Brevi cenni di civiltà latina - prima parte (superiori)

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Brevi cenni di civiltà latina - prima parte (superiori)
Tipo di risorsa Tipo: lezione
Materia di appartenenza Materia: Grammatica latina per le superiori 1
Avanzamento Avanzamento: lezione completa al 100%

Questa prima parte sui brevi cenni di civilità latina si incentra sulla vita di un uomo o una donna romana dalla sua fanciullezza (puer) alla sua vecchiaia (senex).

Gli stadi della vita di un romano sono sostanzialmente quattro:

  • puer e puella, che indica il bambino o il ragazzino.
  • iuvenis, che indica gli adolescenti e i giovani adulti.
  • vir e mulier, che sono l'uomo e la donna adulti.
  • senex, che è l'anziano.

Il puer[modifica]

Genitori e figli[modifica]

Il pater familias[modifica]

In origine la famiglia romana era legata da un vincolo etico-politico detto agnazione che si fondava sull'essere tutti sottoposti allo stesso discendente del pater familias. Il termine pater, diversamente da quanto sarà in epoca successiva, indicava infatti l'essere a capo di una familia, cioè di un intero patrimonio domestico fatto di familiari, casa, servi e bestiame. Il pater familias era titolare di un potere, la patria potestas, che gli conferiva il diritto di vita e di morte su ognuno dei componenti della familia. Il pater familias poteva ripudiare la moglie (uxor) e poteva anche far sposare un proprio figlio senza il suo consenso. Il suo dovere era quello di far progredire la discendenza della famiglia e di onorare il culto degli antenati (Lares) mentre nel culto privato erano venerati anche i Penates che però riguardavano l'aspetto economico della vita familiare. L'autorità che aveva sulla componente femminile della familia era detta manus, un potere forse anche più forte della semplice patria potestas. Nel corso dei secoli, e soprattutto a partire dal secondo secolo d.C., i poteri del pater si erano ormai logorati al punto tale che molte delle prerogative, come la vendita dei propri figli, erano state proibite. Si fece largo poi anche l'istituto della emancipatio, con cui i figli maschi potevano emanciparsi dai pater così da creare propri nuclei familiari. Cadde in disuso anche la forma opposta dell'adoptio, che prevedeva l'istituto inverso cioè dell'entrare di un adulto nel nucleo familiare di un pater.

La matrona[modifica]

Valentiniano III, con la madre Galla Placidia e la sorella Giusta Grata Onoria. Brescia, Museo di Santa Giulia

La posizione della matrona, cioè della moglie del pater familias, nonostante la sottoposizione comunque al potere dello stesso, non era, come si potrebbe pensare, così "pessima". Il passaggio dall'autorità paterna all'autorità del marito le concedeva forse una qualche maggiore libertà. Essa infatti acquistiva il titolo di domina e godeva di eguali diritti rispetto al marito. Essa curava l'educazione delle figlie femmine e dirigeva la cura della casa. Nel corso dei secoli poi la matrona diventò sempre più centrale e distaccata dall'uomo al punto che, basti ricordare la madre dei Gracchi, arrivò ad avere un'influenza indiretta anche politica nella vita dello Stato romano.

I nomi romani[modifica]

Consuetudine romana, di origine etrusca, era avere i tria nomina cioè tre nomi che ogni uomo libero aveva. Essi erano il praenomen cioè il nome personale che spesso era quello del padre se maschio (almeno per il primogenito mentre per i successivi si usavano altri nomi comuni come Gaius, Lucius, Marcus, Quintus, Sextus, Tiberius); se invece era femmina si prendeva il nomen del padre con l'aggiunta di un aggettivo come maior per la primogenita. Seguiva il nomen che era il nome del casato (gens) e poi il cognomen che era il nome della famiglia o il soprannome derivante da una caratteristica o un merito. Esempio di nome romano è: Marcus (praenomen) Tullius (nomen) Cicero (cognomen).

Giochi e passatempi[modifica]

La nascita[modifica]

Il parto della donna romana era del tutto diverso da quello di oggi. Essa non era fatta distendere ma era seduta su una poltroncina in legno con dei manici. Il parto avveniva a lume di candela per tenere lontano gli spiriti maligni. Una volta nato il padre poteva sollevarlo tenendolo in braccia (filium tollĕre') così riconoscendolo come proprio figlio oppure ripudiarlo e farlo esporre. La pratica dell'esposizione spesso era fatta perché mancavano i mezzi per il sostentamento e si preferiva salvare i figli maschi rispetto alle femmine. Essa ha avuto una evoluzione nel corso dei secoli passando da una fase arcaica in cui si permetteva addirittura la soppressione dei figli ad una imperiale che sotto Augusto puniva aspramente l'uccisione dei figli. Una volta riconosciuto, il bambino era segnato sulla fronte con dei simboli magici che allontanassero gli spiriti maligni poi era lavato in una bacinella (alveus) e infine fasciato con fasci di lino e un cappuccio o cuffia (cuculus). Nel caso di famiglia nobile vi era anche l'apposizione di un ciondolo d'oro (bulla). Al momento della nascita non veniva subito posto un nome al bambino (chiamato pupus o pupa) ma si aspettavano otto giorni per le femmine, nove per i maschi. In questo giorno veniva purificato con acqua (lustratio) e riceveva il nome.

