Ludovico Ariosto (superiori)

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Ludovico Ariosto (superiori)
Tipo di risorsa Tipo: lezione
Materia di appartenenza Materia: Letteratura italiana per le superiori 2
Avanzamento Avanzamento: lezione completa al 75%

Ludovico Ariosto è considerato uno degli autori più celebri e influenti del Cinquecento. Le sue opere simboleggiano una potente rottura degli standard e dei canoni dell'epoca. La sua ottava, definita "ottava d'oro", rappresenta uno dei vertici della letteratura pre-illuminista.

La vita[modifica]

Presunto ritratto di Ariosto. Tiziano, National Gallery di Londra

Ludovico Ariosto nasce a Reggio Emilia l'8 settembre del 1474, primo di dieci fratelli. Il padre Niccolò, di nobile famiglia, faceva parte della corte del duca Ercole I d'Este ed era comandante del presidio militare degli Estensi a Reggio Emilia. La madre, Daria Malaguzzi Valeri, era una nobildonna di Reggio. Ludovico dapprima intraprende, per volontà del padre, gli studi di legge a Ferrara. Li abbandona però dopo poco tempo per concentrarsi sugli studi umanistici, sotto la guida del monaco agostiniano Gregorio Da Spoleto. Ariosto segue nel frattempo studi letterari e si appassiona alla poesia in volgare. Il fatto che il padre sia funzionario della corte degli Estensi, gli permette, fin dalla giovane età, di avere contatti con il mondo della corte, luogo della sua formazione letteraria e umanistica. Divenuto amico di [[../Pietro Bembo|Pietro Bembo]], condivide con lui l'entusiasmo e la passione per le opere di [[../Francesco Petrarca|Petrarca]].[1][2]

Alla morte improvvisa del padre nel 1500, Ludovico si ritrova a dover badare alla famiglia. Nel 1501, per fare fronte alle difficoltà, è costretto ad accettare l'incarico di capitano della rocca presso Canossa, dove rimane fino al 1503. È in questa circostanza che, da Maria, la domestica che già aveva servito il padre, gli nasce Giovambattista, il primogenito che Ludovico non sarà mai completamente convinto di dover riconoscere come proprio, contestando l'affidabilità di Maria. Successivamente, rientrato a Ferrara, non ancora trentenne diviene funzionario e viene assunto dal cardinale Ippolito d'Este (figlio di Ercole). Per ottenere benefici ecclesiastici decide poi di diventare chierico. Nel 1506 è investito del beneficio della ricca parrocchia di Montericco. Questa condizione gli spiace molto: Ippolito era uomo avaro e gretto; Ariosto stesso era divenuto un umile cortigiano, un ambasciatore, un "cavallaro". In questo periodo, a causa delle faccende diplomatiche e politiche di cui deva occuparsi, non ha tempo di dedicarsi alla letteratura. Nel 1509, a Ferrara, da un'altra domestica di casa Ariosto, gli nasce un altro figlio, Virginio, che verrà poi legittimato e che seguirà le orme del padre.[3][2]

Nel 1513, dopo la morte del papa Giulio II della Rovere, viene eletto Leone X (Giovanni de' Medici), che aveva spesso manifestato stima e amicizia nei confronti di Ariosto. Il poeta considera Roma il centro culturale italiano per eccellenza e decide di recarsi alla curia papale con la speranza di trasferirvisi dopo aver ottenuto un incarico. Tuttavia nessun incarico gli viene offerto. Intanto a Firenze Ariosto si innamora di Alessandra Benucci, moglie del mercante Tito Strozzi, che frequenta la corte estense per affari. Successivamente, dopo essere rimasta vedova nel 1515, la donna si trasferisce a Ferrara e inizia una relazione con il poeta. Ariosto era stato sempre restio al matrimonio: si sposa solo dopo anni, in gran segreto per la paura di perdere i benefici ecclesiastici che gli erano stati concessi e con lo scopo di evitare che alla donna venisse revocata l'eredità del marito.[4][5]

Nel 1516 pubblica la prima edizione dell'Orlando furioso, poema diviso in 40 canti, la cui stesura era iniziata undici anni prima. Lo dedica al suo signore, il cardinale Ippolito d'Este, che però mostrerà sempre freddezza nei suoi confronti. Quando nel 1517 Ippolito diventa vescovo di Agria (nome italiano per Eger, nell'Ungheria orientale), Ludovico si rifiuta di seguirlo, adducendo motivi di salute. In realtà le cause sono da ricercare nell'astio verso il cardinale, nell'amore per la sua Ferrara e in quello per Alessandra Benucci. Passa quindi al servizio di Alfonso d'Este. Sebbene questi sia meno gretto del fratello Ippolito, Ariosto afferma che sono gravi "sia l'una che l'altra soma".[4]

