''Il Fu Mattia Pascal'' di Luigi Pirandello (superiori)

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''Il Fu Mattia Pascal'' di Luigi Pirandello (superiori)
Tipo di risorsa Tipo: lezione
Materia di appartenenza Materia: Italiano per le superiori 1
Avanzamento Avanzamento: lezione completa al 100%
Il fu Mattia Pascal
Luigi Pirandello
AutoreLuigi Pirandello
1ª ed. originale1904
Genereromanzo
Lingua originaleItaliano ottocentesco volgare
Ambientazionefine '800 - inizi '900.
ProtagonistiMattia Pascal (Adriano Meis)
Altri personaggiRoberto Pascal, zia Scolastica, Batta Malagna, Romilda Pescatore, Marianna Dondi (vedova Pescatore), Oliva, Anselmo Paleari, Adriana Paleari, la signorina Caporale, Pinzone, Terenzio Papiano, Scipione Papiano, Gerolamo Pomino

Il Fu Mattia Pascal è un celebre romanzo di Luigi Pirandello che apparve dapprima a puntate sulla rivista "Nuova Antologia" nel 1904 e che fu pubblicato in volume nello stesso anno. Fu il primo grande successo di Pirandello,scritto in un momento difficile della sua vita. Il romanzo funge da modello, sia da un punto di vista narrativo che tematico, per la letteratura italiana del nuovo secolo. Nuova, nel panorama italiano, è la figura dell'antieroe, trattandosi del primo prototipo di personaggio inetto. L'originalità strutturale e stilistica consiste nel racconto retrospettivo (quando la storia viene raccontata, i fatti sono già accaduti), condotto in prima persona in una sorta di lungo monologo : Mattia Pascal è sia il narratore che rievoca i fatti con lo sguardo distaccato di chi ha ormai assistito alla conclusione della storia, sia il protagonista, travolto dalla storia stessa.

L'Autore[modifica]

Per approfondire questo argomento, consulta la pagina Luigi Pirandello (superiori).
Luigi Pirandello

Luigi Pirandello (Girgenti, 28 giugno 1867 – Roma, 10 dicembre 1936) è stato un drammaturgo, scrittore e poeta italiano, insignito del Premio Nobel per la letteratura nel 1934. Per la sua produzione, le tematiche affrontate e l'innovazione del racconto teatrale è considerato tra i maggiori drammaturghi del XX secolo. Tra i suoi lavori spiccano diverse novelle e racconti brevi (in lingua italiana e siciliana) e circa quaranta drammi, l'ultimo dei quali incompleto.

La Trama[modifica]

Per approfondire su Wikipedia, vedi la voce Il fu Mattia Pascal.

Mattia Pascal vive a Miragno, immaginario paese della Riviera Ligure, dove il padre ha fatto fortuna con la miniera di zolfo. Alla morte del padre, le proprietà di famiglia sono affidate al disonesto e astuto amministratore Batta Malagna che riesce ad appropriarsi dell'intero patrimonio. Per vendetta, Mattia organizza una beffa erotica : seduce Romilda Pescatore, dalla quale Malagna vorrebbe un figlio, ma mette incinta anche Olivia, la moglie di Batta Malagna, fino ad allora creduta sterile. Così Malagna riconosce il figlio di Olivia, mentre Mattia è costretto a nozze riparatrici con Romilda. La vita familiare si rivela presto insostenibile, tra una moglie non amata, una suocera insopportabile, le scarse condizioni economiche (anche se Mattia trova un impiego presso la biblioteca). Intanto diventa padre di due gemelle : una muore pochi giorni dopo, l'altra dopo un anno, contemporaneamente alla madre di Mattia, che pensa addirittura al suicidio. Dopo l'ennesimo litigio con Romilda e la suocera, decide di andare a Marsiglia e imbarcarsi per l'America; ma, giunto a Nizza, approda al casino di Montecarlo, dove vince una forte somma alla roulette. Sulla via del ritorno, apprende dai giornali che la moglie e la suocera hanno riconosciuto in lui il cadavere sfigurato di un suicida. Decide allora di cambiare identità e di iniziare una nuova vita.

Con lo pseudonimo di Adriano Meis, dopo aver visitato città italiane e straniere, si stabilisce a Roma dove prende alloggio in una pensione. Qui si innamora, ricambiato, di Adriana, la figlia del padrone di casa, Anselmo Paleari, che è insidiata dal cognato, Terenzio Papiano (vedovo di un'altra figlia del Paleari). Ma il non avere un'identità anagrafica si rivela un problema insormontabile: non può sposare Adriana, non può denunciare il furto subìto da Terenzio; sfidato a duello dal pittore spagnolo Beraldez, non può accettare (senza documenti non trova i padrini necessari al duello). Decide allora di simulare il suicidio di Adriano Meis e di ritornare ad essere Mattia Pascal.