I giochi[modifica]

Una partita di mosca cieca

I giochi erano simili a quelli di oggi. Palle (pilae), bambole (pupae), trottole (turbines) e cerchi (orbes). Gli schiavi, che erano anche educatori dei figli, importarono altri giochi dalle loro terre come altalene, aquiloni, la mosca ceca e il gioco della pentola che consisteva nell'acchiappare i compagni restando seduti a terra mentre questi potevano muoversi avvicinandosi e menando schiaffi. Si giocava a coppia anche a pari o dispari (par impar), con sassolini o noci nascosti nelle mani, oppure a testa o croce (capita aut navia) oppure a morra (digitis micare). Anche i giovani e gli adulti giocavano, anche se i giochi spesso erano d'azzardo; si pensi alla morra stessa, ma anche agli astragali (tali) o ai dadi (tesserae). Essi si gettavano su una tavola da gioco (tabula aleatoria) dopo aver puntato una posta di gioco. Gli astragali avevano sei facce ed erano spesso ossicini o piccoli oggetti simili in avorio e metallo. Come i dadi anche essi si usavano spesso a due o tre alla volta. Il lancio di dadi e la puntata erano detti alea, di qui la famosa frase di Cesare alea iacta est: "il dado è stato lanciato"[1]. Vi erano anche giochi di riflessione come il ludus latrunculorum' che consisteva nel muovere dei pezzi (calculi) su una tavola (tabula lusoria) secondo uno schema molto simile alla nostra dama.

Le età[modifica]

Il passaggio dall'età della fanciullezza (pueritia) a quella adulta era fondamentale perché si entrava così nella vita sociale romana come cittadino. Il maschio a diciassette anni diventava iuvenis e veniva perciò iscritto nelle liste dei cittadini mobilitabili in caso di guerra. È interessante constatare che mentre il passaggio nei vari gradi della vita di un romano maschio era scandito in modo netto dall'età che si aveva, la vita della femmina invece era scandita prevalentemente dalla sua occupazione, cioè dall'essere bambina, ragazza, sposa e poi madre e anziana.

Le femmine potevano essere quindi:

  • pupa: nei primi giorni di vita.
  • infans: (= non parla) infante, fino a 7 anni.
  • puella: bambina/ragazza.
  • virgo: ragazza/giovane.
  • uxor: moglie.
  • matrona: madre di famiglia.
  • anus: (= non può avere più figli) anziana.

I maschi invece potevano essere:

  • pupus: nei primi giorni di vita.
  • infans: (= non parla) Infante, fino a 7 anni.
  • puer, adulescens: bambino, ragazzo, dai 7 ai 17 anni.
  • iuvenis: giovane, dai 18 ai 30 anni.
  • vir: uomo maturo, dai 31 ai 60 anni.
  • senior, senex: da 60 a 80 anni.
  • aetate provectus: dopo gli 80 anni.

L'istruzione[modifica]

La prima istruzione[modifica]

La prima fase dell'istruzione romana era affidata al pater familias che doveva impartire al bambino le prime nozioni culturali di base. In seguito, soprattutto in età imperiale, questa istruzione paterna fu sostituita da quella di uno schiavo apposito, il paedagogus, generalmente di origine greca, che gli forniva insegnamenti fino all'adolescenza. La prima istruzione delle fanciulle invece era diversa dai maschi ed era compito della matrona far addentrare la figlia nelle mansioni femminili come la filatura della lana e la cura della casa.

I cicli scolastici[modifica]

Un magister romano con tre allievi. Bassorilievo rinvenuto a Neumagen-Dhron, presso Treviri.

Non mancarono a Roma vere e proprie scuole pubbliche spesso anche miste tra i due sessi. Il ciclo scolastico dalla fase della fine Repubblica a quella di tutto l'Impero prevedeva tre gradi:

  • ludus litterarius: In cui i bambini, guidati da un litterator o magister ludi litterarii imparavano a leggere, scrivere e far di conto, equivalente alla nostra scuola primaria o elementare.
  • scuola di grammatica o secondaria: dove si apprendevano la lingua e la letteratura latina e greca oltre ad altre materie come storia, geografia, ad opera di un grammaticus.
  • addestramento alla retorica: dove con un rethor si imparava l'eloquenza, utile nella vita pubblica.

Spesso tra la fine della scuola secondaria e quella superiore di retorica il ragazzo, ormai diciassettenne, era sottoposto ad un tirocinium fori che consisteva in una pratica da avvocato. Questa poteva avvenire ad opera di un amico o un parente che seguiva il ragazzo oppure in assenza era lo stesso pater familias ad occuparsene.

La scuola primaria e secondaria[modifica]

Il litterator cioè il maestro di elementari non era una figura molto importante nella vita romana al punto che spesso era sottopagato. La scuola era solitamente una piccola stanza o addirittura all'aperto dove si faceva lezione per sei ore con pausa a mezzogiorno per il prandium. L'anno scolastico inizia a marzo e vi erano le vacanze (feriae) nei giorni festivi e ogni nove giorni (nundinae) con riposo nell'estate. Il maestro era seduto su una seggiola con spalliera (cathedra) o senza spalliera (sella) mentre gli scolari su sgabelli e tenevano sulle ginocchia una tavoletta cerata che portavano da casa sul quale scrivevano con un bastoncino (stilus). Diversamente invece il grammaticus poteva anche essere famoso e fare fortuna. Il suo insegnamento spesso si incentrava sullo studio di brani d'autore che venivano analizzati e anche a volte imparati a memoria. Dal grammaticus spesso si usciva conoscendo anche il greco, lingua che andava conosciuta e addirittura saputa parlare se si voleva essere definiti persona colta.