Nel 1522 Alfonso gli affida l'arduo compito di governatore della Garfagnana, da poco annessa al Ducato. È una regione turbolenta, abitata da una popolazione fiera e indomita poco avvezza al comando e infestata da banditi, in cui l'ordine deve essere mantenuto con la forza. In quest'occasione Ariosto dimostra abilità politiche e pratiche. Pure queste attività gli sono invise perché gli impediscono di dedicarsi agli studi e alla poesia. Dal 1525 torna a Ferrara e passa i suoi ultimi anni tranquillamente. Si dedica alla scrittura, all'ampliamento dell'Orlando furioso e alla messa in scena di alcune commedie. Rifiuta l'incarico di ambasciatore papale, spiegando che desidera occuparsi delle sue opere e della famiglia. Nel 1532 Ariosto accompagna Alfonso all'incontro a Mantova con l'imperatore Carlo V; al rientro a Ferrara, si ammala di enterite. Muore, dopo alcuni mesi di malattia, il 6 luglio 1533. È stato sepolto dapprima nella chiesa di San Benedetto a Ferrara, quindi è stato tumulato con grandi onori a Palazzo Paradiso.[4][6]

Opere minori[modifica]

Ritratto di Ariosto nella serie gioviana. Galleria degli Uffizi, Firenze

Liriche[modifica]

Durante la giovinezza Ariosto compone le sue prime liriche in lingua latina. Tra il 1494 e il 1503 scrive 67 poesie, nelle quali si confronta con alcuni topoi della letteratura classica. In particolare molti componimenti trattano la tematica amorosa, come nel caso dell'elegia De diversis amoribus, dove annuncia di rinunciare alla carriera forense per la letteratura e l'amore. A questi si affianca una produzione di tipo erudito. Un esempio è il carme De laudibus Sophiae ad Herculem Ferrariae ducem primum (1495), scritto per l'inaugurazione dell'anno accademico dell'università di Ferrara. Si deve inoltre ricordare l'Epitalamium (1502), il carme nuziale composto per il matrimonio tra Alfonso d'Este e Lucrezia Borgia. Scrive anche epitaffi ed epigrammi, nei quali riesce in poche battute a tratteggiare un personaggio.[7][8]

Influenzato dall'ambiente ferrarese, Ariosto si dedica presto anche alla poesia in volgare. Tra i suoi punti di riferimento ci sono gli Amorum libri di Boiardo, i primi esperimenti di petrarchismo proposti da Bembo, la lirica cortigiana di fine Quattrocento. Per tutta la vita lavora alle sue Rime, che subiranno molte revisioni e saranno pubblicate in una raccolta solo nel 1546, dopo la morte dell'autore, contemporaneamente a quelle in latino. Le scelte linguistiche adottate nei componimenti in volgare sono importanti per capire le soluzioni che utilizzerà nella sua opera maggiore, l'Orlando furioso.[7] Si tratta di 5 canzoni, 41 sonetti, 12 madrigali, 27 capitoli e 2 ecloghe. La maggior parte delle poesie ruota attorno al tema amoroso, e sono dedicate alla donna amata dal poeta, Alessandra Benucci. Il tono è però distante dalla rarefazione tipica della poesia petrarchesca. I versi delle Rime hanno anche accenti scherzosi e affettuosi, e spunti di erotismo sul modello dei classici.[8]

Tra le parti più originali ci sono i capitoli in terza rima. Si tratta di componimenti abbastanza ampi scritti in terzine dantesche, che nel Trecento avevano avuto fortuna nella lirica didascalica. Nel Quattrocento questi venivano utilizzati nella forma della conversazione, su temi politici o morali.[8] In essi Ariosto concilia il tono sentimentale lirico con quello medio, quasi colloquiale; racconta vicende amorose con toni pacati, mescolando sensualità e tenerezza.[9]

Commedie[modifica]

Frontespizio della commedia I Suppositi (1551)

Sempre in gioventù, Ariosto è stimolato dal vivace ambiente ferrarese a confrontarsi con il teatro. Oltre ad alcune opere in latino, compone sei commedie in volgare:[9]

  • La tragedia di Tisbe, perduta (1493)
  • Cassaria, in prosa (1508)
  • I Suppositi, in prosa (1509)
  • Il Negromante, in versi (1520)
  • La Lena, in versi (1528)
  • Gli studenti, in versi, incompiuta (1518-19)