Ma una volta tornato a Mignano, scopre che tutto è cambiato : la moglie si è risposata con Pomino e ha avuto una bambina; il suo posto di bibliotecario è stato preso da un altro; la gente del paese lo evita. Così, privo di un'identità certa, si rifugia nella vecchia biblioteca dove comincia a scrivere la storia di Mattia Pascal, del quale in tanto in tanto va a visitare la tomba.

Il Brano: "Io e l'Ombra Mia" da Il Fu Mattia Pascal[modifica]

Adriana porta a Mattia-Adriano la nota di pagamento dell'oculisa per l'operazione di correzione all'occhio strabico che egli ha appena subito, ma quando l'uomo si dispone a darle il denaro da consegnare al servo del medico si accorge di essere stato derubato di docimila lire. È stato certamente Papiano, cognato di Adriana, un losco figuro che la ragazza vorrebbe subito denunciare, ma Mattia-Adriano, privo di stato civile, non puo' permettersi di farlo e, dopo aver calmato la donna che ama, esce disperato per le vie della città.

«Mi recai allo stipetto a muro, in cui tenevo il denaro. Allora Adriana accennò di volersene andare; io stupido, la trattenni; ma, già, come potevo prevedere? In tutti gl’impicci miei, grandi e piccini, sono stato, come s’è visto, soccorso sempre dalla fortuna. Ora ecco com’essa, anche questa volta, mi venne in ajuto.

Facendo per aprire lo stipetto, notai che la chiave non girava entro la serratura: spinsi appena appena e, subito, lo sportellino cedette: era aperto!

— Come! — esclamai. — Possibile ch’io l’abbia lasciato così?

Notando il mio improvviso turbamento, Adriana era diventata pallidissima. La guardai, e:

— Ma qui... guardi, signorina, qui qualcuno ha dovuto metter le mani!

C’era dentro lo stipetto un gran disordine: i miei biglietti di banca erano stati tratti dalla busta di cuojo, in cui li tenevo custoditi, ed erano lì sul palchetto sparpagliati. Adriana si nascose il volto con le mani, inorridita. Io raccolsi febbrilmente quei biglietti e mi diedi a contarli.

— Possibile? — esclamai, dopo aver contato, passandomi le mani tremanti su la fronte ghiaccia di sudore.

Adriana fu per mancare, ma si sorresse a un tavolinetto lì presso e domandò con una voce che non mi parve più la sua:

— Hanno rubato?

— Aspetti... aspetti... Com’è possibile? — dissi io.

E mi rimisi a contare, sforzando rabbiosamente le dita e la carta, come se, a furia di stropicciare, potessero da quei biglietti venir fuori gli altri che mancavano.

— Quanto? — mi domandò ella, scontraffatta dall’orrore, dal ribrezzo, appena ebbi finito di contare.

— Dodici... dodici mila lire... — balbettai. — Erano sessantacinque... sono cinquantatre! Conti lei...

Se non avessi fatto a tempo a sorreggerla, la povera Adriana sarebbe caduta per terra, come sotto una mazzata. Tuttavia, con uno sforzo supremo, ella potè riaversi ancora una volta, e singhiozzando, convulsa, cercò di sciogliersi da me che volevo adagiarla su la poltrona e fece per spingersi verso l’uscio:

— Chiamo il babbo! chiamo il babbo!

— No! — le gridai, trattenendola e costringendola a sedere. — Non si agiti così, per carità! Lei mi fa più male... Io non voglio, non voglio! Che c’entra lei? Per carità, si calmi. Mi lasci prima accertare, perché... sì, lo stipetto era aperto, ma io non posso, non voglio credere ancora a un furto così ingente... Stia buona, via!

E daccapo, per un ultimo scrupolo, tornai a contare i biglietti; pur sapendo di certo che tutto il mio denaro stava lì, in quello stipetto, mi diedi a rovistare da per tutto, anche dove non era in alcun modo possibile ch’io avessi lasciato una tal somma, tranne che non fossi stato colto da un momento di pazzia. E per indurmi a quella ricerca che m’appariva a mano a mano sempre più sciocca e vana, mi sforzavo di credere inverosimile l’audacia del ladro. Ma Adriana, quasi farneticando, con le mani sul volto, con la voce rotta dai singhiozzi:

— È inutile! è inutile! — gemeva. — Ladro... ladro... anche ladro!... Tutto congegnato avanti... Ho sentito, nel bujo... m’è nato il sospetto... ma non volli credere ch’egli potesse arrivare fino a tanto...

