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Cicerone (superiori)

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Cicerone (superiori)
Tipo di risorsa Tipo: lezione
Materia di appartenenza Materia: Letteratura latina per le superiori 2
Avanzamento Avanzamento: lezione completa al 100%

Educazione e primi esperimenti letterari

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Busto di Cicerone presso i Musei Capitolini

Marco Tullio Cicerone, l'uomo che sarebbe diventato l'esempio del travaglio del suo tempo e l'autore letterario più influente della sua epoca, detta appunto ciceroniana, nacque nel 106 a.C., nel territorio tra Sora ed Arpino. Discendente di una famiglia agiata equestre, fu educato a Roma, dove interruppe brevemente gli studi solo per partecipare alla guerra civile. Coltivò tutte le discipline che riteneva idonee per un buon oratore e che saranno al centro del suo De oratore: studiò giurisprudenza con i due Scevola, l'augure e il pontefice; filosofia con lo stoico Diodoto e l'accademico Filone di Larissa; eloquenza con Apollonio Molone di Rodi. Si dedicò anche alla poesia: si tenne in contatto con la poesia sviluppatasi nel circolo di Lutazio Catulo che era innovativa in campo stilistico e metrico proprio come lui. Più tardi, quando il cenacolo dei poetae novi porterà alle estreme conseguenze di Levio, si avvicinerà alla poesia di Ennio e dell'età gloriosa della Repubblica, così come in oratoria da una posizione anti-sillana avrà un atteggiamento di rigido conservatorismo. Interesse centrale del giovane Cicerone era sicuramente l'oratoria. Fervidi in questo periodo erano i suoi studi sulla retorica. La retorica che in questo periodo si occupava anche di materie non strettamente tecniche e che aveva esponenti in Grecia, il retore Ermagora, e a Roma, Cornificio con i suoi quattro libri pubblicati tra l'86 e l'82 a.C. intitolato Rhetorica ad Herennium, vide tra i suoi esponenti anche Cicerone che, appena ventenne, scrisse un trattato di retorica in due libri di cui completò solo la parte prima dedicata all'inventio, dato che si convinse ben presto di non avere ancora le conoscenze necessarie per una simile impresa.

L'ingresso nel Foro

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Nato nell'ambiente provinciale e severo che era ancora orgoglioso delle gesta di un altro suo concittadino, Mario, Cicerone vide Roma sempre con lo sguardo antico e ne trasse la massima che Roma doveva essere l'ambiente difensore della tradizione. Su questa idea fonderà la sua politica volendo proseguire le opere di Mario nelle sue tante battaglie politiche ricche sia di delusioni che di vittorie, come la repressione del moto catilinario, e facendosi coinvolgere in battaglie che lo porteranno alla morte, come quella contro Antonio, che per lui impersonava un pericoloso tiranno. Ma i suoi ideali si scontrarono con la realtà. Già dall'inizio la speranza di avere un avvio di carriera facile sulla scia di Mario dovette scontrarsi con la realtà di vivere in un periodo in cui dominava come dittatore l'avversario di Mario, Silla. Se, infatti, il suo ingresso nell'agone forense è segnato dall'orazione Pro Quinctio, una causa di diritto privato relativa ad una proprietà e vinta da Cicerone venticinquenne contro il temibile Ortensio che sosteneva l'accusa, la sua vera rivelazione si ebbe però solo l'anno seguente, l'80 a.C nel processo di parricidio a carico di S. Roscio Amerino, dietro cui si muoveva come motore l'onnipotente libero di Silla, Crisogono. Cicerone non si fece scrupoli a rivelare l'intrigo e a conseguire la vittoria. È chiaro che, da quel momento, l'azione di Cicerone si sarebbe sempre mossa contro le sopraffazioni violente e in un ottica di costante fedeltà ai valori morali più ovvi della convivenza sociale. Anche in questo caso si trovò ad affrontare Ortensio e lo sconfisse con la sua stessa arma, una retorica carica di effetti vistosi. Si è soliti parlare per questa età di tre indirizzi: l'asiano, l'atticista, il rodiese. Quest'ultimo avrebbe costituito una specie di via di mezzo fra gli altri due, ma la realtà era ben diversa e ad alimentare questa falsità fu lo stesso Cicerone, che voleva magnificare l'opera del suo maestro Apollonio affermandone l'originalità e l'importanza della sua scuola, che presentava la formula stilistica da prendere come indirizzo fondamentale. I maestri rodiesi non potevano conciliare l'atticismo, che ancora non esisteva (sorse a Roma nel primo secolo a.C. inoltrato), con l'asianesimo, che era sorto ad Atene proprio per influsso dell'oratore attico Carisio, imitatore di Lisia. Il termine asiaticus, che per la prima volta incontriamo nel Brutus e nell'Orator di Cicerone, fu coniato dagli oratori atticisti romani del secolo I a.C., che rimproveravano ai fautori dell'opposto indirizzo di non voler seguir il purismo arcaistico e di seguire l'asiatico Efesio, il sistematore di tale corrente retorica. L'indirizzo asiano, al contrario di quanto si era creduto, non ha carattere unitario: se Egisia imitava Lisia nello spezzettare il periodo, in contrapposizione al periodare degli oratori attici del periodo demosteneo, e il suo stile guardò alle punte brillanti, all'ingegnosità e ai concetti, nel periodo di Cicerone con Eschilo di Cnido ed Eschine di Mileto, l'asianesimo guardo invece ai vocaboli poetici e all'ampollosità poetica con il ritorno ad un periodare relativamente più ampio e complesso. Proprio del secondo orientamento fu più importante seguace a Roma, l'oratore Q. Ortensio Oralo, che condizionò come era chiaro anche lo stesso Cicerone e come è testimoniato anche nella lunga esposizione della gravità della pena ai parricidi espressa nell'orazione Pro Roscio Amerino.