Ariosto scrive la sua prima opera a diciannove anni, nel 1493, che tuttavia è andata perduta. Le prime prove di un certo valore letterario in volgare sono la Cassaria e I suppositi, rappresentate nel Palazzo Ducale di Ferrara in occasione dei carnevali del 1508 e del 1509.[9] Diversamente dalle commedie in latino, che erano in versi, quelle in volgare sono in prosa. Come nelle commedie classiche (in particolare secondo il modello plautino), la trama si poggia sul conflitto tra giovani innamorati e vecchi. La trama è complicata da equivoci e intrighi, ma l'opposizione si risolve sempre con la pace e il trionfo dell'amore dei giovani. La scena si svolge in un'ambientazione cittadina e borghese, e Ariosto è attento al rapporto che questa ha con la struttura del dramma. In questo modo viene fissato lo stretto legame tra corte e città che caratterizza la nuova commedia in volgare che prenderà piede nel Cinquecento. La città però non è solo lo sfondo per la vicenda: il poeta inserisce anche degli elementi realistici e delle velate critiche all'amministrazione estense.[10][11]

L'attività teatrale di Ariosto si interrompe con la guerra del 1509. Vi ritornerà solo dopo aver terminato la prima stesura dell'Orlando furioso, passando però all'uso del verso, considerato più adatto a una produzione di alto livello letterario. In particolare adotta l'endecasillabo sciolto sdrucciolo, il metro che più si avvicina al senario giambico utilizzato nella commedia latina, ma che allo stesso tempo non si allontana dal tono medio tipico della prosa e della conversazione. È quindi un linguaggio non molto distante dalla quotidianità, privo di artifici poetici ma in grado di amplificare la realtà.[10]

In endecasillabi scrive Il Negromante, la Lena e l'incompiuta Gli studenti. La prima è stata ideata nel 1509, ma la sua redazione in versi è stata inviata a Leone X solo nel 1520. La vicenda ruota attorno ai temi della magia e della follia, che sono centrali anche nell'Orlando furioso. La Lena è probabilmente la più famosa commedia di Ariosto: scritta nel 1528, è stata molto probabilmente rivista negli anni successivi, con l'aggiunta di due scene. Protagonista dell'opera è Lena, una ruffiana le sui tresche sono tollerate dal marito Pacifico. Lena guarda agli eventi con uno sguardo negativo, segnato dal rancore e orientato alla convenienza personale. Uno sguardo negativo che si posa anche sulla città di Ferrara, ancora una volta luogo di ambientazione dell'opera. Nel 1528 Ariosto svolge l'attività di regista e organizzatore teatrale. In questi ultimi anni ritorna anche alle prime due commedie, proponendone delle nuove edizioni in versi.[12]

Satire[modifica]

Dopo avere terminato la prima edizione dell'Orlando furioso, Ariosto si dedica a un nuovo genere: quello della satira, che prende a modelli le Satire e le Epistole di Orazio. La satira era già ampiamente apprezzata dagli umanisti quattrocenteschi; Ariosto ne fissa i caratteri nella letteratura in volgare, scegliendo per la struttura metrica il capitolo in terza rima.[13] Tra il 1517 e il 1525 ne scrive sette, di varia lunghezza e indirizzate a parenti o amici:

  • I – il ruolo dell'intellettuale, la vita di corte; rifiuto di seguire il cardinale Ippolito ad Agria (Ungheria);
  • II – rifiuto di intraprendere la carriera ecclesiastica e polemica contro la corte papale;
  • III – ideale di vita semplice e privo di ambizioni mondane, vanità del potere e della ricchezza, apologo della gazza;
  • IV – soggiorno in Garfagnana: descrive la propria vita difficile e la nostalgia per Ferrara e la donna amata;
  • V – consigli sulla scelta di una buona moglie;
  • VI – indirizzata a Pietro Bembo, rievoca gli studi umanistici compiuti e chiede consigli per l'educazione del figlio Virginio;
  • VII – motivi che lo hanno indotto a rifiutare la carica di ambasciatore a Roma, desiderio di tornare a Ferrara.

Ariosto si è impegnato subito a organizzarle in maniera coerente, ma la pubblicazione avverrà solo nel 1534.[14] Ogni satira prende spunto da un fatto concreto, a partire dal quale Ariosto intesse una conversazione. Accanto ai temi principali vengono trattati argomenti secondari, come ricordi e digressioni. L'io del poeta instaura un dialogo con i destinatari delle satire. Ariosto persegue un ideale di vita tranquilla e prende le distanze dalle ambizioni che caratterizzano la società di corte. Difende con pacatezza i suoi errori, le sue scelte e i suoi limiti, mentre addita quanti desiderano che i propri difetti siano presi a modello. Per farlo ricorre a un tono medio, fatto da elementi comici e termini realistici e quotidiani, lontano dal linguaggio lirico della tradizione. Inoltre, per fissare meglio i vizi di cui parla, ricorre a favole e apologhi che mescolano fantasia e ironia.[15][16]

