''L'Infinto'' di Giacomo Leopardi (superiori)

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''L'Infinto'' di Giacomo Leopardi (superiori)
Tipo di risorsa Tipo: lezione
Materia di appartenenza Materia: Italiano per le superiori 2
Avanzamento Avanzamento: lezione completa al 100%
Il secondo manoscritto autografo

L'infinito è una delle liriche più famose dei Canti di Giacomo Leopardi. Il poeta la scrisse negli anni della sua prima giovinezza a Recanati, sua cittadina natale, nelle Marche. Le stesure definitive risalgono agli anni 1818-1819.

La lirica, composta da 15 endecasillabi sciolti, appartiene alla serie di scritti pubblicati nel 1826 con il titolo "Idilli". Oltre all' Infinito, in questa serie sono presenti anche altre note liriche, come Alla luna e La sera del dì di festa. Il termine greco "idillio" (εἰδύλλιον), di solito riferito a componimenti poetici incentrati sulla descrizione di scene agresti, subisce, con Leopardi, una ridefinizione: negli idilli leopardiani sono assenti le tematiche bucoliche proprie dei componimenti scritti dai poeti greci Teocrito, Mosco, Bione, e da poeti bucolici latini (Virgilio, Calpurnio Siculo e Nemesiano), poi imitati in età umanistica e rinascimentale da Jacopo Sannazaro e da Torquato Tasso. L'idillio leopardiano è un componimento connotato da un forte intimismo lirico: in esso l'elemento del paesaggio naturale (spesso privo dei connotati del paesaggio ideale antico) è strettamente legato all'espressione degli stati d'animo dell'uomo. Tale espressione del proprio io, non vuole essere una fuga nell'irrazionale o nel sogno (come accade nella lirica romantica), ma solo una nuova occasione di un'ampia riflessione sul tempo, sulla storia, e sul triste destino degli uomini. Gli idilli leopardiani, inoltre, presentano differenze stilistiche rispetto ad altre composizioni, in particolare colpisce l'abile e sapiente mescolanza di registri linguistici che spazia da quello letterario (Ermo colle) a quello semplice, piano e colloquiale (Sempre caro). Questo idillio si divide in due parti ben distinte: nella prima il poeta esprime concetti a lui usuali mentre, nella seconda, usa l'immaginazione e si perde nell'infinito.

Il manoscritto originale è conservato presso la biblioteca nazionale di Napoli, insieme ad altre opere del poeta. Un secondo manoscritto, con molti altri autografi, è conservato nel Museo dei manoscritti del comune di Visso in provincia di Macerata. Nel mese di ottobre 2016, in seguito al terremoto che ha colpito la zona, questi manoscritti sono stati provvisoriamente trasferiti a Bologna.

L'Autore[modifica]

Giacomo Leopardi, autore della lirica

Il conte Giacomo Leopardi (al battesimo Giacomo Taldegardo Francesco di Sales Saverio Pietro Leopardi; Recanati, 29 giugno 1798 – Napoli, 14 giugno 1837) è stato un poeta, filosofo, scrittore, filologo e glottologo italiano.

È ritenuto il maggior poeta dell'Ottocento italiano e una delle più importanti figure della letteratura mondiale, nonché una delle principali del romanticismo letterario; la profondità della sua riflessione sull'esistenza e sulla condizione umana – di ispirazione sensista e materialista – ne fa anche un filosofo di notevole spessore. La straordinaria qualità lirica della sua poesia lo ha reso un protagonista centrale nel panorama letterario e culturale europeo e internazionale, con ricadute che vanno molto oltre la sua epoca.

Leopardi, intellettuale dalla vastissima cultura, inizialmente sostenitore del classicismo, ispirato alle opere dell'antichità greco-romana, ammirata tramite le letture e le traduzioni di Mosco, Lucrezio, Epitteto ed altri, approdò al Romanticismo dopo la scoperta dei poeti romantici europei, quali Byron, Shelley, Chateaubriand, Foscolo, divenendone un esponente principale, pur non volendo mai definirsi romantico. Le sue posizioni materialiste – derivate principalmente dall'Illuminismo – si formarono invece sulla lettura di filosofi come il barone d'Holbach[4], Pietro Verri e Condillac, a cui egli unisce però il proprio pessimismo, originariamente probabile effetto di una grave patologia che lo affliggeva ma sviluppatesi successivamente in un compiuto sistema filosofico e poetico:

«Questo io conosco e sento, / Che degli eterni giri,
Che dell'esser mio frale, / Qualche bene o contento
Avrà fors'altri; a me la vita è male»

(Giacomo Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell'Asia, vv.100-104)

Il dibattito sull'opera leopardiana a partire dal Novecento, specialmente in relazione al pensiero esistenzialista fra gli anni trenta e cinquanta, ha portato gli esegeti ad approfondire l'analisi filosofica dei contenuti e significati dei suoi testi. Per quanto resi specialmente nelle opere in prosa, essi trovano precise corrispondenze a livello lirico in una linea unitaria di atteggiamento esistenziale. Riflessione filosofica ed empito poetico fanno sì che Leopardi, al pari di Schopenhauer, Kierkegaard, Nietzsche e più tardi di Kafka, possa essere visto come un esistenzialista o almeno un precursore dell'Esistenzialismo.

