Eversione del patrimonio ecclesiastico

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Eversione del patrimonio ecclesiastico
Tipo di risorsa Tipo: lezione
Materia di appartenenza Materia: Diritto ecclesiastico

Con l'espressione eversione dell'asse ecclesiastico si indicano gli effetti di due leggi post-unitarie, e segnatamente il regio decreto 3036 del 7 luglio 1866 di soppressione degli Ordini e delle Corporazioni religiose (in esecuzione della Legge del 28 giugno 1866, n° 2987), e la legge 3848 del 15 agosto 1867 per la liquidazione dell'Asse ecclesiastico.

Il contesto storico[modifica]

L'eversione fu la risposta dello Stato alla grave crisi finanziaria causata dall'accollamento dei debiti pubblici degli stati Preunitari, e dalla terza guerra di indipendenza (la prima legge fu approvata quattro giorni dopo la sconfitta di Custoza), a causa della quale il disavanzo piombò a 721 milioni, cifra mai toccata prima. Le leggi eversive facevano inoltre parte di una politica apertamente anticlericale, già delineata con le leggi Siccardi.

L'eversione causò un dissidio politico con la Santa Sede, che sarà ricomposto solo con la firma dei Patti Lateranensi nel 1929. Per compensare in qualche modo l'espropriazione dei beni immobili che la Chiesa cattolica aveva subito a partire dal 1810 (con le leggi napoleoniche) e fino a tutto il 1871, il Regno d'Italia si impegnava a "stipendiare" con la "congrua" i presbiteri titolari di un beneficio ecclesiastico.

Le leggi eversive[modifica]

Con il regio decreto n. 3036 del 7 luglio 1866 fu negato il riconoscimento (e di conseguenza la capacità patrimoniale) a tutti gli ordini, le corporazioni, e le congregazioni religiose regolari, ai conservatori ed i ritiri che comportassero vita in comune ed avessero carattere ecclesiastico. I beni di proprietà di tali enti soppressi furono incamerati dal demanio statale, e contemporaneamente venne sancito l'obbligo di iscrizione nel libro del debito pubblico di una rendita del 5% a favore del fondo per il culto (in sostituzione della precedente cassa ecclesiastica del Regno di Sardegna). Venne inoltre sancita l'incapacità per ogni ente morale ecclesiastico di possedere immobili, fatte salve le parrocchie.

La Legge n. 3848 del 15 agosto 1867 previde la soppressione di tutti gli enti secolari ritenuti superflui dallo Stato per la vita religiosa del Paese (fra cui i capitoli delle chiese cattedrali e di quelle collegiate). Da tale provvedimento restarono esclusi seminari, cattedrali, parrocchie, canonicati, fabbricerie e gli ordinariati.

Con la legge 1402 del 19 giugno 1873 il primo ministro Giovanni Lanza estese l'esproprio dei beni ecclesiastici anche ai territori provenienti dagli Stati Pontifici e, quindi, anche a Roma, la nuova capitale.

I fabbricati conventuali incamerati dallo Stato furono alienati oppure concessi ai Comuni e alle Province (con la legge del 1866, art. 20), previa richiesta di utilizzo per pubblica utilità entro il termine di un anno dalla presa di possesso.

L'incameramento dei beni operato nel 1866/1867 non era isolato: lo Stato aveva cominciato ad incidere sull'assetto della proprietà nel 1861 con la cosiddetta quotizzazione dei demani comunali, e nel 1862 con una legge di alienazione del demanio dello Stato, culminando nel 1866 e 1867 con le due leggi di eversione dell'asse ecclesiastico: complessivamente, furono immessi sul mercato e ceduti a prezzi stracciati alla grande borghesia terriera oltre 3 milioni di ha (2,5 soltanto nel Sud) con modalità che sono state criticate dagli storici e dai giuristi.