Dal viaggio in Grecia alle Verrine

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Sentendo il bisogno di perfezionare le doti oratorie, Cicerone, dal 79 a.C. al 77 a.C, fece il sacramentale viaggio d'istruzione in Grecia, che era usuale per i giovani romani desiderosi di approfondire la propria cultura. In seguito lo mascherò anche come un prudente allontanamento di Roma per sfuggire all'ira di Silla, attizzata da Crisogono. Ad Atene ascoltò l'accademico Antioco d'Ascalona, nonché Zenone e Fedro, che lo posero in contatto con la filosofia epicurea, che però gli rimarrà sempre ostica dato che nel suo animo vi è l'attivismo politico. Da Atene passo a Rodi dove riascoltò il retore Apollonio Molone. Da qui si vuole far nascere nell'oratoria ciceroniana un tipo d'uso più sobrio degli artifici espressivi e concettuali e più ricco di articolazioni e raccordi nel congegno sintattico della frase, sebbene in realtà Cicerone abbia sempre coltivato l'oratoria tesa all'effetto, modulandola volta per volta sia nell'uso d'avvocatura che di parlamentare. Nel 77 a.C. tornò a Roma e sposò la ricca Terenzia. L'anno dopo iniziò il cursus honorum facendosi eleggere questore, carica che esercitò nel 75 a.C. in Sicilia a Lilibeo, conquistando popolarità tra i Siciliani mostrando la sua scrupolosa onestà in un periodo in cui l'oligarchia senatoria, protetta dalle riforme sillane, vessava ancora più che in passato le province. Tornato a Roma ed entrato a far parte ormai del Senato partecipò attivamente alla vita del Foro. Ma l'anno che segnerà la definitiva affermazione oratoria e politica sarà il 70 a.C., anno della nascita di Virgilio e del consolato di Pompeo e Crasso, da cui le riforme sillane ebbero un duro colpo e fu attenuato il potere dell'oligarchia senatoria a favore dell'ordine equestre. Eletto edile per l'anno successivo, si vide affidare dai siciliani, memori della sua onesta gestione, la causa contro C. Verre che come propretore aveva compiuto una sistematica spoliazione nei confronti dei suoi amministrati. Verre ebbe il compatto supporto dell'oligarchia senatoria che pose in sua difesa Ortensio, eletto console per l'anno successivo. Si fece di tutto per differire la causa all'anno del suo consolato, ma si fallì e gli fu dato pochissimo tempo per reperire i testimoni. Egli riuscì comunque a trovare sufficiente materiale d'accusa. Si arrivò addirittura a smuovere un tal Q. Cecilio, questore proprio sotto Verre, in Sicilia, affinché prendesse lui il ruolo di accusa e il processo venisse ridotto ad una farsa ma Cicerone, con l'orazione Divinatio in Q. Caecilium, riuscì a smontare la macchinazione. Si giunse alla fine al dibattito e Cicerone già con la prima actio in Verrem espose in maniera così chiara che Verre non aveva alcuna speranza di vincere che lo stesso preferì fin da subito andare in volontario esilio. Cicerone salì così alla ribalta politica e si rese visibile agli occhi di Pompeo. Ma, non volendo sprecare l'occasione di mostrare la sua dote oratoria, decise comunque di pubblicare la sua requisitoria, che avrebbe dovuto svolgere, sotto il nome di secunda actio in Verre divisa in cinque orazioni: de praetura urbana (sulla carriera e le malefatte di Verre prima del governo della Sicilia), de preatura Siciliensi (sguardo complessivo sull'amministrazione di Verre in Sicilia), de frumento (l'episodio più grave tra le concussioni di Verre), de signis (sulle requisizioni di opere d'arte) e de suppliciis (sull'inettitudine di Verre nelle azioni belliche a difesa dell'isola contro i pirati e sulla sua crudeltà). La secunda actio con la sua mole fatta di discussioni, accesi racconti e prestigiosa varietà di toni, rappresenta il più grande tour de force dell'oratoria di tutti i tempi. Non manca un richiamo ai toni e allo stile dell'orazione Pro Roscio Amerino ma ugualmente ci appare un Cicerone nelle vesti di squisito narratore, vero artista dell'aneddoto e del bozzetto faceto o del tocco drammatico e sconvolgente. Supera l'asianesimo senza una nuova formula, solamente elevando la sua oratoria a quella demostenica ritrovandone la robustezza, la tensione inesausta, il respiro ampio e ardente. Era una oratoria tempestosa e opulenta per tempi di opulenza e tempesta (durante l'anno di edilità Cicerone continuò ad esercitare l'avvocatura: ci sono rimaste la Pro M.Fonteio, in parte, e la Pro A.Caecina).

L'Epistolario

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Epistolae. Antologia, 1480

Nel 68 a.C. ebbe inizio la famosa corrispondenza con Tito Pomponio Attico, raccolta in 16 libri, che giunsero fino alla fine del 44 a.C., che accompagnano e commentano d'ora in poi tutta la vita di Cicerone. Attico, ricco e colto editore e commerciante di libri e opere d'arte, apprezzante l'edonismo, fu un punto di saggezza, equilibrio e humanitas per tutti i suoi amici tuffati nel vortice delle passioni politiche. Il carteggio fu scoperto dal Petrarca nel 1345 d.C. con profonda sua delusione dato che dava vita ad un Cicerone subdolo politico, vanitoso e dedito ai guadagni. In realtà in questo carteggio c'è il Cicerone più umano, spogliato di quell'aria di optiums vir che lo adombrava, che ci mostra di essere solo un umano tra umani. Vengono rivelati poi anche gli intrighi politici che si muovevano in questa convulsa epoca storica; inoltre è mostrata un cultura che possiamo definire moderna. Ma non solo è rilevato il suo animo più intimo: anche lo stile e la lingua è molto familiare e spedito con motti e facezie. I periodi sono brevi in uno scoppiettare di costrutti e di cadenze del sermo familiaris, frammisto di una quantità sorprendente di parole e locuzioni greche, che sono invece scrupolosamente evitate nelle orazioni e nei trattati.

La pretura e il consolato - Le Catilinarie

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Cicerone pronuncia in Senato la prima Catilinaria - Cicerone denuncia Catilina, 1880, affresco di Cesare Maccari; Roma, Palazzo Madama, Sala Maccari.

