla raccolta dei sonetti) |
L'opera del Belli, principalmente nota per i suoi sonetti, rappresenta con felice sintesi la mentalità dei popolani romani, lo spirito salace, disincantato, furbesco e sempre autocentrico della plebe, come egli la denomina, rendendo con vivezza una costante traduzione in termini ricercatamente incolti delle principali tematiche della quotidianità.
L'aspetto ierocratico della Roma dei papi, della Roma del "Papa Re", che incrocia le vicissitudini del popolano nelle ritualità religiose e nelle liturgie giuridiche, nell'immanenza politica come nella sacralizzazione del pratico, è sempre, in ogni verso svolto nell'ottica del vulgus, che sue proprie conclusioni trae secondo quanto di sua percezione. In questo senso è stato discusso se l'opera belliana, come inizialmente accadde, possa ancora tout-court ascriversi al verismo, che intanto dava migliori prove nella prosa, o se invece non sia il caso di riconsiderarla fra le categorie che, avvicinandosi al picaresco per tematiche e contestualizzazioni, trovano un certo fattore comune nella forma della poesia dialettale italiana.
Da un punto di vista letterario, si tratta della produzione più corposa della poesia dialettale italiana dell'Ottocento, e, in termini linguistici, si tratta di un documento di inestimabile valore sulle mille possibili articolazioni del romanesco, di cui isola un tipo oramai classico, mentre il tempo trascorso ha provveduto a farlo evolvere.
A chi vi veda (posizione non maggioritaria) solo un carattere di poesia minore, personalistica, ad usi familiari, si contrappone chi vi riconosce il registro storico di una fase culturale popolare, un secolo prima che l'esigenza di catalogare e studiare e, prima ancora, di raccogliere, gli elementi espressivi dei ceti bassi, certamente quelli anche proverbiali, divenisse sentimento diffuso. Il corpo dei sonetti raggiunge anche un obiettivo non secondario delle opere letterarie, il piacere della lettura, agevolato dalla costante ed intrigante trasparenza del personale diletto dell'Autore nella sua estensione.
Eppure il realismo è parte del modo narrativo belliano, quantunque non esclusivo. Del realismo Belli fu certo attento osservatore, avendone peraltro selezionato materiale per il suo Zibaldone, ma l'inclinazione verso una satira di sistema, velenosa proporzionalmente alla presunta impossibilità di portare a moralistica "redenzione" i cattivi costumi che punge, sposta la classificabilità verso parametri solo apparentemente più "leggeri", e difatti dell'opera si hanno inquadramenti nelle categorie dell'umorismo, della "cronica", del lazzo e - per estremo - della letteratura scandalistica. Come per altre opere di tutte le letterature, al piacere di degustarne l'arguzia, si è spesso aggiunta la morbosità per la dirompente frequenza di ricorso a termini e locuzioni, o proprio a situazioni tematiche, di drastico scandalo.
Al Belli che di fatto componeva un'opera moraleggiante, senza limiti e senza rispetto delle inibizioni "morali" della letteratura ufficiale, con l'aggravante di essere egli censore ufficiale per ragioni di pubblica moralità, non si riconobbe se non sottovoce, quasi clandestinamente, valore letterario, almeno sin quando (nella seconda metà del Novecento) la cultura ufficiale non prese atto, restituendolo come nozione, che presso il popolo erano in uso il turpiloquio e la semplificazione in senso materiale delle tematiche riguardanti la religione (il Timor di Dio), il pudore sessuale e altri argomenti di pari delicatezza.
I sonetti, 2 279 per circa 32 000 versi – più del doppio dei versi della Divina Commedia dantesca –, sono spesso accostati alla proverbialistica poiché nel loro complesso dipingono con ampiezza di dettaglio la filosofia dei romaneschi del tempo (da non confondersi con i romani, ai quali il poeta diceva di appartenere), costituendone impercettibilmente, come dall'autore stesso dichiarato, "monumento".