Dante e la critica
In un non molto ampio, ma succoso saggio apparso presso SANSONI nel 1975, G. PADOAN, a proposito degli studi attuali sul significato generale della “Commedia”, scriveva che la ricerca ormai tende a orientarsi verso un'indagine sempre più serrata del retroterra culturale entro cui si colloca l'opera maggiore di Dante. Ciò, soprattutto, come reazione alla selva selvaggia delle interpretazioni, iniziate col Romanticismo e protrattesi fino a Benedetto Croce e ai suoi epigoni.
Il Romanticismo nell'opera dantesca esaltò la figura dell'esule solitario e pugnace contro i colpi del destino; in alcuni personaggi della “Commedia”, Farinata ad esempio, volle individuare il profondo amore di patria; in Ulisse esaltare l'ansia di conoscenza.
La critica crociana sviluppò, per conto suo, una esegesi oltremodo riduttiva, proponendo infatti una lettura cursoria del poema dantesco, secondo i canoni della Poesia e non Poesia, tendendo a porre in evidenza i momenti lirici e a relegare fra l'inutile ingombro dottrinario tutto quanto appariva ideologia, politica, filosofia: sovrastruttura, per dirla in breve.
I due metodi critici cui si accennava poc'anzi, appaiono, alla luce della critica moderna, errati e anche fuorvianti: comunque non idonei a una retta comprensione della “Commedia”.
La critica più avanzata propone invece una lettura integrale, senza salti arbitrari, del Poema Sacro, e, in questa prospettiva, uno studio il più profondo possibile della cultura del tempo di Dante, dato ineliminabile per chi vuole veramente comprendere il messaggio dell'opera dantesca.
Su questa scia, ottimi sono apparsi in Italia il commento di Natalino Sapegno, che già agli inizi degli anni'50 proponeva una maggiore adesione al tessuto culturale dei tempi di Dante; e i numerosi interventi di Bruno Nardi; fra gli stranieri, particolarmente stimolanti sono apparsi gli studi di Erich Auerbach.
L'indirizzo della critica sembra quindi essere il seguente: un sostanziale recupero del Dante Medioevale.
In una conferenza tenuta a Modena nel 1965 sullo “Sviluppo del Pensiero e dell'Arte di Dante”, Bruno Nardi, riassumendo anche molti studi svolti in precedenza, sottolineò l'importanza enorme che ebbe lo studio della filosofia nell'evoluzione del pensiero di Dante, e come una conoscenza di essa sia assolutamente necessaria per una corretta interpretazione di tutta quanta la sua opera.
Ricordava, tra l'altro, l'influenza assai notevole che ebbe su Dante il suo primo amico, Guido Cavalcanti, il quale lo indirizzò, dopo la morte di Beatrice, verso le scuole dei “filosofanti” di Bologna e Firenze; di qui sembrerebbe avere origine quella poesia filosofica rappresentata dalla canzone “Voi che 'ntendendo... ”.
Dalle meditazioni filosofiche e dal duro impatto con l'esilio e infine dalle considerazioni sulla società contemporanea, nascevano le riflessioni dantesche intorno all'importanza dell'impero e del papato, dalla cui concordia doveva scaturire una società nuova, che si doveva governare secondo le leggi stabilite da Cristo.
Tali meditazioni, secondo Nardi, costituirono una vera folgorazione per Dante, che, ormai, alla stregua di Gioachino da Fiore, ”di spirito profetico dotato”, si sentì investito di una missione divina; quella cioè di essere il poeta-profeta del suo tempo.
Non meno importanti e significativi sono apparsi i numerosi contributi, veramente eccezionali per acume e dottrina, di E. Auerbach, in gran parte raccolti nel volume “Studi su Dante”, edito da Feltrinelli.
Ci si riferisce in modo particolare al saggio “Figura”, che apre le porte a una lettura molto più feconda della “Commedia”.
In contrapposizione all'allegoria, per la quale i personaggi danteschi sono visti semplicemente come simboli di qualità morali, l'interpretazione figurale auerbachiana è qualcosa di eccezionalmente più profondo.
In forza di essa, i personaggi diventano prefigurazioni esemplari di un qualcosa che deve accadere e che ha avuto il suo compimento in Dio.
In più, essi non perdono nulla della loro consistenza storica e fisica: Catone, ad esempio, è stato l'uomo che ha compiuto determinate azioni, ma egli è anche storicamente figura, o, per meglio dire, prefigurazione di un qualcosa che doveva realizzarsi in futuro.