L'insegnamento superiore[modifica]

Ma sicuramente dei tre maestri il più famoso, importante e che poteva fare molta fortuna, era il rethor. Questo perché l'arte retorica era ritenuta di vitale importanza in un contesto sociale dove l'eloquenza nella vita pubblica poteva segnare le sorti sia politiche che lavorative di un romano. I giovani svolgevano esercizi di eloquenza su temi fittizi (suasoriae) tratti da episodi mitici o storici e riproducevano i meccanismi del dibattito pubblico: declamazioni (declamationes) che spesso erano svolte non solo dinanzi ai docenti e agli amici del corso ma anche in presenza di genitori e parenti. La preparazione spesso era accompagnata anche da veri e propri viaggi formativi, spesso in Grecia, dove apprendere dal vivo materie come la filosofia.

Gli strumenti di scrittura[modifica]

Due erano gli strumenti più usati nell'antichità, le tavolette cerate (tabulae o pugillares) di legno duro o avorio leggermente concavate ad un lato dove c'era la cera oppure il papiro. Si scriveva con un stiletto rigido (stilus) appiattito ad una estremità a forma di spatola per cancellare o appianare la cera mentre era appuntito all'altra per incidere lo strato di cera. Più tavolette erano assemblate per creare piccoli libretti, ora di due (dittici), ora di tre (trittici) ora di più pezzi (polittici) legati con dei cordoncini. Quando non si scriveva su materiali duri come la cera si usava una penna di uccello o molto più comunemente una cannuccia vegetale (calamus) tagliata aguzza ad un lato e intinta in inchistro (atramentum) e fatta scorrere sulla superficie scrittoria che poteva essere o il diffusissimo papiro (papyrus) o la già conosciuta pergamena (membrana).

Lo iuvenis[modifica]

La gioventù a Roma[modifica]

Gli svaghi[modifica]

Guardando la giornata tipica di un Romano si potrebbe restare sorpresi nello scoprire che una gran parte della stessa era dedicata ad attività che per noi rappresentano ozio e svago. In realtà per un Romano anche queste ore trascorse, ad esempio, alle terme o a teatro, avevano un risvolto lavorativo e professionale non inferiore a quelle di lavoro concreto o di vita forense. In queste ore infatti lavoravano ad intrecciare relazioni amichevoli e professionali con gli altri cosa di fondamentale importanza in una società in cui le relazioni sociali erano alla base del successo in ogni campo. Varie erano le attività possibili tra cui sicuramente giocavano un ruolo centrale le attività fisiche dalla lotta alla corsa (certamen) ma anche attività svolte in palestra (gymnasia) oppure al Campo Marzio (Campus Martius). Ci si addestrava anche a cavalcare o a nuotare vicino al Tevere (natatio) anche d'inverno. Altra attività era la caccia che se di uccelli era la aucupium mentre se di altri animali come lupi o orsi era la venatio. A questi svaghi "sani" vanno affincati anche svaghi meno "sani" come il gioco d'azzardo e i bordelli oltre le locande e taverne dove spesso si alza di molto il gomito.

La commedia[modifica]

Scena di attori comici che danzano, dalla Villa di Cicerone a Pompei

Luogo di intrattenimento per eccellenza era sicuramente il teatro con i suoi spettacoli teatrali (ludi scaenici) portato a Roma dalla Grecia circa nel 240 a.C.. Lo spettacolo era svolto su un palcoscenico (pulpitum) in legno fronteggiato da una scena (scaena) anch'essa in legno. Il pubblico, originariamente era in piedi, ma poi inizio a sedersi su sgabelli (subselia). Solo nel 55 d.C. si iniziarono a realizzare i primi teatri con la struttura cavea e l'orchestra che sono oggi ancora visibili. Per quanto riguarda i generi teatrali si va dalla commedia greca palliata (o fabula) perché l'ambientazione greca prevedeva indossare un abito greco cioè il pallio, alla togata di ambientazione italica e così chiamata dalla toga degli attori (histriones). Anche la tragedia, importata sempre della Grecia, con il tempo acquisì un notevole successo. Si partì dalla crepidata (sempre fabula) con allusione al coturno, cioè il calzare alto di ambiente greco-ellenistico poi alla praetexta dalla toga che indossavano gli attori. La trama delle palliate rappresenta un valido strumento per ripercorrere la vita familiare romana e greca poiché nelle storie, spesso tipizzate e ripetitive, si vede la famiglia nei suoi diversi componenti e nei suoi, seppure spesso resi comici, momenti di vita quotidiana.