Anche il nuovo passo di Cicerone nel cursus honorum, la pretura, coincise con un'orazione di alto interesse politico. Su proposta del tribuno A. Gabino nel 67 a.C. era stato affidato a Pompeo, con prerogative straordinarie, il comando delle forze contro i pirati che erano diventati un serio problema per Roma. Nel 66 a.C., essendo terminata l'operazione con successo, il tribuno C. Manilio, propose sempre Pompeo come comandante dell'operazione militare contro Mitridate, che Lucullo aveva sostanzialmente vinto ma non debellato. Cicerone, che era pretore, non esitò a schierarsi dalla parte di Pompeo, assicurandosi la via aperta alle più alte cariche della carriera politica, e pronunciò l'orazione Pro lege Manilia o de imperio Cn. Pompei, una delle orazioni più gradevoli, dominata ancora dallo spirito delle Verrine ma con un espressione meno tesa e più fluida. Il successo della campagna di Pompeo rese Cicerone una figura autorevole nei confronti della classe emergente dei cavalieri. Cicerone volle esercitare con diligenza la pretura, ma assunse ugualmente la difesa di A. Cluenzio, accusato di veneficio, e lo fece scagionare nonostante i numerosi indizi contro di lui. Roma iniziava a risentire dei primi influssi dei moti rivoluzionari, approfittando anche dell'assenza di Pompeo da Roma. Furono annullate le elezioni, per brogli, del 66 a.C. poiché i due consoli erano vicini agli ambienti novatori. Ugualmente si vociferò per Roma che Crasso, Cesare e Catilina erano pronti a sovvertire i due consoli surrogati per imporre una dittatura. Nel 34 a.C. Cicerone si presentò alle elezioni per il consolato dell'anno successivo riuscendo, pur essendo homo novus, ad avere il supporto di tutti i conservatori dei vari ordini e fu eletto console insieme ad Antonio. Grazie a questa popolarità anche tra i colleghi riusci ad ottenere la regione più ricca, la Macedonia, e riuscì a rafforzare anche il potere degli ottimati. Un primo successo lo ottenne con le elezioni dell'anno successivo: riuscì infatti a diradare la enorme folla di nullatenenti giunta a Roma per sostenere la candidatura a console di Catilina, ancora una volta candidato. Diradata la folla ottenne l'elezione di D. Giunio Silano e L. Licinio Murena. Poi, con quattro orazioni (tre delle quali giunte fino a noi), fece respingere la proposta di Rullo che avrebbe potuto placare l'agitazione (De lege agraria ) e con l'orazione Pro Rabiro perduellionis reo ottenne l'assoluzione di un vecchio politicamente, che aveva ucciso il bollente partigiano di Mario, Apuleio Saturnio. Quindi, fattosi conferire poteri eccezionali, pronunciò contro Catilina la prima delle quattro Catilinarie, rivelandogli di essere a conoscenza dei progetti d'azione violenta da lui organizzati dopo la duplice delusione elettorale. Catilina, giudicando impossibile la difesa, uscì di notte dalla città per recarsi in Etruria. Fu la mossa più felice dell'azione politica di Cicerone. Infatti Catilina aveva ammesso di essere il capo di una rivolta armata e Cicerone con la seconda Catilinaria poté annunciare la fuga di Catilina dalla città e il suo passaggio all'azione illegale. Tra la seconda e la terza Catilinaria sta la difesa di Murena, accusato di broglio elettorale. Cicerone lo difese per evitare che entrasse in carica Catilina al suo posto. Era talmente sicuro che la sua fazione avrebbe vinto il processo che non si fece remora di fondare come base per il non condannare Murena proprio il motivo politico sotteso, sintomatico di una decadenza del regime oligarchico che non si fa scrupolo di difendere la legalità con mezzi illegali. I seguaci di Catilina rimasti a Roma tentarono di mettersi in contatto con la delegazione degli Allobrogi ma Cicerone ne ebbe sentore e con una sortita notturna a Ponte Milvio si procurò i documenti per incriminare i congiuranti di alto tradimento. Con la terza Catilinaria annunciò al popolo l'arresto degli indiziati. Nella seduta del 5 dicembre, con la quarta Catilinaria, superando l'opposizione dei legalisti (tra i quali c'era Cesare), ottenne la condanna a morte dei congiuranti senza regolare processo. Senza porre tempo in mezzo, Tulliano si recò nel carcere e fece strangolare i prigionieri pronunciando poi alla folla radunata all'esterno la loro esecuzione con il celebre vixerunt. Il Senato gli rese i più alti onori come salvatore della patria e nell'anno successivo il console Antonio sconfisse a Pistoia le milizie di Catilina che trovò la morte in combattimento. Le orazioni del consolato rappresentano l'inizio della piena maturità dell'oratoria ciceroniana. I versi di Cicerone si fanno più nitidi, solenni e festosi, tanto che lo stesso Catone durante l'orazione Pro Murena si lasciò andare ad un bonario sorriso.

Debolezze ed errori - L'esilio

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Delle orazioni successive al consolato, il 62 a.C., conserviamo la Pro Sulla e la Pro Archia poeta. La prima è in difesa di uno dei due consoli eletti per l'anno 65 e poi destituiti per brogli elettorali. La seconda è un colorito elogio della poesia e della cultura, scritto in occasione del processo al poeta siriaco Archia, per illegalità nell'acquisto della cittadinanza romana. Da Archia egli sperava la celebrazione delle sue imprese. Cicerone, ubriacato dal successo, vive il momento meno felice di sviluppo spirituale. Si atteggia a salvatore della patria e allontana molte persone con il suo atteggiamento da novello Romolo acquistandosi nuovi nemici, fra cui P. Clodio, contro cui testimonia nel processo per il famoso scandalo dei misteri della Bona Dea (scrisse l'orazione, ora perduta, In Clodium et Curionem). Va in cerca di storici e poeti che narrino le sue gesta e non trovandoli lo fa esso stesso nel 60 a.C. con il poema in tre libri De suo consulato (ora perduto) dove l'autoglorificazione appanna le sue qualità di buon versificatore. Intanto Pompeo torna vincitore dall'Oriente ma irato contro gli ottimati. Si avvicina a Crasso tramite Cesare e stipula così il primo triumvirato, a cui Cicerone non partecipa per scrupoli legali. La fortuna non arrise a Cicerone se non con una orazione (Pro Flacco), con cui difese nel 63 a.C. un suo collaboratore. P. Clodio, protetto da Cesare, che aveva ottenuto il proconsolato in Gallia per cinque anni, era stato adottato da un plebeo ed era divenuto tribuno nel 58 a.C., propose una rogatio che condannasse all'esilio chi avesse fatto uccidere un cittadino romano con procedimento irregolare. Cicerone, anche se non nominato, era colpito direttamente per il suo comportamento con i complici di Catilina. Abbandonato da Pompeo e avversato dai consoli, andò in spontaneo esilio, mentre a Roma le squadre di Clodio spadroneggiavano per la città e distruggevano la sua casa sul Palatino, erigendo al posto di essa, per opera dello stesso Clodio, un tempio alla Libertà. La legge, palesemente arbitraria perché aveva valore retroattivo, venne promulgata. Mentre Cicerone cercava una città che lo ospitasse nella penisola balcanica, Pompeo, spaventato dagli eccessi di Clodio, si avvicinò agli ottimati cercando il ritorno di Cicerone in patria, che avvenne nel settembre del 57 a.C. tra una folla entusiasticamente acclamante. Sono di questo periodo due orazioni Post reditum, al Senato e al popolo, la De domo sua e la De haruspicum responso, della cui autenticità si è a lungo dubitato. La De domo sua fu pronunciata davanti ai pontefici con successo e aveva l'obiettivo di riavere indietro il terreno e di far ricostruire la sua casa a spese pubbliche. La De haruspicum responso è la difesa contro Clodio, che interpretava dei prodigi infausti a seguito dell'abbattimento del tempio della Libertà, abbattuto per la ricostruzione della casa di Cicerone. Questi ritorse l'accusa contro Clodio dicendo che gli dei erano irati per il suo comportamento scellerato e, nell'apostrofarlo nel ricordo della violazione compiuta dei misteri della Bona Dea, scrisse una delle pagine di più vibrante religiosità che ci abbia tramandato la tradizione pagana.