Le Satire sono inoltre importanti per comprendere l'Orlando furioso: mostrano il desiderio di conoscere e riflettere sulla realtà che si ritrova anche nel poema, seppure dissimulato dalle avventure fantastiche dei protagonisti. In esse si ritrova anche il carattere ironico che è uno dei tratti salienti del poema.[17]

Lettere[modifica]

Oltre alle opere già ricordate, ci sono giunte anche 214 lettere, scritte da Ariosto tra il 1498 e il 1532. Si tratta di missive destinate ai familiari o agli amici, oppure relazioni diplomatiche, biglietti d'occasione, comunicazioni con i signori. Sono testi privati, che quindi non hanno intenti letterari. Il loro stile è semplice e immediato, e non cercano di edulcorare la realtà evitando i temi troppo duri (soprattutto nelle epistole inviate quando era governatore della Garfagnana).[17]

Orlando furioso[modifica]

Per approfondire su Wikipedia, vedi la voce Orlando furioso.
Frontespizio dell'Orlando furioso, nell'edizione del 1532

L'opera maggiore di Ariosto, quella per cui merita un posto di rilievo nella storia della letteratura italiana, è però l'Orlando furioso. Il materiale narrativo proviene dalla tradizione del poema epico cavalleresco, che a partire dai cantàri si era definita nel Quattrocento con l'Orlando innamorato di Matteo Maria Boiardo. Il Furioso si propone come una continuazione di quest'ultimo, rimasto incompiuto per la morte dell'autore.[18] Tuttavia, come si vedrà, l'opera di Ariosto è ben più ambiziosa: mira ad affermarsi non solo tra il pubblico di corte ma sull'intera società culturale italiana, sfruttando le potenzialità offerte dalla stampa.[19]

Fasi della composizione[modifica]

Ludovico Ariosto inizia la prima stesura del poema nel 1505 circa.[20] L'opera ha subito diverse revisioni, e ne sono state pubblicate tre edizioni.

La prima edizione dell'Orlando furioso, in 40 canti, è pubblicata a Ferrara nell'aprile 1516 per l'editore Giovanni Mazocco. Porta una dedica al cardinale Ippolito d'Este il quale, poco interessato alla letteratura, non mostrerà alcun apprezzamento. Il nuovo poema di Ariosto differisce dalle opere letterarie precedenti: non è più, in senso stretto, un poema di corte, ma è la prima opera letteraria di intrattenimento a essere pensata e curata per la pubblicazione a stampa, cioè per la diffusione presso un pubblico più vasto possibile. Si tratta perciò della prima, grande opera di letteratura moderna nella cultura occidentale.

Ritenendo che l'edizione del 1516 abbia molte imperfezioni, Ariosto si impegna subito in una lunga revisione. Questa prima edizione è pensata in primo luogo per divertire la corte e per celebrare la famiglia estense. Ariosto è proiettato in una prospettiva municipale, la lingua dell'opera è una ricca fusione di termini toscani, padani e latineggianti.

Nella seconda edizione, pubblicata a Ferrara nel 1521, c'è una revisione linguistica, ora molto più orientata al toscano. Non ci sono modifiche di rilievo nella struttura narrativa, nonostante fra il 1518 e il 1519 l'autore abbia ideato cinque nuovi canti (poi espunti). Queste due edizioni sono però ancora molto diverse da quella finale. Nel frattempo, Ariosto si rende conto che l'opera ha la portata di un capolavoro: prima della terza edizione aveva già avuto 17 ristampe.

La terza edizione è pubblicata nel 1532. Ariosto rielabora il testo in maniera più ampia. La differenza è subito evidente sul piano linguistico: le prime due edizioni erano comunque rivolte prevalentemente a un pubblico ferrarese o padano, scritte in una lingua che teneva conto delle espressività popolari, lombarde e toscane. La versione definitiva invece mira a creare un modello linguistico italiano nazionale, secondo i canoni teorizzati da Pietro Bembo nelle sue Prose della volgar lingua. Vengono inseriti nuovi canti e gruppi di ottave, distribuiti in parti diverse dell'opera. Le dimensioni cambiano, il poema viene portato a 46 canti, modificando la suddivisione e l'architettura. Vengono aggiunte diverse storie e scene, che risultano tra quelle di maggiore intensità. Compaiono molti riferimenti alla storia contemporanea, con la gravissima crisi politica-salutare francese-italiana-tedesca.