L'amore e il matrimonio[modifica]

L'amore a Roma[modifica]

Nella fase della iuventus di quasi tutti i maggiori autori latini possiamo constatare che il tema predominante è sempre stato l'amore. Il poeta si ritrovava sottomesso in una schiavitù d'amore (servitium amoris) che a seconda delle situazioni lo relegava in una situazione di fervore passionale massimo o, in caso di delusione, a disperazioni spesso anche folli. Da questa visione letteraria possiamo ricavare che l'amore a Roma era vissuto con un tono di romanticismo e anche, perché no, di pudore. Non per questo la letteratura romantica fu osteggiata da i tradizionalisti che non vedevano di buon occhio un vir servo d'amore. Questo "pudore" non va comunque portato alle estreme conseguenze. Con il passare dei secoli, infatti, Roma si fece sempre più licenziosa e anche le ultime riserve, letterarie e non, crollarono sotto un amore sempre più tendente all'eros.

Il matrimonio[modifica]

Il marito raccoglie nelle sue mani la mano della moglie (dextrarum iunctio). Museo delle Terme di Diocleziano, Roma.

Tra il futuro sposo e il padre della sposa veniva stipulato un accordo (sponsalia). Il primo si prometteva in marito. Il secondo si impegnava a concederla. La parte centrale della cerimonia è la consegna di un pegno (arrha) dato dal fidanzato (sponsus) alla fidanzata (sponsa) rappresentato da una somma simbolica di denaro o dall'anello (pronŭbus anŭlus). L'anello veniva posto all'anulare dove si credesse partire un nervo diretto al cuore. Fra i fidanzati veniva anche scambiato un bacio (oscŭlum). A differenza del matrimonio cristiano e moderno si fondava non sulla volontà iniziale ma su una volontà continuata dei due coniugi (affectio maritalis) di vivere insieme allo scopo di avere e allevare figli. La dote (dos) era generalmente da una somma in denaro o da proprietà immobiliari. In caso di divorzio la dote sarà restituita. Il padre della sposa doveva provvedere anche al corredo e alle spese matrimoniali. La fanciulla la sera prima delle nozze offre una bambola ai Lari e a Vesta. Lascia il suo abito ed indossa una veste biancha nuziale (tunica recta) stretta da una cintura legata da doppio nodo. Alla presenza di una donna (pronŭba) avveniva l'unione delle destre degli sposi (dextrārum iunctio) che segnava la reciproca unione. Dopo la cerimonia nuziale, il padre della sposa offriva a casa sua una cena sontuosa (cena nuptialis) nel quale erano serviti cibi speciali: farina mescolata con mosto, con aggiunta di grasso, formaggio e anice, in modo da ottenere delle focaccine che venivano cotte sopra foglie di lauro.

Il divorzio e l'adulterio[modifica]

In età repubblicana più antica il divorzio non era consentito alla donna in alcun modo. Ci poteva essere solo un ripudio da parte dell'uomo. Bisogna quindi distinguere dal divorzio (divortium) che è volontà di entrambi i coniugi mentre il ripudio (repudium) che è volontà del marito. L'adulterio (adulterium) è invece per diritto romano il delitto del coniuge che tradisce la fedeltà coniugale. In età repubblicana più antica il reato di adulterio poteva essere giudicato dal pater familias previo raduno del consiglio di famiglia. I parenti della moglie potevano prendere vendetta sul marito, mentre il coniuge o il padre che cogliesse la donna sul fatto poteva ucciderla. Le pene comminate per legge erano la relegazione, la perdita dei beni, la fustigazione, la proibizione di risposarsi.

Costumi e abitudini della tradizione[modifica]

Gli abiti[modifica]

L'abito ufficiale romano era la toga che è una grossa pezza di stoffa tagliata a forma di ellisse. Sotto la toga si metteva la tunica che è una specie di camicia costituita da due pezze di lana (plagŭlae) cucite insieme e legate alla vita da una cintura (cinctus) e indossata sul corpo nudo raramente sopra un indumento in vita (sublĭgar o cinctus). Sopra la toga o la tunica per proteggersi dal freddo ci si copriva con mantelli (lacerna o amicuts, poenula se dotato di cappuccio). Le donne portavano invece sotto la stola, che sostituisce la toga, una camicia di lino (tunica interior) e una fascia al petto (mamillāre). Sopra portavano un mantello quadrato (ricinĭum) o un secondo abito molto ampio (palla). L'ornamento comune della tunica era una striscia di porpora (clavus) che serviva ad indicare l'appartenenza ad un determinato ordine sociale. La toga comunemente invece era senza ornamenti (pura) mentre all'orlo estremo della stola si cuciva un balza di porpora. L'abito del fanciullo era di solito una tunica o anche una piccola toga ornata con una balza di porpora (praetexta) che veniva deposta a 17 anni e sostituita con una vera e propria toga virilis, che segnava il passaggio all'età adulta. Come i padri, i bambini e le bambine andavano a capo scoperto, coprendosi in caso di necessità con un mantello o con mantelletti corti. Le matrone si coprono invece con un lembo della palla o del mantello.

Le terme[modifica]

Rappresentazione ottocentesca di matrone romane alle terme di Caracalla.