Tentativi di ripresa - La prima effimera eclissi

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Intanto Cicerone aveva iniziato la sua battaglia politica e forense contro Clodio e i suoi partigiani. Vi rientrano l'orazione Pro Sestio, accusato de vi e quella In Vatinium (questa orazione gli guadagnò il ringraziamento di Catullo secondo chi interpreta il carme 49 in tal senso) e la difesa di Celio Rufo (Pro Caelio) che Clodia, sorella di Clodio, aveva accusato di gravi delitti dopo essere stata sua amante (il ritratto del costume della donna è un modello di violentissima satira dei nuovi costumi fatta da un uomo legato agli ideali della romanità tradizionale). Sempre nel 56 a.C., con l'orazione De provinciis consularibus, cercò di inserire un cuneo tra i triumviri e i suoi autorevoli seguaci, appoggiando la proroga al proconsolato nelle Gallie di Cesare e denunciando allo stesso tempo la condotta degli ex consoli Pisone e Gabino. Cesare aveva visto un pericolo nella rinascita del partito senatorio con a capo Cicerone e quindi corse ai ripari con il convegno di Lucca, dove rinsaldò il primo triumvirato. Cicerone accusò il colpo e si pose al fianco del triumvirato non avversando personalmente Cesare. Nello stesso anno pronuncio l'orazione Pro Cornelio Balbo, con cui si contestava il diritto di cittadinanza concessogli da Pompeo. Iniziò cosi un periodo di stasi per Cicerone dal convegno di Lucca fino all'uccisione di Cesare, senza poter far nulla contro chi li riteneva i mali della patria. Nel 55 a.C. l'attività oratoria di Cicerone si esaurì con le invettive contro L. Calpurnio Pisone che, reduce dalla Macedonia, in seguito alle sue accuse volle vendicarsi attaccandolo in Senato (è in questa orazione che Cicerone ci parla dell'epicureismo come sarebbe stato concepito e praticato dal Pisone vero cliché, tracciato per secoli, dell'epicureismo deteriore, il cui eco scherzoso si trova nell' Epicuri de grege porcum dell'epistola oraziana a Tibullo). La sua voce oratoria si fece risentire negli anni successivi ma soprattutto nei processi e maggiormente, come accusato dai suoi oppositori, a favore dei partigiani dei triumviri: ci sono state conservate la Pro Aemilio Scauro, la Pro Plancio, di cui è celebre la commossa perorazione che ricorda l'aiuto che Plancio diede a Cicerone durante l'esilio, e la Pro Rabiro Postumo in difesa di un affarista compromesso nelle trame di Gabino in Egitto. Ma l'orazione più celebre di questo periodo è la Pro Milone. Nell'anno 52 a.C. T. Annio Milone, favoreggiatore violento degli ottimati, in uno scontro sulla via Appia aveva ucciso Clodio. Portò a Roma il cadavere e fece scoppiare dei tumulti che portarono alla nomina di Pompeo, dopo solo tre anni dal suo ultimo consolato, a consul sine collega. Ma Pompeo si dimostrò debole nel reagire contro gli eccessi della plebe e adottò per il processo una procedura straordinaria. A sostenere la difesa di Milone fu Cicerone, per gratitudine all'accusato, che aveva favorito il suo ritorno dall'esilio, e per avversità all'ucciso, che lo aveva provocato. Ma fu intimidito dai partigiani di Clodio che accolsero l'inizio del suo discorso con clamori ostili e Milone, condannato, andò in esilio a Marsiglia. Ma Cicerone non volle rinunciare a dar prova ancora una volta della sua capacità oratoria e scrisse la Pro Milone la più abile, minuta e euritmica delle sue orazioni giudiziarie, famosa per l'avvocatesca sottigliezza e soprattutto per la descrizione vivace e tendenziosa dell'uccisione di Clodio e per la magniloquente perorazione. Ma anche nel campo dove Cicerone si credeva ormai in dominio assoluto, cioè l'oratoria, si aprivano le porte ad un nuovo stile, l'atticismo, che propugnava la più assoluta semplicità e stringatezza del modello di Lisia, e che era usato sia da Licinio Calvo, poeta amico di Catullo, sia dal giovane Bruto, che dallo stesso Cesare in certi aspetti. Questa tendenza giovanile all'avanguardia rimprovera la sovrabbondante a Cicerone argomentazione e parole, reduci dell'eredità asiana, ma soprattutto la sostituzione degli eccessi di parole e giri di frase all'eccesso di concetti e giochi dialettici con cui Cicerone voleva superare l'asianesimo. Nel 51 a.C. Cicerone andò proconsole in Cilicia, dove, al termine di una breve campagna militare, ebbe la soddisfazione di essere proclamato imperator. Al suo ritorno a Roma trovò scoppiato irrimediabilmente il conflitto tra Cesare e Pompeo. Cercò di mediare una pace tra i due ma la sua autorità ormai era nulla e il tentativo fallì. Allora, come il suo passato imponeva, si schierò con Pompeo e ne seguì le sorti fino alla disfatta di Farsalo nel 48 a.C.. Si trovava a Durazzo nei giorni della sconfitta e, conosciuto l'esito, non volle seguire ancora l'esercito fuggiasco e traversò l'Adriatico, sbarcando a Brindisi e affidandosi alla generosità del vincitore.

