Rivolta popolare di Battipaglia del 1969

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Approfondimento
Dipartimento di Studi umanistici



Il municipio di Battipaglia

Negli anni '60 la città di Battipaglia contava all'incirca 30000 abitanti, la maggior parte dei quali era occupata nella trasformazione dei prodotti agricoli e nel lavoro nei campi, non senza fenomeni di sfruttamento dovuti al caporalato. Inoltre, a causa della crisi economica che aveva colpito quell'area, molti conservifici minacciavano la chiusura. Questi due fattori portarono alla nascita dei primi sentimenti di ribellione.

Infatti, all'inizio dell'aprile del 1969 arrivò la decisione da parte della SAIM (Società agricola industriale del Mezzogiorno) di chiudere le due aziende storiche del territorio battipagliese, lo zuccherificio[1] e il tabacchificio [2], la cui chiusura avrebbe causato la disoccupazione di molti cittadini della città. La sera dell'8 aprile venne convocato un consiglio comunale straordinario nel quale si propose che, mentre il sindaco Domenico Vicinanza con alcuni delegati si sarebbe recato a Roma per cercare una soluzione al problema, i cittadini avrebbero organizzato un corteo di protesta. Quindi, il giorno dopo, alcuni rappresentanti furono inviati a Roma per trattare riguardo alla chiusura delle suddette aziende, tuttavia la situazione rimase molto tesa, mentre a Battipaglia la protesta degenerò e sfociò in una rivolta popolare.

Sin dall'alba la giornata si prospettava tumultuosa: una moltitudine di uomini, scortata dalle forze dell'ordine, giunse presso Piazza della Repubblica[3] gridando "Difendiamo il nostro pane" e "Basta con le promesse".

A questo punto si diressero verso la stazione ferroviaria[4] non seguendo gli ordini delle forze di polizia che così caricarono i manifestanti, per ordine del commissario De Masi; il tentativo fu vano. I manifestanti occuparono la stazione, ma da Roma giunse l'ordine di reprimere la rivolta; così la polizia, che fino a quel momento era stata abbastanza passiva e aveva concesso ai rivoltosi di avanzare, caricò usando anche lacrimogeni e idranti ai quali i manifestanti risposero con il lancio di sassi. Verso sera i rivoltosi si diressero verso il commissariato di Via Gramsci pronti ad attaccare i poliziotti che si trovavano nell'edificio. Questi spararono contro quella folla minacciosa, causando la morte di Teresa Ricciardi, insegnante che seguiva la rivolta dal suo balcone, e del giovane studente Carmine Citro; molti altri furono i feriti.[5] Dopo questi eventi la popolazione insorse contro le forze dell'ordine, lanciando oggetti dall'alto e soccorrendo i feriti: vennero incendiate le camionette e i cellulari della polizia, così come l'intero commissariato; ciò costrinse i celerini a ritirarsi lasciando la città nelle mani dei dimostranti.

L'eco della rivolta arrivò fino a Roma. Qui, in Senato, il 18 aprile, il Ministro dell'Interno On. Franco Restivo dichiarò: "[...] gli avvenimenti di Battipaglia devono essere considerati nel quadro di una situazione economica e sociale divenuta difficile, specie negli ultimi tempi, in seguito alla chiusura di alcuni stabilimenti per la lavorazione dei prodotti agricoli". Queste parole provocarono un'accesa discussione parlamentare, in cui la Sinistra chiese di disarmare i poliziotti durante le rivolte popolari, lasciandoli privi di difesa ed in balia dei rivoltosi, e in cui si stabilì che le fabbriche sarebbero rimaste attive. Bisogna dire, però, che la questione battipagliese era stata già discussa a Roma, come detto sopra, lo stesso 9 aprile e si era deciso di posticipare la chiusura degli stabilimenti di un anno, anche se, come si è detto, quest'ipotesi venne scartata.

Note[modifica]

  1. [1]
  2. [2]
  3. [3]
  4. [4]
  5. [5]

Bibliografia[modifica]