Centro di grande convergenza sociale erano i bagni pubblici (thermae) donati da ricchi cittadini, magistrati e infine imperatori alle collettività. Le terme erano statali ma erano date in appalto a privati (conductor) che avevano il diritto di esigere una tassa di ingresso (balneaticum). Oltre alle terme vi era una spianata dedicata ad campo di gioco. Esse erano generalmente circondate da un porticato detto xistus che nascondeva l'ingresso a palestre, saloni, sale di biblioteca e di esposizione, taverne (popīnae o thermopolĭa). Vari erano anche i panni usati per asciugarsi: lintĕa per il corpo, faciāle per la faccia, pedāle per i piedi. Varie stanze componevano i bagni pubblici: apodyterĭum per lo spogliatoio, frigidarĭum' la piscina fredda, tepidarĭum la piscina tiepida, caldarĭum la piscina calda. Vi erano anche luoghi dedicati al bagno di sudore detto sudatorĭa.

Il banchetto[modifica]

Altro momento fondamentale della vita sociale dei romani era sicuramente il banchetto. Al banchetto erano adibiti i servi migliori. Pietanza principale era sicuramente il vino mescolato ad acqua nei creterra. In età imperiale si diffuse l'uso dei banchetti da sdraiati sui triclinĭum. Solitamente i letti erano tre. Il centrale (lectus medius) che a sinistra aveva il posto più onorato (lecuts summus) mentre il terzo era dedicato al padrone di casa coi suoi familiari (lectus imus). Nei letti semicircolari i posti migliorni erano invece agli estremi (cornŭa). I letti erano sprovvisti di materassi, coperte e tappeti (stragŭla, opertorĭa). Ogni convitato si appoggia al suo cuscino (pulvīnum) con il gomito sinistro. La cena vera e propria era composta generalmente di tre parti: antipasto (gustatio) con cibi freddi accompagnato con vino col miele (mulsum), poi vi erano le varie portate (prima, secunda, tertia cena) e infine il dolce (secunda mensae). La principale caratteristica della cucina romana era l'abbondanza di uso di salsa di pesce, il garum, e una salsa di colore scuro, il liquāmen) preparato con interiora di pesce. Nell'ultima fase del pranzo ci si cibava con cibi salati come focacce dolci (placentae), confetti, torta accompagnata con miele e latte, per bere copiosamente. Varie erano le attività che si svolgevano durante il lungo banchetto come musica, danze e anche il gioco d'azzardo.

Il vir[modifica]

Ricchezza e povertà[modifica]

Le disparità sociali a Roma[modifica]

Nonostante la forma istituzionale che prevedeva assemblee, comizi, consigli, magistrati eletti e che fanno sembrare Roma davvero una Repubblica Democratica, quasi di stampo moderno, in realtà la vita sociale e politica di Roma si fondava sul censo. I cittadini erano censiti in base al proprio censo e in base ad esso avevano più o meno diritti. Varie erano le differenze di classi. La prima e più fondamentale distinzione è tra liberi (ingenui) e schiavi (res mancipii). Ma anche i cittadini liberi erano diversi in base al censo. Alla base vi erano i humiliores. Al di sopra le persone perbene (honestiores), categoria più numerosa di cittadini che possedevano almeno cinquemila sesterzi e che non potevano aspirare a controllare la città. Più sopra invece c'era il ceto (ordo) dei cavalieri con quarantamila sesterzi e potevano aspirare a controllare la città. Al vertice c'era l'ordine senatorio con oltre un milione di sesterzi e che non vedeva di buon occhio il dividere il controllo della città con i ceti inferiori.

La villa romana[modifica]

Modello di villa romana a Hessen

I patrizi fondavano parte delle loro ricchezze nel possedimento di fondi. Due erano le tipologie di ville che possedevano. Da una parte la villa rustica lasciata alla cura di un fattore (villĭcus) che era la base del potere commerciale, dall'altra la villa urbana che era invece il centro del prestigio e dove resiedeva il padrone. Diverso era il modo di strutturare queste due ville. La prima aveva due cortili (curtes circondati da hortus, orto) e dotate di piscīnae cioè vasche per gli animali e le operazioni agricole, grandi cucine (culīna), cantine, stalle dei buoni e cavalli (bubilĭa, equilĭa), granai (granarĭa), rimesse dei carri agricoli (plaustra), e aveva una stretta funzionalità degli edifici e degli ambienti (cellae familiares), che dovevano ospitare unità di lavoro composte da diverse decine di schiavi. Il secondo tipo invece era strutturata per un soggiorno riposante e degno del suo stato sociale: lussuose sale da banchetto (triclinĭa'), locali in cui riposare e appartarsi (cubicŭla diurna), sale di studio (bibliotheca), sale termali per la cerimonia del bagno (thermae), un peristilio con porticati colonnati e coperti per passeggiare (ambulationes) e naturalmente sale (dietae) esclusivamente riservate alla domina e alla sua servitù.

La posizione sociale e la cittadinanza[modifica]

Il census[modifica]

Come già detto il cittadino romano era iscritto al census. Esso diventava pienamente cittadino quando diventava soldato, contribuente e partecipava alla politica dello Stato. Varie erano le classi di censo e in base ad esse varie erano i diritti politici e il peso che si aveva nella città. In sostanza la cittadinanza (civitas romana) rendeva tutti uguali ma nella realtà il censo differenziava i cittadini. Pochi cittadini ricchi controllavano, di fatto, la maggioranza degli altri cittadini che spesso facevano parte della classe che gestiva la città e la faceva prosperare.

La durata e le attività della giornata[modifica]

Un'economia basata sull'agricoltura.