Il De oratore e il De republica

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Miniatura quattrocentesca del De oratore.

La delusione e l'amarezza degli insuccessi politici degli anni che vanno dal 55 a.C. al 51 a.C. indussero Cicerone a ripiegarsi su se stesso. Egli sentì che era giunta l'ora di fare un bilancio della sua attività e della sua esperienza di oratore e di uomo politico. Prese infatti a comporre il De oratore, che fu compiuto entro il 55 a.C., e il De republica, che, iniziato forse dopo quest'anno, fra vari mutamenti di pensiero non fu terminato prima del 51 a.C.. Al De oratore tennero dietro le Partitiones oratoriae, a uso del figlio, poco più che un repertorio scolastico in forma catechistica. I tre libri De oratore, dedicati al fratello Quinto, inaugurano la serie dei dialoghi retorici e filosofici di Cicerone. Interlocutori principali sono gli oratori M. Antonio e L. Licinio Crasso, attorno ai quali si raccolgono i giovani Rufo, Cotta, Scevola, Catullo e Strabone, nella villa di Crasso a Tuscolo, nell'anno 91 a.C.. Cicerone in Antonio vuole raffigurare la tradizione catoniana, in Crasso invece i propri ideali (non per questo forse raffigurando Crasso ritirato in villa a prepararsi a nuove lotte politiche abbia voluto adombrare la sua situazione dell'anno 55 a.C.). Cicerone attraverso di lui spiega la sua idea di eloquenza come vertice della cultura e come esplicazione suprema di intelligenza. All'oratore occorre una buona cultura filosofica, collegata alla cultura giuridica e letteraria. Ma ogni suo accorgimento è più frutto di un dono di natura che non il risultato di studio scrupoloso. Il dialogo si sviluppò secondo il modello di Aristotele nelle opere di prima maniera: con lunghi dialoghi in cui i due interlocutori espongono le loro posizioni ideologiche. Gli interlocutori non si muovono con immediatezza e freschezza come avviene con i dialoghi platonici ma vi è in loro una gravitas e una squisita raffinatezza. Il De oratore sarà l'ideale per eccellenza del bello scrivere latino. Dei sei libri De republica fino al secolo scorso si aveva solo il cosiddetto Somnium Scipionis, cioè buona parte del libro VI. Nel 1822 il cardinale Angelo Mai, celebrato dal Leopardi per questo, scoprì su un palinsesto Vaticano buona parte dell'opera riguardo quasi tutti i primi due libri e frammenti degli altri quattro. È un dialogo che si immagina tenuto nel 129 a.C., in una villa suburbana di Scipione, fra Scipione Emiliano, Lelio Minore, Q. Mucio Scevola, Manilio, Filo, Tuberone, Mummio, Rutilio Rufo, Fannio. Cicerone si ispirò al Politeia di Platone e come lui a questo fece proseguire i Nomoi così Cicerone scrisse un De legibus. Ugualmente predomina però l'ideologia del circolo degli Scipioni legata allo stoicismo paneziano: contro l'utopia platonica afferma invece la romana necessità di attenersi a norme di governo fondate sull'esperienza e la tradizione. Riprende poi Polibio nella tripartizione dei reggimenti (monarchia, aristocrazia e democrazia) in cui la repubblica romana è l'incarnazione di questo ideale. Tra l'altro, dato che si era formato nell'ambiente scipionico, Cicerone maturò anche l'idea della necessità di un princeps che effettuasse e controllasse il contemperamento fra i tre tipi di reggimento politico (tra l'altro dal De republica possiamo ravvisare il pronunciamento teorico del regime augusteo). È pensabile che forse in un primo momento Cicerone pensasse come princeps Pompeo ma poi deluso da quest'ultimo inclinò su se stesso ad ergersi come salvatore e supremo moderatore della repubblica. Negli ultimi quattro libri si intensifica l'influsso storico che nel Somnium Scipionis si colora di motivi mistici alla maniera di Posidonio. Servendosi dell'artificio di un sogno fatto da Scipione Emiliano nella reggia di Massinissa, Cicerone espone la teoria dell'immortalità dell'anima e della beatitudine riservata a chi avesse bene meritato della patria, sulla scia del colore e dello slancio del Fedro platonico. Cicerone confermerà questa idealità politica platonica, trasformata romanamente in religione della patria, con il martirio otto anni dopo.

L'otium cum dignitate - La produzione retorica

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Sconfitto Pompeo, timoroso di essere oltraggiato dai partigiani di Cesare, si rifugiò per un anno a Brindisi. L'assenza riaccese i dissapori con la moglie Terenzia fino al ripudio l'anno successivo. Quando Cesare sbarcò a Brindisi, Cicerone gli andò incontro e, nonostante lo avesse prima osteggiato, Cesare dedicò a Cicerone ogni segno di amicizia e onore. Con questo salvacondotta fece ritorno a Roma ma si trovò spaesato e spesso si recava a Tuscolo, che avrebbe poi immortalato nelle Tusculanae. La letteratura fu l'unico suo rifugio alle crisi come quella del 55 a.C.. Cicerone, in questo modo, per primo tra gli uomini politici scopriva il valore dell'interiorità spirituale e lo comunicava agli altri. Da allora la vita politica e la cultura letteraria si amalgameranno tra loro profondamente aprendo a quella che sarà la civiltà augustea. Questa seconda fase della letteratura di Cicerone, che parte dall'anno 46 a.C., è dedicata ad uno degli aspetti che ha costituito l'essenza più viva della sua attività: l'arte oratoria. Contro gli atticisti egli scende in campo dedicando il Brutus e l'Orator al giovane M. Giunio Bruto. Nel Brutus, che è sviluppato come un dialogo tra Cicerone, Attico e lo stesso Bruto, è ripercorsa la storia dell'oratoria dalle origini a Cicerone stesso. Cicerone però, nonostante sia palese dalla trattazione essere il culmine del processo storico, non parla di se stesso ma anzi dedica molta attenzione e esalta il suo predecessore Ortensio. La trattazione è proprio volta a vedere in Ortensio e Cicerone coloro che hanno sintetizzato l'arte oratoria dalle origini a loro rendendola perfetta. Una digressione su Licinio Calvo permette a Cicerone di attaccare l'atticismo. Tutti i grandi oratori romani sono riconducibili all'atticismo poiché si ripropongono come modello l'oratoria attica ma, a differenza di Ortensio e di Cicerone, essi non sono coerenti con lo stile atticistico imitando Lisia. Solo Ortensio e Cicerone quindi si attengono al vero atticismo riuscendo ad elevare l'oratoria romana a quella di Demostene. Attacca anche l'asianesimo di Egesia accusandolo di non essere altro che un imitatore di Lisia, di cui voleva riprodurre la semplicità con il periodare rotto e affannoso. Il fascino del Brutus è sicuramente il senso dell'umano con il quale l'oratore non si limita solo al carattere della sua eloquenza ma comprende e interpreta il suo stile come conseguenza delle sue qualità morali. Con Cicerone la tecnica biografica raggiunge l'apice. L' Orator ha forma non dialogica ma sistematica. Dopo aver riassunto le idee del De oratore parla del numerus, cioè del ritmo della prosa, criticando aspramente gli atticisti che usavano il sermo numerosus mentre esaltava come pater eloquentiae Isocrate che da Trasimaco prese e sviluppò i principi delle clausole quantitative. Tra il Brutus e l' Orator trova il posto il De optimo genere oratorum che faceva da premessa introduttiva alla traduzione delle orazioni pronunciate da Eschine e Demostene per il processo di Ctesifonte. Con esse Cicerone voleva ribadire le idee espresse nel Brutus. Nello stesso 46 a.C. furono composte due operette di ispirazione stoica, i Paradoxa Stoicorum e l'elogio di Catone, oggi perduto, che dopo la sconfitta dei Pompeiani a Tapso si era suicidato in Utica. Di filosofia Cicerone aveva scritto solo sotto l'aspetto politico. I Paradoxa Stoicorum, dedicati a Bruto, commentando sei proposizioni sconcertanti della morale stoica, fanno ponte alle opere filosofiche di contenuto tecnico, riprova che Cicerone si è accostato alla filosofia e allo stoicismo in particolare soprattutto per ideali politici.