Secondo Auerbach, la capacità interpretativa figurale permeava di sé le menti degli uomini del Medioevo, cosicché essi non duravano alcuna fatica a interpretare determinati aspetti delle opere poetiche contemporanee.
Tale capacità sarebbe infine durata sin quasi al XIII secolo, dopo di che noi ne avremmo perduto completamente il senso e il valore.
Dante e la critica attraverso i secoli (2)
[modifica]Il presente contributo intende offrire un rapido quadro di riferimento di quella che giustamente è stata definita la “varia fortuna di Dante” (Carlo Dionisotti) attraverso i secoli. Si tratta ovviamente di brevi note, che devono essere integrate con ben altre letture.
Dante godette di grande prestigio presso i contemporanei; ne fa fede l'opera del suo ammiratore per eccellenza, Giovanni Boccaccio, che ci ha tramandato un “De origine vita, studiis et moribus Dantis Aligerii”, meglio conosciuto come “Trattatello in laude di Dante” e un “Comento” sopra la “Commedia” che ancor oggi costituiscono fonti imprescindibili di approfondimento e di discussione storiografica.
La fama di Dante fu addirittura “popolare”: l'aneddotica ricorda come i versi della “Commedia” corressero anche sulle bocche di popolani illetterati.
Al di là dell'aneddoto, furono decine i commentatori del poema dantesco a pochi anni dalla scomparsa del poeta: si ricordano qui rapidamente i commenti dello stesso figlio di Dante, Jacopo, nonché quello del Bambaglioli, del Buti e dell'Anonimo Fiorentino, nonché il fatto che la tradizione manoscritta della “Commedia” può contare oltre seicento codici.
Petrarca nutrì, facendo un po' scuola, forti pregiudizi nei confronti delle opere volgari di Dante, ma la cosa si spiega con il fatto che il poeta aretino, protoumanista, prediligeva scrivere in latino, lingua ritenuta a tutti gli effetti superiore al volgare. Qualcuno, già fra i contemporanei, più maliziosamente, ventilò l'ipotesi di una sorta di “gelosia” del Petrarca nei confronti di Dante.
La fonte principale della dubbia stima del Petrarca verso Dante è costituita da una lettera datata 1359 (“Ad familiares”, XXI, 15), che nonostante la sua importanza storiografica è davvero poco nota al grande pubblico, anche perché, a mio avviso, quasi mai presente nelle antologie scolastiche.
Data quindi la rarità, ne presento in traduzione alcuni passi salienti, di modo che il lettore possa farsi una qualche idea delle riflessioni del Petrarca su Dante, di cui, come si vedrà, rimarca subito qualcosa di insufficiente riguardo allo stile, mentre ne riconosce l'altezza dei contenuti. Rispondendo quindi a una lettera del Boccaccio, Petrarca scrive:
“ Molte cose sono nella tua lettera che non hanno bisogno di risposta…Ma di due non debbo tacere, e su di esse ti dirò il mio pensiero. In primo luogo, tu mi chiedi scusa, e non senza perché, di aver fatto grandi lodi di un nostro concittadino, popolare per quel che riguarda lo stile, ma indubbiamente nobile per il contenuto; e ti scusi in modo, da sembrare ch'io stimi le lodi di lui o di chiunque altro recar danno alla mia gloria; e perciò tu aggiungi che, se ben considero, tutto il bene che dici di lui ridonda a mia gloria.
Dici anche chiaramente, a giustificazione delle tue lodi, che quand'eri giovinetto egli fu la prima guida e primo lume dei tuoi studi; sentimento giusto, grato, memore e, per parlar più propriamente, pieno di pietà… [ Ma si è divulgata fra i malevoli una strana voce, continua il Petrarca]… sul giudizio ch'io fo di quel poeta [=Dante]. Poiché chi mi vuol male dice ch'io l'odio e disprezzo… A costoro risponderà per me la verit
Prima di tutto, io non ho nessuna ragione d'odio verso un uomo che non ho neppure mai veduto, se non una volta sola nella mia infanzia… L'altra calunniosa accusa che mi si fa è che io, che fin dalla prima età in cui avidamente si coltivano gli studi, mi compiacqui tanto di far raccolta di libri, non abbia mai ricercato il libro di costui, e mentre con tanto ardore mi diedi a raccoglier libri quasi introvabili, di quello solo, che era alla mano di tutti, stranamente non mi sia curato. Confesso che è così, ma nego di averlo fatto per le ragioni ch'essi dicono… Mentiscono dunque quelli che affermano ch'io cerchi di diminuir la sua gloria… Per quel che mi riguarda io l'ammiro e l'amo, non lo disprezzo…
Questo solo [ho da dire]… che egli fu un po' disuguale, perché è più eccellente negli scritti in volgare che non in quelli in poesia e in prosa latina; e questo neppur tu negherai…”. (F. Petrarca, “Familiarium rerum libri”, in “Opere”, Firenze, Sansoni, 1992, traduzione di Enrico Bianchi, pp. 1127–1134. )
Il Petrarca insomma ebbe una posizione del tutto opposta a quella del suo amico Boccaccio, il quale, come abbiamo visto, dimostrò in tutta la sua vita un'ammirazione sconfinata per Dante, di cui studiò e commentò l'opera, senza disdegnare gli studi eruditi, e in tal direzione ricavando informazioni preziose sulla vita di Dante soprattutto a Ravenna, parlando direttamente con quanti ebbero contatti con Dante. Boccaccio nei suoi viaggi si recò a Ravenna, ove incontrò la figlia di Dante, fattasi suora con il nome di Suor Beatrice.