A Roma, si fosse contadini o proprietari terrieri, ci si svegliava molto presto la mattina, verso le otto (ora III) e non oltre. Anche i possedienti iniziavano a lavorare così presto ricevendo gli ex schiavi affrancati (liberti) e i cosiddetti clienti (clientes) con i loro omaggi. Una volta alzati ci si radeva, i più ricchi avevano uno schiavo apposito (tonsor), o un barbiere, la cui bottega (tonstrina) era spesso affollata fin dall'alba. La donna aveva invece una pettinatrice (ornātrix) che provvedeva non solo alla loro acconciatura ma anche a depilarle, truccarle, ungerle e via di seguito. Seguiva la prima colazione (ientacŭlum) a base di latte, uova, miele, pane, biscotti o formaggio, frutta e olive. Il padrone poi ospitava i familiari e gli schiavi per un saluto e chiedergli consiglio e soprattutto esigere la mancia come sussidio che gli spettava da padrone che era composto da un paniere (sportŭla) di cibarie o in una somma di denaro. Nessuno si rifiutatva di offrire questo omaggio (obsequium). Nelle ore antimeridiane si svolgevano i lavori di ufficio, le cause forensi, le sedute dei tribunali e alle volte affari familiari (officia privata) come fidanzamenti, matrimoni, deposizione della toga virile. Verso mezzogiorno (ora VII) si consumava il prandium, spesso molto frugale. Seguiva una breve siesta (meridiatio) le altre ore fino alla cena erano occupate da attività lucrative. Verso le 13 circa (ora VIII) si aprivano le terme dove potersi recare ma ci si poteva dedicare anche a lettura, audizione, palestre, giardinaggio. La cena (cena) si svolgeva presto secondo le occupazioni e le stagioni. Inizialmente anche essa frugale (vesperna) ma poi quando si comprese che non serviva dividere la giornata con due pasti quando si poteva fare uno e abbondante essa divenne più lunga e sostanziosa. I giorni si dividevano in 12 ore di luce (dies) e 12 di oscurità (nox). Le ore diurne andavano dall'alba al tramonto. Le notturne dal tramonto all'alba. Per questo motivo la durata delle ore variava con le stagioni.

Le istituzioni romane[modifica]

I comitia[modifica]

Stando a quanto dice Polibio, le istituzioni romane erano composte da tre organi che sono senato, popolo e magistrati. Il concetto di popolo (populus) è diverso da quello che oggi usiamo. Il popolo che si riuniva in comitia, erano raggruppati in curie, centurie e tribù. Le Tribù originariamente erano raggruppate secondo il territorio ma poi si passo ad un metodo ereditario. Le centurie determinate in base all'età e alla classe censitaria cioè il patrimonio per questo variavano nel corso della vita. Infine le curie che furono la prima forma di assemblea romana nata dal raggruppamento delle tre tribù gentilizie originarie . L'assemblea curiata veniva riunita già durante la repubblica per atti formali come cerimonie religiose e così via. Le due assemblee fondamentali erano invece i comizi centuriati (comitĭa centuriata) e le assemblee per tribù (concilium plebis) e i comizi tributi (comitia tributa). I primi riunivano tutto il popolo diviso per classi di censo e in unità di voto (centurĭae): qui venivano eletti i magistrati superiori (consoli, pretori, censori) e venivano votate le leggi valide per tutti oltre che le sentenze per la pena capitale. I comizi tributi invece erano assemblee più frequenti dove si elegevano i magistrati della plebe, e le leggi di origine tribunizia, e la maggior parte dei giudizi popolari. Ai comizi tributi, presieduti da uno qualsiasi dei magistrati superiori, partecipava il popolo romano diviso in tribù. Non è sicuro se ai concili della plebe potessero partecipare i patrizi. È più probabile che queste assemblee prevedessero la riunione di tutte le tribù romane ma presieduti da magistrati della plebe, edile e tribuno.

L'elettore e i candidati[modifica]

Denario emesso da Gaio Cassio Longino, 63 a.C.; sul recto un elettore in piedi rivolto a sinistra, in occasione di un plebiscito, deposita la scheda del voto (tabella) contrassegnata da una V (che sta per uti rogas, equivalente a un sì) all'interno dell'urna (cista).

La maggior parte delle cariche politiche a Roma erano elettive e annuali. Esse erano i due consoli (consŭles), vari pretori (praetōres) e questori (quaestōres), due censori (censōres) che però erano eletti ogni 5 anni dai comizi centuriati, quattro edili (aedīles), due tribuni della plebe (tribuni plebis) eletti dai comizi tributi e ancora magistrati militari e straordinari eletti sempre dai comizi tributi per diverse commissioni speciali. Queste numerose elezioni potevano essere svolte solo nei giorni propizi (dies fasti) e nei giorni in cui non fossero previste né comizi, né sedute del senato. I cittadini erano convocati o nel Campo Marzio o nel foro a seconda delle dimensioni della platea degli elettori. Tutti i cittadini avevano diritto di voto ma come già ricordato essi venivano fatti votare a seconda del censo e spesso le classi inferiori, procedendo il voto dalle classi più ricche a quelle più povere, non venivano neppure convocati avendo già deciso le classi superiori le sorti elettorali. Non esistevano quorum di votanti e per questo non erano previste neppure punizioni per i cittadini che non avessero esercitato il loro diritto di voto. Solitamente i candidati prima di esporsi a tali votazioni già si premunivano di una base elettorale forte così da sapere di già vincere.