Papiano, sì: il ladro non poteva esser altri che lui; lui, per mezzo del fratello, durante quelle sedute spiritiche... [p. 237 modifica]

— Ma come mai, — gemette ella, angosciata, — come mai teneva lei tanto denaro, così, in casa?

Mi voltai a guardarla, inebetito. Che risponderle? Potevo dirle che per forza, nella condizione mia, dovevo tener con me il denaro? potevo dirle che mi era interdetto d’investirlo in qualche modo, d’affidarlo a qualcuno? che non avrei potuto neanche lasciarlo in deposito in qualche banca, giacché, se poi per caso fosse sorta qualche difficoltà non improbabile per ritirarlo, non avrei più avuto modo di far riconoscere il mio diritto su esso?

E, per non apparire stupito, fui crudele:

— Potevo mai supporre? — dissi.

Adriana si coprì di nuovo il volto con le mani, gemendo, straziata:

— Dio! Dio! Dio!

Lo sgomento che avrebbe dovuto assalire il ladro nel commettere il furto, invase me, invece, al pensiero di ciò che sarebbe avvenuto. Papiano non poteva certo supporre ch’io incolpassi di quel furto il pittore spagnuolo o il signor Anselmo, la signorina Caporale o la serva di casa o lo spirito di Max: doveva esser certo che avrei incolpato lui, lui e il fratello: eppure, ecco, ci s’era messo, quasi sfidandomi.

E io? che potevo far io? Denunziarlo? E come? Ma niente, niente, niente! io non potevo far niente! ancora una volta, niente! Mi sentii atterrato, annichilito. Era la seconda scoperta, in quel giorno! Conoscevo il ladro, e non potevo denunziarlo. Che diritto avevo io alla protezione della legge? Io ero fuori d’ogni legge. Chi ero io? Nessuno! Non esistevo io, per la legge. E chiunque, ormai, poteva rubarmi; e io, zitto!

Ma, tutto questo, Papiano non poteva saperlo. E dunque?

— Come ha potuto farlo? — dissi quasi tra me. — Donde ha potuto trârre tanto ardire?

Adriana levò il volto dalle mani e mi guardò stupita, come per dirmi: « E non lo sai? ».

— Ah, già! — feci, comprendendo a un tratto.

— Ma lei lo denunzierà! — esclamò ella, levandosi in piedi. — Mi lasci, la prego, mi lasci chiamare il babbo... Lo denunzierà subito!

Feci in tempo a trattenerla ancora una volta. Non ci mancava altro, che ora, per giunta, Adriana mi costringesse a denunziare il furto! Non bastava che mi avessero rubato, come niente, dodici mila lire? Dovevo anche temere che il furto si conoscesse; pregare, scongiurare Adriana che non lo gridasse forte, non lo dicesse a nessuno, per carità? Ma che! Adriana — e ora lo intendo bene — non poteva assolutamente permettere che io tacessi e obbligassi anche lei al silenzio, non poteva in verun modo accettare quella che pareva una mia generosità, per tante ragioni: prima per il suo amore, poi per l’onorabilità della sua casa, e anche per me e per l’odio ch’ella portava al cognato.

Ma in quel frangente, la sua giusta ribellione mi parve proprio di più: esasperato, le gridai:

— Lei si starà zitta: gliel’impongo! Non dirà nulla a nessuno, ha capito? Vuole uno scandalo?

— No! no! — s’affrettò a protestare, piangendo, la povera Adriana. — Voglio liberar la mia casa dall’ignominia di quell’uomo!

— Ma egli negherà! — incalzai io. — E allora, lei, tutti di casa innanzi al giudice... Non capisce?

— Sì, benissimo! — rispose Adriana con fuoco, tutta vibrante di sdegno. — Neghi, neghi pure! Ma noi, per conto nostro, abbiamo altro, creda, da dire, contro di lui. Lei lo denunzii, non abbia riguardo, non tema per noi... Ci farà un bene, creda, un gran bene! Vendicherà la povera sorella mia... Dovrebbe intenderlo, signor Meis, che mi offenderebbe, se non lo facesse. Io voglio, voglio che lei lo denunzii. Se non lo fa lei, lo farò io! Come vuole che io rimanga con mio padre sotto quest’onta! No! no! no! E poi...