Gli umanisti seguirono però la scia di Petrarca. In questo senso essi espressero giudizi poco lusinghieri soprattutto sul latino di Dante, ritenuto “poco raffinato”. Nonostante l'opinione corrente tra gli umanisti fosse sfavorevole a Dante, egli poté però contare tra di essi anche degli estimatori, primo fra tutti Cristoforo Landino, di cui possediamo un dotto commento della “Commedia”.
Anche il Seicento fu un secolo avverso a Dante, soprattutto perché influenzato dalla cultura umanistica, e anche per un certo atteggiamento di superiorità rispetto ai secoli precedenti, visti come rozzi. Frugoni, per esempio, diceva di stimare di più un qualsivoglia sonetto contemporaneo o un'ottava dell'Ariosto di tutta la “Commedia”.
Il Settecento non registra cambiamenti di rilievo; e d'altra parte la mentalità razionalistica di cui era permeato era decisamente poco adatta alla comprensione dell'opera dantesca. Basti pensare che Voltaire ebbe a definire la “Comedìa” un poema a dir poco “bizzarro”. In Italia sono rimaste famose le stroncature del Bettinelli [“Lettere virgiliane”], cui si contrappose però in qualche maniera Gaspare Gozzi.
Fra i rari estimatori di Dante si conta però un nome di tutto rilievo, ovvero Giambattista Vico, il quale celebrò Dante ponendolo accanto a Omero, annoverando il “Divin Poeta” fra i “primitivi”, ovvero tra coloro che, al contrario dei “moderni”, avevano ancor possente la fantasia.
L'Ottocento romantico è il secolo che segna il punto di svolta per Dante. Inizia il Foscolo, che illustra storicamente il poema dantesco, facendo di Dante un uomo di parte sempre in fuga, condannato a un eterno esilio, tramandandolo ai posteri come “Il ghibellin fuggiasco”, anche se Dante era guelfo, e guelfo bianco.
Una più organica analisi dell'opera dantesca si ha con il De Sanctis, il quale vede nel poeta fiorentino il simbolo del Medioevo teologico, mistico e spirituale. Non meno importante nella rivalutazione complessiva della personalità di Dante fu Karl Vossler, che indagò con studi puntuali il pensiero filosofico, storico e politico dell'esule fiorentino. In pieno Risorgimento Dante fu materia di riflessione di uomini politici di spicco, che ebbero un ruolo di primo piano nella realizzazione dell'Unità, e qui basti pensare agli interventi di Mazzini o di altri protagonisti del Risorgimento.
Ricorda in tal senso Mario Puppo nel suo ottimo “Manuale critico-bibliografico” (p. 194) che Dante appariva a questi uomini come “il genio tipicamente nazionale e, con una interpretazione generosamente anacronistica, il profeta del Risorgimento e il creatore dell'anima nazionale, sia a coloro che, come il Balbo, il Troya, il Tommaseo, il Gioberti, ecc. , guardavano a lui con spirito cattolico e neoguelfo, sia a coloro, come il Foscolo, il Mazzini, il Guerrazzi, il Piccolini, ecc. che leggono nelle sue opere i preannunzi della loro concezione ghibellina e laicista”.
Su quella che potremmo definire non solo la “varia” fortuna di Dante tra la fine del Settecento e il nostro Ottocento romantico e patriottico, ma anche la varia storia della sua, diciamo così, “strumentalizzazione politica”, rimando comunque alle fondamentali riflessioni di Carlo Dionisotti, che in “Geografia e storia della letteratura italiana” [Einaudi, 1967] ha ricreato gli umori delle classi dirigenti dell'epoca, spiegando le ragioni politiche, a volte personali, che portarono a una rivalutazione integrale del poeta prima e dopo l'Unità d'Italia, allorché fu proposto come “padre della patria” e “padre della lingua italiana”.