L'eversione nell'ex Regno delle Due Sicilie[modifica]

La soppressione di molti ordini religiosi ebbe conseguenze negative sul potere degli enti ecclesiastici nell'ex Regno di Napoli: le due leggi del 1866 e 1867 generarono notevoli guadagni all'erario e permisero la redistribuzione di un'enorme quantità di beni immobili, essendo stati soppressi ben 117 monasteri su un totale generale di 1322 soppressi in tutto il regno d'Italia.
L'obiettivo delle leggi di eversione era quello di attuare una generale privatizzazione: ma il modo in cui fu attuata l'eversione delle terre della Chiesa non poteva raggiungere l'obiettivo di risollevare le classi più povere, che nella maggior parte dei casi non si trovavano nelle condizioni di accedere alle vendite e che, anzi, ne furono escluse poiché era previsto che «i beni nazionali» andavano venduti «esclusivamente» ai creditori dello Stato (in cambio della restituzione dei titoli del debito pubblico).
Si ottenne l'effetto di far finire le nuove proprietà nelle mani di pochi privilegiati: i vecchi nobili, gli appartenenti alla borghesia degli affari e gli alti funzionari dello Stato.
In particolare, nelle zone rurali il processo di eversione dalla feudalità stava lentamente sostituendo al vecchio feudatario il proprietario unico.
Pochi privilegiati, dunque, riuscirono ad accaparrarsi le terre demaniali ed i possedimenti ecclesiastici, aggravando in maniera rilevante le condizioni delle plebi contadine (costituenti il 90% della popolazione meridionale) "che videro recintate le nuove proprietà e soppressi gli usi civici, vale a dire tutti i secolari diritti d'uso (cd. immemoriale), quali far pascolare le pecore, il raccogliere legna o erba (diritti di pascolo, legnatico, erbatico)" (la frase è di A. Desideri).
Erano le premesse per la formazione di una grande e nuova manomorta: il neonato Regno d'Italia si era subito preoccupato (anche per far fronte ad esigenze di bilancio) alla liquidazione delle terre espropriate alla Chiesa (il cosiddetto asse ecclesiastico), ma non riuscì a redistribuire ai contadini meridionali una qualche proprietà fondiaria, che al contrario continuò ad accumularsi nelle mani della solita borghesia agraria (la quale, assunto così il completo controllo delle amministrazioni locali, provvide ad accaparrarsi anche ciò che restava del demanio e delle terre comunali).

Le conseguenze sociali dell'eversione[modifica]

La feudalità era stata soppressa ma solo sulla carta: la struttura sociale era ancora largamente e profondamente feudale e persisteva infatti sotto forma di latifondo (manomorta).
Questo nuovo assetto sociale creò una situazione difficile, che impose ben presto un deciso potenziamento del controllo poliziesco nei confronti della massa di ex contadini che si aggirava per le campagne anche sotto forma di brigantaggio.
Era nata la cosiddetta questione meridionale: nel 1878, dopo appena un decennio dall'attuazione delle leggi di eversione, Pasquale Villari scriveva nelle sue Lettere meridionali che era necessario «sollevare le classi inferiori, che in alcune province d'Italia stanno in una condizione vergognosa per un popolo civile», sottolineando come questo fosse ormai «divenuto un dovere supremo nell'interesse dei ricchi e dei poveri», per evitare di «veder sorgere pericoli a cui nessuno pensa...Dobbiamo pensarci noi prima che ci pensino le moltitudini».

La storica Angela Pellicciari scriverà: «Le conseguenze sociali delle leggi eversive furono anche queste: in nome della libertà 57.492 persone (i religiosi) furono privati di tutto quello che possedevano: del letto, dei mobili, del tetto, degli oggetti di culto, degli archivi, delle biblioteche, dei terreni, di tutto. Così successe anche per 24.166 opere pie che non più serviranno al sollievo diretto della povertà. Lo Stato solleva le sue finanze, ma i cittadini si abitueranno a vedere nello Stato un intruso da cui difendersi o dinanzi al quale rimanere indifferenti. Anche questa fu una causa del distacco degli italiani dallo Stato che usò violenza!».[1]

Le conseguenze ecclesiastiche[modifica]

La confisca di gran parte dei beni di proprietà di enti ecclesiastici periferici determinò una riforma centralizzatrice della Chiesa. Secondo Gianpaolo Romanato "nel giro di pochi decenni quella che ancora nella seconda metà del Settecento era di fatto una federazione di Chiese nazionali si trasformò in una compatta organizzazione internazionale, disciplinarmente e teologicamente sottoposta al Papa e agli organismi curiali. Roma divenne contemporaneamente fonte del potere, centro di elaborazione del pensiero teologico-canonistico, luogo di formazione del personale dirigente".