Il senex[modifica]

La cultura e l'humanitas[modifica]

L'otium[modifica]

A differenza di quanto si possa ritenere per assonanza di termini, l'otium romano non equivale specificamente al nostro ozio, cioè allo svago più totale e a divertimento puro. Per i romani l'otium era il dedicarsi ad attività culturali e letterarie. Era otium leggere un libro, studiare, scrivere una poesia, dedicarsi alla meditazione filosofia, dedicarsi alla recitazione e così via. Esso si differenziava dal negotium che invece indicave le attività lavorativi che impegnavano un dispendio di energie fisiche e concretamente manuali.

Il concetto di humanitas e le arti liberali[modifica]

Le sette arti liberali – Immagine dall'Hortus deliciarum di Herrad von Landsberg (XII secolo)

Diffuse erano a Roma le biblioteche, che inizialmente erano private e si componevano di due sezioni: quella greca e quella latina. La consultazione di queste biblioteche era relativamente libera se si faceva parte della cerchia di amici del padrone. I testi erano ricopiati su papiri, spesso anche arricchiti con decorazioni, da i librarii o dagli scribae. Spesso i libri più ricercati erano di filosofia greca e questo, come anche Cicerone precisa, indica la doppia faccia dell'uomo romano che si fonda sul rigore morale della tradizione e ma anche sull'apertura culturale a ciò che è esterno alla propria cultura (humanitas). Questa humanitas si sintetizzerà, nel corso del tempo, prima grazie a Varrone poi grazie al perfezionamento medievale nelle sette arti liberali (artes liberales) distinte in due sezioni: il trivio (grammatica, retorica e dialettica) e il quadrivio (geometria, aritmetica, astronomia e musica).

Sapere scientifico e superstizione[modifica]

Medicina e farmacologia[modifica]

Busto di Ippocrate di Coo.

I Romani prestarono molta attenzione alla scienza medica e farmacologica. A fianco a consuetudini empiriche e formule magiche, infatti, grazie anche all'influenza greca, furono apprese anche conoscenze scientifiche in campo botanico-farmacologico. La conoscenza greca si divideva in due filoni: tradizionale e scientifico. Il tradizionale, proprio come le consuetudini romane, si fondava su esperienza empirica e riti magici per allontanare i demoni maligni. L'approccio scientifico invece non si distingue molto dal nostro e si fonda sulla ricerca di cause attraverso i sintomi e l'analisi del corpo che va riportato ad armonia dallo squilibrio causato dalla malattia. Il fondatore della medicina antica è Ippocrate di Coo (V-IV a.C.) che riunì le varie conoscenze mediche in un solo indirizzo e poi elaborato nel Corpus hippocraticum che raggruppava varie conoscenze mediche. A Roma, come detto, queste conoscenze arrivarono anche grazie a Galeno e si arrivò alla creazione di due filoni letterari sulla medicina: Uno pratico che esponeva rimedi e l'altro teorico che ricercava le cause per le singole malattie. Del prima fu rappresentante Catone il Censore mentre del secondo Varrone. Ma le due teorie furono riunite dal più grande scrittore di medicina romano Aulio Cornelio Celso (sec. I d.C.). Il connubio tra tradizione romana e greca dimostra come nella trattazione della scienza medica di incontrino grecismi, arcaismi e volgarismi.

Credenze e superstizione[modifica]

Alla grande passione per la scienza si affiancava anche una forte superstizione. Molte erano le credenze e le paure dei Romani. Prima di tutto si credeva ad un intervento diretto delle divinità nella vita di ogni giorno tanto è vero che gli accadimenti quotidiani erano le più delle volte visti come segni divini. A questo si affiancava anche credenze popolane come quella dei mostri, dei vampiri, dei morti (lemures), dei lupi mannari (versipelles), dei demoni notturni (incubi). Vari erano i riti propizi ma anche di maleficio si pensi alle tabellae defixionum con cui si invocavano i demoni malefici contro un avversario politico o d'amore. Forte era anche il culto dei morti che si presentavano come spettri (lamiae o lemures) e che potevano anche diventare spiriti protrettrici della casa (Lares, Penates o Manes). Durante i Parentalia, Feralia o Lemuria era possibile anche parlare con i morti. Essa era una festa che si svolgeva tra il 13-21 febbraio in cui si recavano fiori e cibi sulle tombe dei parenti defunti.

La morte e l'aldilà[modifica]

Discendenza ed eredità[modifica]

Nei primi anni della Repubblica romana la discendenza familiare era l'obiettivo principale per le famiglie nobili e ricche. Per continuare a mantenere il potere infatti bisogna avere una discendenza larga e in grado di reggere le sorti della gens. Tutto questo cambiò nel corso degli anni. Alle larghe famiglie anche da sei-cinque figli si arrivò anche ad famiglie senza discendenza favorendo di fatto l'avanzata di gruppi familiari dell'ordine degli equĭtes che approfittarono del diradamento delle famiglie nobili per prendere il potere. Un nobile senza erede maschio poteva acquisirne uno ad atto del testamentum obbligandolo ad assumere il suo nome per ricevere l'eredità. Vari erano i modi di fare testamento. Inizialmente era un atto solenne da fare davanti ai comizi presieduti dal collegio dei pontefici. Poi divenne un atto più facile da fare davanti ai pretori e in presenza di testimoni redatto per iscritto e sigilatto dai testimoni.