Il saggio di Dionisotti, che gronda dottrina a ogni riga, è, credo, quanto di meglio la nostra storiografia abbia prodotto a livello interpretativo degli orientamenti politico-letterari degli intellettuali italiani dalla fine del Settecento lungo tutto l'Ottocento e oltre.
“…Nel 1793, osserva Dionisotti, Dante riapparve d'un colpo a tutta Italia, non più come il remoto e venerando progenitore, ma come maestro presente e vivo della nuova poesia e letteratura, nei canti di un poema, la “Basvilliana” del Monti, che dava anima e voce alla reazione antifrancese e antigiacobina provocata dal Terrore…” [pp. 258-259].
“… Nel 1865 il centenario della nascita di Dante fu solennemente celebrato in Firenze divenuta appunto allora capitale del nuovo Regno d'Italia. Non è facile per noi oggi misurare esattamente le cose familiari e pur così remote di cent'anni fa… Nulla di simile a quella celebrazione si era mai vista prima in Italia, né si vide poi… Sul piano accademico la celebrazione centenaria del 1865 fu altrettanto imponente.
La miscellanea di studi che allora fu pubblicata in Firenze sul tema “Dante e il suo secolo” occupava due volumi in folio di poco meno che mille pagine. Si stenta a credere che l'Italia di allora, con un sistema universitario e scolastico da pochi anni ricostituito “ex novo” e ancora in fase sperimentale, potesse produrre un tal monumento a stampa” [p. 280].
C'è da chiedersi, e Dionisotti se lo chiede, perché, appena varcata la soglia dell'Unità, Dante contò tanti adepti e sostenitori. La cosa, è evidente, andava oltre il puro e semplice valore letterario dell'opera. Fatta l'Unità, in Dante si vide un po' il “cemento” che doveva tenere unito un paese che aveva tradizioni regionali estremamente diverse.
Insomma, come rileva Dionisotti, non bisogna dimenticare che il culto di Dante si riaffermava in un momento cruciale della storia italiana, pieno di “difficoltà e asprezze che il compimento dell'unità avrebbe senza dubbio imposto” [p. 280].
Aggiungerei che è un po'lo stesso fenomeno cui stiamo assistendo ai giorni nostri, in cui notiamo un eccezionale “revival” di Dante e della “Commedia”. In tempi come i nostri, dove il sentimento unitario sembra indebolito e si affacciano alla scena della storia d'Italia nuovi orizzonti federalisti che taluno interpreta invece come forieri di “separatismo”, il ricorso a Dante e alle numerose “letture” della “Commedia”, da quella di Gassman a quella di Benigni, per non citare che le più famose, potrebbero sembrare rispondere a un'operazione politica tesa, attraverso l'opera di Dante, “padre della lingua italiana”, a rafforzare il sentimento nazionale.
Tra Otto e Novecento la metodologia crociana, basata su una lettura rapsodica del poema, tesa a separare la “poesia” da tutto ciò che era “sovrastruttura”, ovvero storia, filosofia o altro, fu continuata dal Momigliano. A questa lettura di derivazione crociana si contrapposero quanti volevano salvare in qualche modo l'unità del poema, e tra questi potremmo citare Luigi Russo.
Sotto l'aspetto filologico-linguistico, a parte gli studi di Auerbach, in Italia si contano critici prestigiosi, dal D'Ovidio al Parodi, dallo Schiaffini fino a Gianfranco Contini, ritenuto giustamente uno dei più insigni filologi del Novecento. Inutile dire che una così rapida rassegna della critica dantesca non può essere che schematica e molto sommaria. Con ciò, nella vastissima letteratura sulla critica dantesca vorrei citare in conclusione almeno tre volumi che possono dare a chi è interessato al tema un'idea ben più precisa delle questioni toccate.
- F. Maggini, “La critica dantesca dal ‘300 ai nostri giorni”, in “Questioni e correnti di storia letteraria”, Milano, Marzorati, 1949, pp. 123–166.
- M. Puppo, “Manuale critico-bibliografico per lo studio della letteratura italiana, Torino, SEI, 1989 e successive edizioni.
- C. Dionisotti, “Varia fortuna di Dante”, in “Geografia e storia della letteratura italiana”, Torino, Einaudi, 1967, pp. 255–303.