Anche a livello periferico le associazioni religiose si riorganizzarono secondo le nuove forme giuridiche previste dalle leggi dedicandosi a nuovi settori d'intervento: gli asili, gli oratori, la scuola, gli orfani, le missioni nei nuovi continenti, la stampa, ecc. "Intervenendo alla Camera nel 1895 Francesco Crispi ammise che lo Stato aveva perduto la sua battaglia contro gli ordini religiosi" [2]

I monumenti nazionali[modifica]

Nelle leggi del 1866 e 1867 non furono previste forme particolari di tutela dei beni artistici delle chiese e degli altri fabbricati monastici, anche se i direttori del demanio incaricati della vendita potevano porre tra le condizioni speciali, quanto ritenessero necessario per la conservazione di beni che contenessero monumenti, oggetti d'arte e simili. Di fatto ebbe luogo una tremenda dispersione di opere artistiche, di cui fu spesso distrutto o dimenticato il contesto storico culturale originario. Solo i più importanti beni artistici trovarono un riparo nei musei provinciali.

Una procedura per evitare queste disastrose conseguenze almeno nel caso di complessi di eccezionale valore artistico venne prevista all'art. 33 della legge 3096, che dichiara "monumenti nazionali" le abbazie di Montecassino, di Cava dei Tirreni, di San Martino della Scala, di Monreale e della Certosa di Pavia.

Il medesimo articolo previde che altri complessi monumentali potessero ottenere la stessa qualificazione. In base all'art. 5.4 del regolamento di esecuzione della legge, la designazione doveva essere fatta dal consiglio di Amministrazione del Fondo per il culto e approvata dal ministro di Grazia e Giustizia e dei culti, sulla base di una relazione del direttore del Fondo stesso. La legge 3848 precisa poi che tale designazione deve essere fatta con decreto reale. Il decreto reale 5 luglio 1882, n. 917 modifica ulteriormente le disposizioni, stabilendo che la designazione dei monumenti nazionali deve essere fatta di intesa con il ministro della istruzione pubblica.

Con un decreto reale del 15 agosto 1869 15 complessi vennero dichiarati monumenti nazionali, fra cui la chiesa e il chiostro di San Nicolò di Catania. Mentre nel 1877 erano inscritte nel bilancio del fondo per il culto dotazioni per altri 7 monumenti nazionali. Si trattò quindi di interventi isolati ed eccezionali.

Secondo la legge il governo si obbligava alla conservazione dei complessi immobiliari dichiarati monumenti nazionali, con spesa a carico del Fondo per il culto. L'obbligo non era limitato all'edificio, ma si estendeva anche a tutti gli elementi annessi ("adiacenze, biblioteche, archivi, oggetti d'arte, strumenti scientifici e simili").

Note[modifica]

  1. Angela Pelicciari, 150 anni dopo, Il Timone, n.95/2010
  2. Cfr. articolo di Gianpaolo Romanato in bibliografia.

Collegamenti esterni[modifica]

Bibliografia[modifica]

  • A. Desideri, Storia e storiografia, vol. II, Messina-Firenze, 1988, p. 862.
  • F. Barbagallo, La modernità squilibrata del Mezzogiorno d'Italia, Torino, 1994.
  • Atti del Convegno: Le soppressioni delle istituzioni ecclesiastiche in Europa dalle riforme settecentesche agli stati nazionali: modelli storiografici in prospettiva comparativa, Roma 28 febbraio-2 marzo 2011. In particolare cfr. Gianpaolo Romanato, Le soppressioni degli enti ecclesiastici italiani (1848-1873).