Il culto dei morti[modifica]

Quando una persona moriva il defunto veniva lavato e vestito anche con gli ornamenti come anelli e gioielli. Il corpo veniva poi esposto su un letto da parata (lectus funebris) nell'atrio della casa ai lamenti funebri dei parenti (conclamatio). L'esposizione poteva anche durare diversi giorni ed è per questo che per impedire la decomposizione del voto veniva cosparso di cera. Il trasporto funebre (exsequiae) era annunciato da un banditore. Al giorno prefissato ci si riuniva davanti a casa del defunto con un corteo aperto da flautisti (tibicĭnes) e suonatori di trombe (tubicĭnes) dietro cui venivano le prefiche (praefĭcae), donne piangenti e gementi con i capelli sciolti che rappresentavano il dolore. Dietro vi erano i parenti vestiti scuri o neri (lugubria) e da Augusto i carmi di lode al defunto erano anche iscenati da un commediante (mimus). Il corteo passava per i rostri dove avveniva ad opera di un parente maschio l'elogio (laudatio). Vi era un periodo di lutto (luctus) stabilito dai censori e prevedeva segni di lutto esteriori (tristia signa) come le vesti scure e i capelli sciolti. Le donne non potevano sposarsi prima di dieci o dodici mesi dalla morte del marito pena la nota di infamia dei censori. La sepoltura (iustum sepulcrum) era importantissima poiché solo con essa l'anima si placava e trovava pace. Era diffusa anche la cremazione e conservazione delle ceneri in urne. I corpi venivano rinchiusi in urne o sacrofagi che spesso potevano anche essere a forma monumentale e usati da tutta la gens. La Legge delle dodici tavole proibì che questi monumenti funebri fossero realizzati dentro le mura dela città.

L'aldilà[modifica]

Busto di Ade, marmo, copia romana di un originale greco del V secolo a.C. (Roma, Museo nazionale romano).

Come ben ci racconta il mito sia greco che latino i Romani e i Greci credevano nell'aldilà e in particolare nell'Ade, dove Ade, dio dei mrti, e Persèfone, sua moglie, regnavano sulle anime dei morti. Per entrare nell'Ade c'era bisogno di un rito funebre. Della struttura concreta dell'Ade si sa però poco se non che era circondato da quattro fiumi (Acheronte, Piriflegetonte, Cocìto e Stige) e si trovava nelle profondità della terra. Varie sono le tradizioni. Secondo l'Odissea ci sarebbero tre giudici a giudicare le anime e se il giudizio è positivo invece che l'Ade si sarebbe vissuta l'eternità sotto forma di spirito (anche questi spiriti non ci è dato sapere in che forma si concretizzassero secondo i Romani) nei Campi Elisi luogo di pace simile al nostro Paradiso. I più malvagi invece sarebbero stati relegati nel Tartaro, nostro Inferno. Va detto che questa concezione dell'Ade nel corso dei secoli cambiò e in età imperiale si credeva che l'anima tornasse a diventare una particella di fuoco che volasse in cielo insieme agli altri astri divini secondo la concezione neopitagorica.

La religione[modifica]

Vari erano le divinità che i Romani veneravano. Prima di tutto le divinità familiari degli antenati quali i Penati, i Lari, i propri geni tutelari (genii) che nascevano con la propria nascita e seguivano l'uomo per tutta la sua vita. I custodi della religione e dei culti sacri erano i pontefici (pontifĭces) in origine cinque (tutti patrizi) poi nove (cinque patrizi e quattro plebei). I pontefici erano guidati da un potefice massimo (pontĭfex maximus) più alta autorità religiosa. La volontà divina era invece palesata dagli àuguri (augŭres) che leggevano il volo degli uccelli e dagli arùspici (haruspĭces) che interpretavano le interiora prelevate dagli animali sacrificati. Solo un collegio sacerdotale era riservato alle donne ed erano le sei vestali scelte dal pontefice massimo tra le fanciulle romane inferiori a dieci anni per vegliare a turno, durante trenta anni di sacerdozio e di castità, il focolare sacro della dea Vesta affinché non si spegnesse mai. Tre erano le divinità più venerate fin da tempi antichissimi (Giove, Diana, Vesta) alcune erano di area italica e laziale (Marte, Cerere, Minerva, Fauno), altre di origine esclusivamente latina e romana (Giunone, Mercurio, Venere, Giano), poche di origine greca figlia dei rapporti con le colonie (sicuramente Ercole e Apollo). La similitudine tra divinità latine e greche è frutto del desiderio di non turbare la pax deorum, perché o Romani credevano che introdurre nuove divinità potesse creare la rabbia negli dèi. Da qui quindi si preferì adeguare il culto, ad esempio di Giove, a quello di Zeus finendo per identificare le due divinità e così per gli altri dèi.


  1. Solitamente tradotta come "il dato è tratto", ma in realtà iacta significa "lanciata" e fa riferimento al momento in cui un'azione ormai è compiuta (nella metafora il lancio del dado) e non si può far altro che attenderne gli sviluppi (nella metafora la stabilizzazione del dado su una faccia).