Breve parentesi

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Cicerone mentre pronuncia un'orazione in Senato. (Particolare)

Nella seconda metà del 46 a.C. Cicerone, per difendere due pompeiani, M. Claudio Marcello e Q. Ligario, rompe il silenzio e davanti a Cesare pronuncia le due orazioni difensive. Cicerone, che nel De republica aveva vagheggiato l'ideale di princeps guida della Repubblica, aveva chiuso gli occhi nella realtà che il princeps era effettivamente sorto. È pensabile una reazione di invidia e di vanità di Cicerone contro Cesare, nella quale si ravvisa il rammarico non solo per il fatto non essere lui il princeps guida della Repubblica, ma anche per perdita degli amici e della fortuna dei partigiani del dittatore. A ciò va aggiunto che la forma violenta ed extralegale con cui Cesare aveva ottenuto la dittatura e il programma di governo, innovatore sul piano sociale, certamente non gli faceva ottenere la simpatia di Cicerone. Eppure egli si levò in Senato pronunciando l'orazione Pro Marcello nel quale ringraziò Cesare per la sua magnanimità e tracciò il programma di una rinconciliazione. Sarà poi questo elogio a essere rimproverato a Cicerone: esso, infatti, striderà molto con l'elogio ai cesaricidi contenuto nella seconda Filippica. Bisogna dire che però Cicerone non nutriva ancora verso Cesare quel risentimento che invece maturò dopo le Idi di Marzo. Marcello fu graziato ma fu ucciso sul Pireo, per un motivo ancora sconosciuto, da un compagno di esilio. Nel medesimo anno Cicerone difese Q. Ligario, accusato di perduellio da Q. Tuberone. È questa l'orazione più patetica e più finemente abile fra le pronunciate da Cicerone durante la dittatura cesariana. Cesare perdonò a Ligario, il quale lo rimaritò partecipando alla congiura che lo uccise.

La filosofia conforto nella sventura

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La morte della figlia Tullia e l'infelice matrimonio con la pupilla Publilia colpirono profondamente Cicerone e lo fecero rinchiudere nell'attività di pensiero, interrotta per un breve periodo. L'anno 45 a.C. segna l'inizio del periodo febbrile nella produzione filosofica. Prende inizio da un trattato scritto per la morte della figlia, il De consolatione, di cui oggi abbiamo solo frammenti e apre la strada nella letteratura latina alla tradizione che porterà a Seneca e Boezio. Segue l'Hortensius, un protrettico alla filosofia, che doveva segnare l'introduzione al suo grande progetto di propaganda e adattamento del pensiero filosofico greco alla spiritualità latina. L'opera, che convertirà S. Agostino alla filosofia, è andata perduta. La sua attività, visto il poco sonno e il distacco dall'attività politica e forense, si volse quindi alla trattazione dei problemi della conoscenza. Scrisse gli Academica, l'unica opera dove i problemi morali e politici non sono in primo piano. Di questa opera Cicerone fece due redazioni: gli Academica priora costituiti da due dialoghi, il Catulus e il Lucullus, dal nome degli interlocutori che successivamente discutevano il problema con l'autore, e gli Academica posteriora, costituiti da quattro libri, e aveva come interlocutori Attico e Varrone, più adatti di Catulo e Lucullo, uomini politici e guerrieri, ad una trattazione filosofica. Della prima redazione ci è stato conservato il primo libro, Lucullus, della seconda il primo, volgarmente titolato Varro. Cicerone proclamava orgogliosamente di essere il primo a far parlare di filosofia la lingua latina. In realtà nell'epoca successiva, quando si sviluppo lo studio della filosofia greca, l'opera di Cicerone fu criticata e ritenuta nulla più che una volgarizzazione della filosofia greca con fraintendimenti e arbitrari miscugli. Lo studio recente e le scoperte su Aristotele hanno però ancora una volta rivalutato il lavoro di Cicerone, oggi una miniera per comprendere le varie fasi di sviluppo del pensiero greco. Nonostante rimanga la definizione di eclettismo nei riguardi del suo atteggiamento nei confronti delle filosofie trattate, Cicerone propendeva esclusivamente per lo stoicismo e l'academismo. Fu avverso invece sempre verso l'epicureismo. L'opera di Cicerone sicuramente risente della rapidità con cui è stata composta. C'è però in essa, grazie allo stoicismo, la vivida accusa mossa dalla classe aristocratica repubblicana al nuovo regime sorto anche grazie al sovversivismo della filosofia epicurea. È da ravvisare però la perdita di quello splendore stilistico che era proprio delle opere di Cicerone e questo sicuramente è dovuto sia alla fretta con cui ha composto le varie opere, sia alla difficoltà di esprimere in nuova veste la sottile dialettica così connaturata della lingua greca, sia il fatto che Cicerone era abituato alla oratoria forense e sicuramente non si trovava a proprio agio a parlare di problemi astratti.