Ci sono pervenuti anche altri testi che erano stati composti per far parte del poema, ma che poi ne erano stati esclusi. In particolare, si tratta di alcune ottave sulla storia d'Italia e di cinque canti, pubblicati in appendice al Furioso nel 1545. La data di composizione e la collocazione di questi ultimi è oggi al centro di dibattiti. Quello che è certo è i cinque canti testimoniano la dedizione con cui Ariosto lavorò al poema, considerandolo un'opera in movimento, pronta a raccogliere gli echi di una realtà in divenire ma pur sempre regolata da esigenze di organicità.[21]

Struttura[modifica]

Angelica incide il nome di Medoro su un albero (canto XIX), in un affresco di Giovanni Battista Tiepolo. Villa Valmarana ai Nani, Vicenza, 1757.

Le vicende di Orlando e dei paladini di Carlo Magno erano già note alla corte estense di Ferrara grazie a Matteo Maria Boiardo, quando Ariosto comincia a scrivere il nuovo romanzo. La trama si sviluppa a partire dalla storia dell'amore fra Angelica e Orlando, dal punto in cui questa si interrompeva nell'Orlando innamorato (e vi sono alcuni rimandi ironici a fatti antecedenti). La materia cavalleresca, i luoghi e i personaggi principali sono gli stessi, ma l'elaborazione di tutti gli elementi risponde a una ricerca letteraria molto più profonda. I personaggi acquistano una dimensione psicologica maggiore, il racconto diviene un insieme organico di vicende intrecciate in un'architettura di complessità grandiosa grazie all'utilizzo dell'entrelacement (tecnica molto utilizzata nel romanzo cortese-cavalleresco).

Trama
Il Furioso si apre nel punto in cui era rimasto interrotto l'Orlando innamorato: il re Carlo, preoccupato dalle rivalità che la bellezza di Angelica ha acceso tra i cugini Orlando e Rinaldo, entrambi suoi paladini, decide di affidarla al duca Namo di Baviera, promettendola come sposa al cavaliere che si fosse distinto nella difesa di Parigi, assediata dagli arabi. Angelica però, approfittando della confusione seguita alla sconfitta dei cristiani, fugge. Da qui si dipana una fitta rete di avvenimenti. Le vicende dei personaggi si intrecciano continuamente, costituendo molteplici fili narrativi tutti armonicamente tessuti insieme. La trama ruota intorno a tre motivi: epico (lotta tra pagani e cristiani), amoroso (passione amorosa di Orlando per Angelica) ed encomiastico (amore di Ruggero e Bradamante, dalla cui unione discenderà la casa d'Este).[18]
  • La guerra mossa dal re Agramante contro Carlo Magno. Prosegue nel Furioso la guerra tra i cavalieri cristiani e quelli pagani già iniziata nell'opera di Boiardo. Nel corso del poema vengono narrati gli alterni successi per l'una e l'altra parte. La guerra sarà decisa con un duello sull'isola di Lipadusa, dove Orlando, Brandimarte e Oliviero affrontano Agramante, Gradasso e Sobrino. La vittoria andrà ai paladini di re Carlo.
  • La follia di Orlando. Angelica fugge dal duca Namo di Baviera, inseguita dai suoi amanti. Dopo varie traversie, nel canto XIX soccorre e cura Medoro, di cui si innamora. I due si sposano e partono per il Catai, terra di origine di Angelica. Intanto, durante le sue peregrinazioni Orlando viene a sapere da un contadino dell'amore tra i due, e il dolore che prova è tale da condurlo alla pazzia. Privo di senno, vaga senza meta compiendo gesta terrificanti. Viene infine ricondotto alla ragione da Astolfo, che a cavallo dell'ippogrifo raggiunge la luna e recupera il senno del paladino. Orlando può quindi tornare alla battaglia.
  • L'amore di Ruggiero e Bradamante. La storia di Ruggiero e Bradamante era stata introdotta già da Boiardo in una fase avanzata di composizione del suo poema, probabilmente per motivi politici.[18] All'inizio del Furioso Bradamante è alla ricerca dell'amato, che viene tenuto prigioniero dal mago Atlante. I due riescono a ritrovarsi solo dopo varie avventure, ma durante il viaggio verso Vallombrosa, dove Ruggiero vuole farsi battezzare, vengono nuovamente separati. Nella parte finale Ruggiero scopre di essere figlio di un cavaliere cristiano, ma per rispetto del codice cavalleresco continua a seguire il re pagano Agramante, finché non viene da lui sciolto dal suo vincolo. Finita la guerra, Bradamante e Ruggiero possono sposarsi, ma durante le nozze Ruggiero viene sfidato dal cavaliere pagano Rodomonte. Con la morte di quest'ultimo termina definitivamente la guerra.

I tre fili principali sono strettamente intrecciati, e attorno a loro si svolgono le avventure di molti altri personaggi.