Me la strinsi fra le braccia: non pensai più al denaro rubato, vedendola soffrire così, smaniare, disperata: e le promisi che avrei fatto com’ella voleva, purché si calmasse. No, che onta? non c’era alcuna onta per lei, nè per il suo babbo; io sapevo su chi ricadeva la colpa di quel furto; Papiano aveva stimato che il mio amore per lei valesse bene dodicimila lire, e io dovevo dimostrargli di no? Denunziarlo? Ebbene, sì, l’avrei fatto, non per me, ma per liberar la casa di lei da quel miserabile: sì, ma a un patto: che ella prima di tutto si calmasse, non piangesse più così, via! via! e poi, che mi giurasse su quel che aveva di più caro al mondo, che non avrebbe parlato a nessuno, a nessuno, di quel furto, se prima io non consultavo un avvocato per tutte le conseguenze che, in tanta sovreccitazione, nè io nè lei potevamo prevedere.

— Me lo giura? Su ciò che ha di più caro?

Me lo giurò, e con uno sguardo, tra le lagrime, mi fece intendere su che cosa me lo giurava, che cosa avesse di più caro.

Povera Adriana!

Rimasi lì, solo, in mezzo alla camera, sbalordito, vuoto, annientato, come se tutto il mondo per me si fosse fatto vano. Quanto tempo passò prima ch’io mi riavessi? E come mi riebbi? Scemo... scemo!... Come uno scemo, andai a osservare lo sportello dello stipetto, per vedere se non ci fosse qualche traccia di violenza. No: nessuna traccia: era stato aperto pulitamente, con un grimaldello, mentr’io custodivo con tanta cura in tasca la chiave.

« — E non si sente lei, — mi aveva domandato il Paleari alla fine dell’ultima seduta, — non si sente lei come se le avessero sottratto qualche cosa?

Dodici mila lire!

Di nuovo il pensiero della mia assoluta impotenza, della mia nullità mi assalì, mi schiacciò. Il caso che potessero rubarmi e che io fossi costretto a restar zitto, così, e finanche con la paura che il furto fosse scoperto, come se l’avessi commesso io e non un ladro a mio danno, non mi s’era davvero affacciato alla mente.

— Dodici mila lire? Ma poche! poche! possono rubarmi tutto, levarmi fin la camicia di dosso; e io, zitto! Che diritto ho io di parlare? La prima cosa che mi domanderebbero, sarebbe questa: « E voi chi siete? Donde vi era venuto quel denaro? » Ma senza denunziarlo... vediamo un po’! se questa sera io lo afferro per il collo e gli grido: — « Qua subito il denaro che hai tolto di là, dallo stipetto, pezzo di ladro! » — Egli strilla; nega; può forse dirmi: — « Sissignore, eccolo qua, l’ho preso per isbaglio... »? — E allora? Ma c’è il caso che mi dia anche querela per diffamazione. Zitto, dunque, zitto! M’è sembrata una fortuna l’esser creduto morto? Ebbene, e sono morto davvero. Morto? Peggio che morto; me l’ha ricordato il signor Anselmo: i morti non debbono più morire, e io sì: io sono ancora vivo per la morte e morto per la vita. Che vita infatti può esser più la mia? La noja di prima, la solitudine, la compagnia di me stesso?

Mi nascosi il volto con le mani; caddi a sedere su la poltrona.

Ah, fossi stato almeno un mascalzone! avrei potuto forse adattarmi a restar così, sospeso nell’incertezza della sorte, abbandonato al caso, esposto a un rischio continuo, senza base, senza consistenza. Ma io? Io, no. E che fare, dunque? Andarmene via? E dove? E Adriana? Ma che potevo fare per lei? Nulla... nulla... Come andarmene però così, senz’alcuna spiegazione, dopo quanto era accaduto? Ella ne avrebbe cercato la causa in quel furto; avrebbe detto: — « E perché ha voluto salvare il reo, e punir me innocente? » — Ah no, no, povera Adriana! Ma, d’altra parte, non potendo io far nulla, come sperare di rendere men trista la mia parte verso di lei? Per forza io dovevo dimostrarmi inconseguente e crudele. L’inconseguenza, la crudeltà erano della mia stessa sorte, e io per il primo ne soffrivo. Fin Papiano, il ladro, commettendo il furto, era stato più conseguente e men crudele di quel che pur troppo avrei dovuto dimostrarmi io.

Egli voleva Adriana, per non restituire al suocero la dote della prima moglie: io avevo voluto togliergli Adriana? e dunque la dote bisognava che la restituissi io, al Paleari.