Attività febbrile

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Chiusa la trattazione dei problemi gnoseologici, Cicerone si occupò dei problemi etici a lui più congeniali. Scrisse la sua opera filosofica più euritmica ed elaborata, il De finibus bonorum et malorum, in cinque libri, dedicati a Bruto. I protagonisti del dialogo si succedono l'uno all'altro in una scena anch'essa mutevole. L. Manlio Torquato espone nel primo libro la dottrina epicurea, secondo la quale il sommo bene si identifica con il piacere, e nel secondo libro è confutato da Cicerone. Catone nel terzo libro espone la dottrina stoica, appellatasi all'identità della virtus e della ragione con la natura, e trova anche lui un oppositore in Cicerone nel quarto libro. Nel quinto libro, infine, M. Pupio Pisone espone la teoria academica aristotelica conciliante i bisogni del corpo col piacere della virtù come guida al sommo bene, e Cicerone mostra d'inclinare verso le sue conclusioni. Sullo scorcio del 45 a.C. una breve parentesi è costituita dall'orazione Pro rege Deiotaro, pronunciata addirittura in casa di Cesare. È una difesa di Deiotaro, tetrarca della Galazia, che aveva militato nell'esercito di Pompeo ed era accusato da un suo nipote di avere attentato alla vita di Cesare, mentre lo aveva suo ospite. Con il nuovo anno si intensifica l'attività letteraria. Pubblica le Tusculanae disputationes, così chiamate perché immagina di stare in una tenuta a Tusculo, e il De natura deorum. Le Tusculanae, dedicate a Bruto, trattano in cinque libri il problema della felicità. Esse inaugurano una tecnica dialogica molto usata nei Dialoghi di Seneca. La figura dell'interlocutore è ridotta ad un anonimo che si limita a porre la questione e le obiezioni. Si esaminano le causa che compromettono la felicità umana sulla terra e si arriva a conclusioni opposte a quelle epicuree. Il timore della morte è guarito non con l'affermazione della mortalità bensì con l'immortalità dell'anima. Il dolore non si supera con la ricerca del piacere ma con l'ausilio della ragione. Nel quinto libro, che contiene un eloquente elogio alla filosofia, si ravvisa nella virtus il sommo bene. Cicerone ha già compiuto, rispetto al De finibus, un passo verso la concezione stoica. Una posizione ancora vicina allo stoicismo mostra il De natura deorum, in tre libri, dedicato a Bruto. Nel primo libro C. Velleio espone la dottrina epicurea sugli dei ed è confutato dal pontefice massimo Aurelio Cotta, seguace dell'academismo, nonostante la carica ufficiale di natura religiosa. Nel secondo Q. Lucio Balbo espone la dottrina del più recente stoicismo ed è confutato anche lui nel terzo libro da Cotta, che espone la sua concezione razionalistica del problema religioso. Il De natura deorum ha un valore inestimabile perché ci fornisce informazioni sulla filosofia della religione dell'antichità, sulla teoria teologica epicurea e sulla tormentata problematicità della questione religiosa. Vediamo un Cicerone combattuto tra la sua razionalità che lo spinge verso il pensiero di Cotta e la sua sentimentalità che lo spinge verso la concezione provvidenziale dello stoicismo. Nei successivi e complementari due libri De divinatione si svela meglio la sua incertezza tra la posizione di Balbo e di Cotta. Contro il fratello Quinto, che sostiene la teoria stoica sulla verità della divinazione, Cicerone, che pur faceva parte del collegio degli auguri, considera la scienza augurale come superstiziosa impostura. Appare chiaro il dissidio di Cicerone fra ragione e sentimento. La sua è la medesima fede disperata di Bruto, che non vuol rinunciare ad una giustizia superiore, anche se la ragione non riesce con le sue forze a coglierla. Per camminare su un terreno sicuro è meglio rifuggire dalle indagini astratte e risolvere tutti i problemi in chiave di appassionata eticità. S'iniziava così nella spiritualità romana il travaglio che avrebbe prodotto frutti artistici copiosi nell' Eneide e, dopo l' acuta crisi manifestatasi in Seneca, avrebbe acquietato il suo palpito nella fede di Cristo.

L'ultima produzione filosofica

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Frontespizio di una stampa del De officiis; Christopher Froschouer, 1560