La guerra è il polo di attrazione di tutto il poema e Parigi ne è il centro geografico: dalla capitale del regno di Carlo inizia la fuga di Angelica, ed è sempre qui che si consuma il duello finale tra Ruggiero e Rodomonte. In tutto il Furioso si contrappongono quindi due forze, una centrifuga che da Parigi porta verso luoghi lontani ed esotici, e una centripeta che ritorna alla corte di Carlo Magno.[22] Se nella Divina Commedia il movimento era lineare e verticale (dal basso verso l'alto, dal peccato a Dio), nel Furioso è circolare e orizzontale. I movimenti dei vari personaggi si intersecano e tornano spesso sui loro passi, avanti e indietro. Nello spazio invece i cavalieri sembrano spostarsi su una perfetta orizzontalità e in una dimensione prettamente terrena.[23]

Un poema rinascimentale[modifica]

Frontespizio dell'Orlando furioso nell'edizione illustrata da Gustav Doré (1897)

Ariosto riprende alcuni aspetti provenienti dalla letteratura epica a lui precedente. Anzitutto, come Pulci e Boiardo rielabora liberamente le favole della tradizione franco-bretone. Sono storie già note al lettore, che per la loro indeterminatezza si prestavano a essere riplasmate da ogni nuovo scrittore, cosa che era già successa nel corso dei secoli. Ariosto mantiene poi un altro carattere proprio dell'epica, quello di essere composta per la recitazione. Questo materiale di origine popolare viene tuttavia nobilitato e trasposto in forme classicheggianti. Come nell'Innamorato, inoltre, i proemi diventano il luogo in cui il poeta prende spunto dai fatti narrati per trarne insegnamenti morali oppure per parlare di sé e del proprio amore. L'autore coinvolge quindi anche se stesso nella fantasmagoria di cui sta raccontando, fantasmagoria che a sua volta è un'immagine della vita umana.[24]

L'Orlando furioso è il più tipico esempio di letteratura prodotta dal Rinascimento italiano. Rinascimentale è per esempio la concezione laica della vita che traspare dal poema, in cui Dio non viene negato ma smette comunque di essere il motore della storia. I personaggi agiscono avendo fede in Dio, ma non si chiedono se il loro operato sia conforme alla rivelazione divina. Le stesse vicende narrate possono avere un epilogo lieto o infelice, ma in nessun caso viene data una giustificazione metafisica o ultraterrena.[25]

La natura stessa, non più pervasa da Dio, assume una vitalità nuova, e così anche l'uomo si muove con maggiore libertà e naturalezza: conosce tutte le passioni, tutti gli affetti, e non rinnega nulla di ciò che è umano. I personaggi rispecchiano la formazione culturale e morale dell'autore, ma ognuno di loro è definito per sé e prova una vasta gamma di sentimenti ed emozioni. Un carattere importante dei personaggi ariosteschi è quindi l'individualismo. I legami tra gli individui si allentano, e in ognuno prevalgano i moti istintivi, gli impulsi e le reazioni incontrollate.[26]

Rinascimentale è anche la concezione della donna, che nel poema viene concepita come «il femminile dell'uomo».[27] La donna nel Rinascimento gode di maggiori libertà, partecipa attivamente alla vita di corte e può avvicinarsi alle arti e alla letteratura. Nell'Orlando furioso incontriamo quindi una vasta gamma di personaggi femminili, che presentano atteggiamenti e caratteri tra loro molto diversi.[28]

L'ironia[modifica]

L'Orlando furioso rispecchia però non solo la cultura ma anche le contraddizioni dell'Italia dell'epoca. Nella prima metà del Cinquecento la penisola era travagliata da guerre e invasioni, a cui il poeta fa riferimento in vari canti. Le avventure narrate trasmettono un senso di labilità e fuggevolezza, attraverso lo scorrere di forme che mutano.[29] La narrazione è animata e sostenuta dalle tensioni e dalle contrazioni che percorrono il poema. Da un lato afferma i valori della bellezza, della perfezione, dell'eroismo e dell'armonia, ma allo stesso tempo ne prende le distanze attraverso l'ironia: mette in dubbio ogni valore assoluto, rivela che la forza e le passioni degli uomini sono connessi con la follia e l'illusione.[30]

L'ironia ariostesca, che risuona in tutto l'Orlando furioso, tende infatti a rivelare la validità di punti di vista tra di loro opposti e le incoerenze dell'agire umano. In generale, emerge una visione relativistica secondo cui non c'è una realtà unica e oggettiva, ma piuttosto molteplici punti di vista contrastanti. L'ironia consente quindi di guardare con distacco a tutto questo e di vedere il rovescio di ciascuna situazione.[31]