Il Testo e la Parafrasi[modifica]

«Sempre caro mi fu quest'ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quïete
io nel pensier mi fingo, ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l'eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s'annega il pensier mio:
e il naufragar m'è dolce in questo mare.»

«Sempre caro mi è stato questo colle solitario
e anche questa siepe, che impedisce alla mia vista
una buona parte dell'orizzonte più lontano.
Ma stando seduto e fissando lo sguardo sulla siepe,
io immagino spazi sterminati al di là di quella,
silenzi che vanno al di là della dimensione umana
e profondissima quiete, tanto che per poco
il cuore non si turba e si smarrisce. E non appena odo
le fronde delle piante stormire al vento, così paragono
il silenzio di quegli spazi a quel rumore:
e istintivamente mi viene in mente l'idea dell'eternità,
le ere storiche già trascorse e dimenticate, e quella attuale e
ancor viva, con il suo suono. In questo modo il mio pensiero
sprofonda in quest'immensità:
ed è dolce naufragare in questo mare.»

L'Analisi del Testo[modifica]

In questo idillio, composto in endecasillabi sciolti, con il ricorso continuo all'enjambement il poeta ottiene significativi effetti di straniamento, giocando con l'enfasi che le parole chiave della poesia, tutte attinenti alla sfera semantica dell'infinito filosofico di matrice neo-spinoziana, ricevono dalla loro collocazione a ridosso della pausa finale del verso. Agli effetti di enfasi e straniamento derivanti dalla struttura metrico-verbale si aggiungono gli effetti derivanti dal gioco delle allitterazioni e delle assonanze che caratterizzano le parti centrali della lirica. Rivestono una funzione speciale appunto le assonanze con /a/ posta in sillaba aperta accentata (e perciò allungata, secondo le tendenze della fonetica della lingua italiana), in parole come "interminati", "sovrumani" o "mare". Una funzione particolare, tesa a descrivere lo stato contemplativo del poeta, ha l'isocolia fra i due gerundi]"sedendo e mirando", che rasentano l'accostamento paronomastico.

Nonostante gli occasionali iperbati, sul piano sintattico, l'Infinito ha un giro di frase estremamente semplice ed essenzialmente basato sulla paratassi. Fra le poche proposizioni subordinate prevalgono peraltro le relative attributive esplicite o implicite e l'uso dei gerundi, che sono di fatto poco più che espansioni nominali e avverbiali della proposizione reggente. L'intero componimento si articola in quattro lunghi periodi, di cui solo il primo e l'ultimo terminano effettivamente in fin di verso.

Lo stesso si nota sul piano del lessico: l'intera poesia è centrata su termini attinenti alla sfera semantica dell'indefinitezza: ne deriva la costruzione poetica di un nuovo tipo di misticismo, basato sull'immedesimazione dell'uomo con l'assolutezza dell'ordine di un universo regolato da una necessità inesorabile di per sé indifferente ai destini dell'individuo. Al confine fra morfologia e lessico, l'impiego dei pronomi dimostrativi "questo" o "quello", con le loro connotazioni locali, sottolinea un cammino di immedesimazione, definito secondo i gradi di una climax ascendente, che dai confini spaziali dell'ego ("quest'ermo colle e questa siepe" "queste piante") porta il poeta a fondersi con l'assoluto ("questa immensità", "questo mare") in un processo di indiamento, che suggerisce in definitiva la presenza, nel poeta, di un teismo pratico ancorato a una visione panteistica della realtà: questo misticismo fa di Leopardi l'unico poeta italiano che abbia veramente saputo esprimere la dimensione interiore della Sehnsucht (struggimento nostalgico per l'assoluto) propria del romanticismo europeo. Più avanti, ai tempi della lirica A se stesso e dell'incompiuto Inno ad Arimane, conservatoci nello Zibaldone, il Dio-Natura di Leopardi si preciserà una volta per tutte come un dio cattivo, in una visione che è stata designata con l'etichetta di pessimismo cosmico, e che in realtà sarebbe meglio indicare come negativismo ontologico, il che porterà il poeta di Recanati a superare le visioni romantiche, anticipando tematiche tipiche del Novecento.

L'impiego dei pronomi dimostrativi che si riscontra nell'Infinito avrà fra l'altro un peso determinante nell'evoluzione dello stile del primo Giuseppe Ungaretti.

Nel componimento si ripete due volte lo schema seguente: sensazione, fantasia, sentimento. Nella prima parte incontriamo una sensazione visiva (sguardo impedito dalla siepe), la fantasia (immaginazione di mondi sterminati e silenziosi), il sentimento ("ove per poco il cor non si spaura"). Nella seconda parte troviamo una sensazione auditiva (vento che stormisce tra le piante), la fantasia (eternità, trascorrere del tempo), il sentimento ("e il naufragar m'è dolce in questo mare").