Frattanto Cesare era caduto sotto la congiura e Cicerone aveva assistito al suo massacro. Nella seconda metà di Marzo l'inettitudine dei cesaricidi permise di prendere il potere ad Antonio, console in quell'annata. Cicerone, che si era impegnato per favorire una distensione a patto che si tornasse ad un regime di legalità, ebbe una nuova crisi di sfiducia e si riversò per la terza volta negli studi filosofici. Sono di questa epoca due operette di spicciola morale che avranno molto successo in futuro. Il Cato maior de senectute e il Laelius de amicitia. Nel primo Catone il censore, vecchissimo, esalta la saggezza della vecchiaia davanti a Scipione Emiliano e Lelio minore. Nel secondo Lelio minore, in occasione della morte dell'amico fraterno Scipione Emiliano, esalta l'amicizia davanti a C. Fannio e Q. Mucio Scevola, e ne espone per così dire la tecnica. Cicerone ancora una volta ritorna al suo ideale di Roma scipionica divenuta una sede utopistica di tutte le perfezioni. Del medesimo periodo è il De fato, pervenuto incompleto e dedicato ad A. Irzio, il luogotenente di Cesare ormai anticesariano. Anch'esso, come il De divinatione è complementare del De natura deorum. In esso si dibatte del problema dei rapporti e del contrasto tra destino e libertà di volere, vi si denota un Cicerone combattuto tra razionalità e il bisogno di una verità trascendente. Durante l'estate, visto l'aggravarsi della situazione a Roma, decide di abbandonare la città per recarsi ad Atene dove il figlio Marco già risiedeva per i suoi studi filosofici, anche se vi era poco dedito. Lungo il viaggio compose in fretta i Topica, dedicati al giureconsulto Trebazio Testa, in cui raccoglie e analizza i loci comunes (τόποι), analizzando i legami tra pensiero ed espressione e tra filosofia e retorica. Dato che i venti furono contrari e non gli permisero di completare il viaggio, approdò sulle coste reggine e incontrò Bruto a Velia che partiva per la Grecia. L'ultimo giorno di Agosto tornò a Roma ma, adducendolo alla fatica del viaggio, non intervenne alla seduta del Senato del 1 Settembre. Antonio si offese. Cicerone si presentò in Senato il giorno dopo, con Antonio assente, e pronuncio la prima Filippica inaugurando la serie di quattordici orazioni dette Filippiche o Antoniane che rappresentano l'estrema fatica oratoria di Cicerone. Contemporaneamente non abbandonò la meditazione filosofica e nel medesimo anno compose il De officiis e il De legibus. Il De officiis è dedicato al figlio Marco. Nei primi due libri, sul modello di Panezio, tratta dell'onesto e dell'utile. Nel terzo, la cui originalità è rivendicata dallo stesso Cicerone, tratta del conflitto tra utile e onesto, ma anche qui c'è sicuramente un influsso di altri filosofi greci come Posidonio. Con questa, ultima opera filosofia fondamentale tra quelle dell'ultimo ciclo, Cicerone ha portato a compimento l'avvicinamento tra filosofia ellenistica e spiritualità romana. Egli ha saputo inserire la problematica morale greca nel travagliato spirito di Roma di questo momento cruciale. Col De gloria, col De officiis e col perduto De virtutibus, che gli tenne dietro come appendice, Cicerone, con l'aiuto della filosofia greca, illustra i due ideali base della tradizione di Roma, la virtus e la gloria. Risente, come il De officiis, della fretta con cui è stato composto in due mesi nella villa puteolana. Anche il De legibus presente un'analoga fusione tra pensiero greco e tradizione romana. Il dialogo, che si svolge tra Attico, Cicerone e il fratello Quinto, vuole essere un trattato di filosofia del diritto, condotto sulle orme della filosofia platonico-aristotelica e stoica, ma con particolare applicazione al diritto romano. Anche questa è un opera di massima importanza. Cicerone cerca di fornire al diritto romano la base teorica del pensiero greco. L'espressione solenne, che richiama all'arcaico linguaggio giuridico, imprime al dialogo una patina quasi sacrale. Di questa ultima opera di Cicerone conserviamo solo tra libri incompiuti e la notizia d'un quinto libro. La composizione ne sarà stata incompleta e saltuaria.

Le Filippiche - La Morte

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Ritratto di Marco Antonio

Il ritiro nella villa di Pozzuoli durò poco. Incoraggiato dal comportamento di Ottaviano verso Antonio, tornò a Roma ai primi di Dicembre del 44 a.C. e pronunciò la terza Filippica, davanti al Senato, e la quarta Filippica, davanti al popolo, affinché si conoscesse la legittimità del comportamento di Ottaviano. Contemporaneamente pubblica la seconda Filippica, il suo capolavoro, che è quasi come una risposta istantanea data ad Antonio che, nella seduta del Senato del 19 Settembre, aveva attaccato Cicerone sebbene quest'ultimo fosse assente. Con questa opera ottenne l'odio mortale di Antonio ma contemporaneamente lasciò a noi il commento più appassionato di quel tempestoso periodo storico. Essa è il degno corrispettivo che nell'oratoria attica è rappresentata dall'orazione demostenica Per la corona. Nelle Filippiche, che nel titolo sono un tributo a Demostene e un mezzo per presentare Antonio come un nemico della libertà, pericoloso quanto Filippo il Macedone per la Grecia, arriva addirittura ad imputare la guerra civile tra Cesare e Pompeo allo stesso Antonio, rappresentando un tipo di eloquenza insuperabile e originalissimo, che richiama Demostene solo per l'essenzialità e la robustezza d'esposizione. È presente in questa orazione un vivo esempio della eloquenza ciceroniana che nella fatale battaglia si infervora al punto da mostrare una sbalorditiva freschezza di energie. Nella prima metà del 43 a.C. Cicerone pronuncia le altre dieci Filippiche, stimolando instancabilmente Senato e popolo alla lotta contro Antonio. L'ultima la pronuncia in Senato mentre il popolo lo acclama. Ma la situazione precipita e si arriva al secondo triumvirato che sancisce l'alleanza tra Ottaviano e Antonio, a cui si aggiunge Marco Emilio Lepido. Come ai tempi di Silla, i nuovi dittatori, occupata Roma, inaugurano il loro potere con la proscrizione. Il nome di Cicerone, abbandonato da Ottaviano al rancore di Antonio, apre la lista dei proscritti. Rifugiatosi nella sua villa a Tusculo e di lì fuggito verso la costa campana, non riuscirà a prendere il mare e sarà raggiunto dai sicari di Antonio, che lo uccideranno il 7 Dicembre. Saranno trucidati anche il fratello Quinto e il figlio di costui.

La fortuna

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Il periodo successivo alla sua morte, con a capo l'erede di Cesare, non poteva essere favorevole alla sua memoria, pur essendo usato in questo periodo buona parte delle sue idee politiche e filosofiche. Bisogna attendere l'età dei Flavi in cui, per reazione all'asianesimo di Seneca, si tornerà ad ammirare, specie con Quintiliano, il Cicerone delle orazioni e delle opere retoriche. I padri della Chiesa riscoprirono e ammirarono il Cicerone filosofo, che fu apprezzato nel Medioevo, mentre il Cicerone oratore fu ammirato dall'Umanesimo e dal primo Rinascimento. Nell'età della Controriforma, Tacito contenderà il primato nell'ammirazione degli eruditi a Cicerone. All'inizio dell'età contemporanea e con la Rivoluzione francese, che si atteggiava a erede della Repubblica romana, si riaccese la passione per Cicerone, ritenuto maestro e martire anche dal liberalismo romantico dell'Europa occidentale. Ma nella seconda metà del secolo XIX, Teodoro Mommsen, alfiere del cesarismo germanico, iniziò un breve periodo di forte svalutazione della figura e delle opere di Cicerone, definito con l'epiteto "vecchio ciarlone". Oggi non si scorge più in Cicerone l'unico modello del bello stile latino, e neppure il paladino delle libertà democratiche, ma si riconosce in lui uno dei più grandi signori dell'espressione, un oratore prestigioso, e soprattutto un interprete sensibilissimo di molte fondamentali esigenze della cultura e dell'anima latina, il principale autore del concetto latino di humanitas e una delle figure più complesse e rappresentative della crisi decisiva della storia di Roma.