Ne è un esempio il fatto che l'eroismo dei cavalieri, che li rende degli esseri superiori rispetto alla massa degli altri uomini, quando supera certi limiti finisce per sfociare nella follia. C'è anzitutto la pazzia di Orlando, che viene citata già nel titolo: furioso è infatti un latinismo per indicare "pazzo". Orlando, l'eroe senza macchia, il paladino che la tradizione considera savio per eccellenza, cade quindi vittima della follia più eccessiva e devastante. Questa però non risparmia nemmeno gli altri personaggi, anche se si presenta in forme meno distruttive; si manifesta quando il cavaliere perde la strada, segue un'illusione e ne rimane intrappolato, senza riuscire più a riconoscere la realtà.[32]

Il tema del desiderio attraversa tutto il poema, ed è il motore che dà origine al movimento di fughe e inseguimenti che caratterizzano l'intreccio. Il principale oggetto di desiderio è Angelica, la donna amata da Orlando e da molti altri cavalieri. Alla follia e al desiderio si ricollega il tema della magia, con personaggi dotati di poteri incantatori che depistano o fermano i cavalieri facendoli cadere vittime di illusioni. Sono però gli stessi cavalieri però a rendere possibile l'incanto, dimostrando di essere disposti a seguire queste immagini evanescenti. La magia nasce dal fatto che nella realtà i rapporti tra le persone sono dominati dalle apparenze, e che gli esseri umani si lasciano condurre da queste ultime. La saggezza, sembra dire il poeta, consiste nel sapere che la vita è segnata dalla follia, che è caratterizzata da un continuo perdersi e dal seguire illusioni. Si spiega così anche il disincanto con Ariosto guarda all'amore: dalle avventure dei paladini e dalle novelle che sono inserite nel poema si comprende come per l'autore sia vano pretendere una fedeltà assoluta. Al contrario, è più saggio accontentarsi di rapporti liberi e accettare gli inganni che inevitabilmente riservano i rapporti tra persone.[31]

Lingua e stile[modifica]

La follia di Orlando in un'illustrazione di Doré

La caratteristica principale dell'Orlando furioso è l'armonia, che è evidente sia nei modi in cui viene condotta la narrazione (con il suo intreccio complesso ma allo stesso tempo organico), sia nella cura che Ariosto ha prestato alla lingua e alla metrica. La veste linguistica è stata più volte rivista, dando vita a una forma di comunicazione letteraria del tutto nuova. Come scrive Petronio, questa armonia è una «traduzione in termini di lingua e di stile di quella medietà che il poeta e il suo mondo ritenevano virtù suprema dell'uomo».[33]

Lo strumento principale utilizzato per dare ritmo alla narrazione è l'ottava. Si tratta del metro che veniva solitamente impiegato nell'epica cavalleresca, ma nelle mani di Ariosto abbandona i soliti schemi ripetitivi per adattarsi ai toni più vari, dalla drammaticità all'ironia. Il linguaggio scorre in modo disteso, «sa ricoprire ogni cosa di un velo prezioso, mantenendo sempre un signorile ed equilibrato distacco».[34]

Ariosto dedica inoltre tempo ed energie alla revisione del poema, alla ricerca di un'elegante omogeneità linguistica e di strutture sintattiche più misurate. Questo si può osservare nel passaggio dalla seconda alla terza edizione dell'Orlando furioso, da cui vengono espunti i termini di origine lombarda per avvicinarsi il più possibile al fiorentino letterario e petrarchesco del modello bembiano. Ariosto però fugge dalla freddezza della prosa bembiana ricorrendo a una grande varietà di toni. Nel poema vengono inoltre impiegati vari termini di ascendenza classica, e in particolare ripresi dalla poesia latina. Non mancano poi espressioni tratte dai poeti coevi.[34]

Ariosto e il suo pubblico[modifica]

Fin dalla sua prima pubblicazione, l'Orlando furioso ha incontrato un ampio apprezzamento da parte del pubblico.[35] Per la sua stessa educazione e formazione, Ariosto partecipava intensamente alla vita della corte, e proprio i gentiluomini, le gentildonne e i letterati di corte rappresentavano il pubblico a cui pensava quando scriveva il poema. Non solo: durante le fasi di revisione era solito leggere i canti ai letterati di corte, per chiedere il loro consiglio su correzioni e perfezionamenti. Come scrive Petronio, «il lettore ideale del Furioso è il "cortegiano" di Baldassar Castiglione, e i caratteri dell'opera sono la traduzione letteraria e stilistica dei tratti di comportamento di quello».[36]

A ricollegare il poema all'ambiente cortigiano è anche il motivo encomiastico, che è reso esplicito dalla dedica al cardinale Ippolito d'Este, ma anche dalla storia d'amore di Ruggiero e Bradamante, presentati come antenati degli Estensi. Questo consente ad Ariosto di far pronunciare a vari personaggi delle profezie post eventum sulla futura gloria della casata. In varie occasioni, inoltre, il poeta si rivolge direttamente al cardinale, al duca Alfonso o alla corte ferrarese.[37]