Per ladro, conseguentissimo!

Ladro? Ma neanche ladro: perché la sottrazione, in fondo, sarebbe stata più apparente che reale: infatti, conoscendo egli l’onestà di Adriana, non poteva pensare ch’io volessi farne la mia amante: volevo certo farla mia moglie: ebbene allora avrei riavuto il mio denaro sotto forma di dote d’Adriana, e per di più avrei avuto una mogliettina saggia e buona: che cercavo di più?

Oh, io ero sicuro che, potendo aspettare, e se Adriana avesse avuto la forza di serbare il segreto, avremmo veduto Papiano attener la promessa di restituire, anche prima dell’anno di comporto, la dote della defunta moglie.

Quel denaro, è vero, non poteva più venire a me, perché Adriana non poteva esser mia: ma sarebbe andato a lei, se ella ora avesse saputo tacere, seguendo il mio consiglio, e se io mi fossi potuto trattenere ancora per qualche po’ di tempo lì. Molta arte, molta arte avrei dovuto adoperare, e allora Adriana, se non altro, ci avrebbe forse guadagnato questo: la restituzione della dote.

M’acquietai un po’, almeno per lei, pensando così. Ah, non per me! Per me rimaneva la crudezza della frode scoperta, quella de la mia illusione, di fronte a cui era nulla il furto delle dodici mila lire, era anzi un bene, se poteva risolversi in un vantaggio per Adriana.

Io mi vidi escluso per sempre dalla vita, senza possibilità di rientrarvi. Con quel lutto nel cuore, con quell’esperienza fatta, me ne sarei andato via, ora, da quella casa, a cui mi ero già abituato, in cui avevo trovato un po’ di requie, in cui mi ero fatto quasi il nido; e di nuovo per le strade, senza meta, senza scopo, nel vuoto. La paura di ricader nei lacci della vita, mi avrebbe fatto tenere più lontano che mai dagli uomini, solo, solo, affatto solo, diffidente, ombroso; e il supplizio di Tantalo si sarebbe rinnovato per me.

Uscii di casa, come un matto. Mi ritrovai dopo un pezzo per la via Flaminia, vicino a Ponte Molle. Che ero andato a far lì? Mi guardai attorno; poi gli occhi mi s’affisarono su l’ombra del mio corpo, e rimasi un tratto a contemplarla, infine alzai un piede rabbiosamente su essa. Ma io no, io non potevo calpestarla, l’ombra mia.

Chi era più ombra di noi due? io o lei?

Due ombre!

Là, là per terra; e ciascuno poteva passarci sopra: schiacciarmi la testa, schiacciarmi il cuore: e io, zitto; l’ombra, zitta.

— L’ombra d’un morto: ecco la mia vita...

Passò un carro: rimasi lì, fermo, apposta: prima il cavallo, con le quattro zampe, poi le ruote del carro.

— Là, così! forte, sul collo! Oh, oh, anche tu, cagnolino? Su, da bravo, sì: alza un’anca! alza un’anca!

Scoppiai a ridere d’un maligno riso; il cagnolino scappò via, spaventato; il carrettiere si voltò a guardarmi. Allora mi mossi; e l’ombra, meco, dinanzi. Affrettai il passo per cacciarla sotto altri carri, Sotto i piedi de’ viandanti, voluttuosamente. Una smania mala mi aveva preso, quasi adunghiandomi il ventre; alla fine non potei più vedermi davanti quella mia ombra; avrei voluto scuotermela dai piedi. Mi voltai; ma ecco; la avevo dietro, ora.

E se mi metto a correre, — pensai, — mi seguirà!

Mi stropicciai forte la fronte, per paura che stessi per ammattire, per farmene una fissazione. Ma sì! così era! il simbolo, lo spettro della mia vita era quell’ombra: ero io, là per terra, esposto alla mercè dei piedi altrui. Ecco quello che restava di Mattia Pascal, morto alla Stia: la sua ombra per le vie di Roma.

Ma aveva un cuore, quell’ombra, e non poteva amare; aveva denari, quell’ombra e ciascuno poteva rubarglieli; aveva una testa, ma per pensare e comprendere ch’era la testa di un’ombra, e non l’ombra d’una testa. Proprio così!

Allora la sentii come cosa viva, e sentii dolore per essa, come se il cavallo e le ruote del carro e i piedi de’ viandanti ne avessero veramente fatto strazio. E non volli lasciarla più lì, esposta, per terra. Passò un tram, e vi montai.»