D'altra parte l'armonia e l'equilibrio del poema rispondono agli ideali aristocratici del suo pubblico, che apprezzava le invenzioni del poeta proprio perché improntate alla medietà. In generale Ariosto, come scrive Ferroni, «da tante storie romanzesche intende ricavare valori luminosi da proporre alla società contemporanea, magnificando le forme stesse della vita cortigiana».[37] Le situazioni in cui i personaggi si trovano di volta in volta non vengono mai condotte fino all'estremo. Le azioni più crude e violente sono mitigate dall'utilizzo di espressioni eleganti, e anche la follia di Orlando viene sempre mantenuta entro i canoni del buon gusto dell'epoca. La stessa storia alla fine si risolve con il ritorno all'ordine e il rinsavimento del paladino.[38]

A questa esaltazione dei valori cortigiani si affianca però anche una loro critica sotterranea. Questo è evidente nei passaggi in cui il poeta dialoga direttamente con gli ascoltatori, in cui fa riferimento ai propri sentimenti e alle difficoltà che ha incontrato nella vita di corte. Accanto ai destinatari ufficiali ci sono quindi dei destinatari più o meno nascosti: in primis le donne, che vengono richiamate in vari proemi, e poi i letterati e gli amici. C'è quindi un'ambivalenza: se da un lato Ariosto si rivolge e celebra l'ambiente cortese, dall'altro dimostra di avere in mente anche un pubblico nazionale.[37] I contatti tra i vari centri della penisola stava portando in quegli anni alla nascita di una società colta italiana, e proprio a questi guarda il poeta quando pubblica la terza edizione del poema.[34]

Note[modifica]

  1. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, Ariosto e Tasso, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, p. 1.
  2. 2,0 2,1 Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2001, p. 284.
  3. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, Ariosto e Tasso, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, pp. 1-2.
  4. 4,0 4,1 4,2 Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, Ariosto e Tasso, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, p. 2.
  5. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2001, pp. 284-285.
  6. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2001, pp. 285-286.
  7. 7,0 7,1 Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2001, p. 286.
  8. 8,0 8,1 8,2 Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, Ariosto e Tasso, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, p. 3.
  9. 9,0 9,1 9,2 Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2001, p. 287.
  10. 10,0 10,1 Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2001, p. 288.
  11. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, Ariosto e Tasso, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, pp. 3-4.
  12. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2001, pp. 288-289.
  13. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2001, p. 289.
  14. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2001, pp. 289-290.
  15. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2001, pp. 291-292.
  16. Giuseppe Petronio, L'attività letteraria in Italia, Palermo, Palumbo, 1969, p. 247.
  17. 17,0 17,1 Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, Ariosto e Tasso, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, p. 4.
  18. 18,0 18,1 18,2 Giuseppe Petronio, L'attività letteraria in Italia, Palermo, Palumbo, 1969, p. 249.
  19. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2001, p. 292.
  20. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2001, p. 292.
  21. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2001, pp. 292-293.
  22. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2001, p. 296.
  23. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, Ariosto e Tasso, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, p. 11.
  24. Giuseppe Petronio, L'attività letteraria in Italia, Palermo, Palumbo, 1969, p. 250.
  25. Giuseppe Petronio, L'attività letteraria in Italia, Palermo, Palumbo, 1969, p. 251.
  26. Giuseppe Petronio, L'attività letteraria in Italia, Palermo, Palumbo, 1969, pp. 251-252.
  27. Giuseppe Petronio, L'attività letteraria in Italia, Palermo, Palumbo, 1969, p. 252.
  28. Giuseppe Petronio, L'attività letteraria in Italia, Palermo, Palumbo, 1969, p. 253.
  29. Giuseppe Petronio, L'attività letteraria in Italia, Palermo, Palumbo, 1969, pp. 254-255.
  30. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2001, p. 301.
  31. 31,0 31,1 Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2001, p. 299.
  32. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2001, p. 298.
  33. Giuseppe Petronio, L'attività letteraria in Italia, Palermo, Palumbo, 1969, p. 258.
  34. 34,0 34,1 34,2 Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2001, p. 300.
  35. Giuseppe Petronio, L'attività letteraria in Italia, Palermo, Palumbo, 1969, p. 259.
  36. Giuseppe Petronio, L'attività letteraria in Italia, Palermo, Palumbo, 1969, p. 256.
  37. 37,0 37,1 37,2 Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2001, p. 297.
  38. Giuseppe Petronio, L'attività letteraria in Italia, Palermo, Palumbo, 1969, p. 257.

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