La Corte Costituzionale Italiana

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La Corte Costituzionale Italiana
Tipo di risorsa Tipo: lezione
Materia di appartenenza Materia: Giustizia costituzionale
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La Corte Costituzionale è un organo di garanzia costituzionale cui è demandato il compito di giudicare la legittimità degli atti dello Stato e delle Regioni, dirimere eventuali conflitti di attribuzione tra i poteri di dette istituzioni e tra le Regioni stesse, ed esprimersi su eventuali atti di accusa nei confronti del presidente della Repubblica.

Prevista già nel dettato costituzionale del 1948 all'articolo 134, trovò attuazione solo nel 1955 a seguito della legge costituzionale 1/1953 e della legge ordinaria 87/1953 e tenne la sua prima udienza nel 1956. La sua sede è a Roma, al palazzo della Consulta, da cui si attribuisce alla Corte l'informale nome, per metonimia, di Consulta.

La Storia della Corte Costituzionale[modifica]

Nella seduta di apertura della discussione sulla Suprema Corte costituzionale del 13 gennaio 1947, il Presidente della Sezione speciale per l'elaborazione delle norme sul potere giudiziario – già vicepresidente dell'Assemblea Costituente –, Giovanni Conti, esordì evidenziando la necessità di raggiungere «un'intesa sugli scopi e sulle funzioni di questo nuovo organo». Fece notare che, secondo il progetto di Piero Calamandrei, alla Corte dovevano essere deferiti i giudizi sull'incostituzionalità di leggi e atti aventi forza di legge, mentre altri Costituenti ritenevano che la funzione unica della Corte dovesse essere l'esame di singoli atti e provvedimenti e non il sindacato su leggi e decreti. Altre proposte discusse in Assemblea volevano che la Corte si occupasse anche dei conflitti fra lo Stato e le Regioni.

L'on. Palmiro Togliatti, nella seduta dell'11 marzo 1947, definì la Corte costituzionale una «bizzarria» grazie alla quale «degli illustri cittadini verrebbero ad essere collocati al di sopra di tutte le Assemblee e di tutto il sistema del Parlamento e della democrazia, per esserne i giudici». La riluttanza di molti Costituenti (fra i quali Vittorio Emanuele Orlando, Francesco Saverio Nitti e Luigi Einaudi) a riconoscere un organo in grado di stabilire la legittimità o l'illegittimità della volontà del Parlamento nasceva dalla convinzione dell'intangibilità della decisione sovrana.

La Corte costituzionale si insedia ufficialmente il 15 dicembre 1955 con il giuramento dei 15 giudici.

Il 23 gennaio 1956 la Corte elegge Enrico De Nicola presidente.

L'udienza inaugurale si tenne il successivo 23 aprile alla presenza del Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi e delle più alte cariche dello Stato. Subito dopo, ebbe luogo la prima trattazione di una questione di legittimità costituzionale, quella sollevata dal pretore di Prato che portò (il successivo mese di giugno) alla sentenza che caducò la norma del codice penale fascista che vietava di distribuire volantini sindacali.

In corrispondenza del biennio dedicato al Processo Lockheed, dalla fine degli anni '70 "l'arretrato della Corte assunse una preoccupante evidenza".

"Un primo passo nel senso della riduzione dell'arretrato si ebbe sotto la presidenza di Antonio La Pergola, allorché furono portate in decisione le questioni pervenute alla Corte prima degli anni '80 ed ancora pendenti. Ma ciò non bastava. Fu il Presidente Francesco Saja (...) ad imprimere una decisa accelerazione all'attività della Corte e a poter annunciare, a consuntivo dell'attività svolta nel 1988, il sostanziale azzeramento dell'arretrato". L'espansione vertiginosa negli anni ottanta delle decisioni d'inammissibilità fu però criticata, in quanto rese nella forma impropria della sentenza e giustificate solo in parte dall'esigenza di smaltire l'arretrato accumulato durante il processo Lockheed.

Nel 2001 si poteva scrivere: «negli ultimi tempi, in cui l'arretrato della Corte Costituzionale è molto ridotto e la Corte Costituzionale spesso si pronuncia su leggi entrate in vigore da pochissimo tempo».

Le Competenze della Corte Costituzionale[modifica]

In base all'articolo 134 della Costituzione, modificato dalla legge costituzionale 1/1989, la Corte è Competente:

  • giudica sulle controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti aventi forza di legge, dello Stato e delle Regioni;
  • risolve conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato, su quelli tra lo Stato e le Regioni e tra le Regioni;
  • si esprime sulle accuse promosse contro il Presidente della Repubblica, a norma della Costituzione;
  • la legge costituzionale 1/1953, all'articolo 2, estende le competenze della corte anche al giudizio di ammissibilità dei referendum abrogativi di leggi ordinarie esistenti.

Sono esentate dal controllo della Corte le fonti di diritto dell'Unione Europea nei limiti dei principi fondamentali (controlimiti).

Si può quindi affermare che essa svolga una funzione garantista (della legittimità e della legalità costituzionale) e una funzione arbitrale (per ciò che concerne i conflitti).

La Composizione della Corte Costituzionale[modifica]

L'art. 135 comma 1 della Costituzione afferma che la Corte costituzionale è Composta di quindici giudici nominati:

  • per un terzo dal Presidente della Repubblica
  • per un terzo dal Parlamento in seduta comune
  • per un terzo dalle supreme magistrature ordinaria e amministrative; di questi (secondo l'art. 2, comma 1, lettere a), b) e c) della legge n. 87 dell'11 marzo 1953):
    • tre sono eletti da un collegio del quale fanno parte il presidente, il procuratore generale, i presidenti di sezione, gli avvocati generali, i consiglieri e i sostituti procuratori generali della Corte di cassazione
    • uno da un collegio del quale fanno parte il presidente, i presidenti di sezione e i consiglieri del Consiglio di Stato
    • uno da un collegio del quale fanno parte il presidente, i presidenti di sezione, i consiglieri, il procuratore generale e i viceprocuratori generali della Corte dei conti.

Questa struttura mista è finalizzata a conferire equilibrio alla Corte costituzionale: per favorire tale equilibrio il costituente associa, nella composizione dell'organo, l'elevata preparazione tecnico-giuridica e la necessaria sensibilità politica.

La nomina da parte del capo dello Stato è un atto presidenziale in senso stretto per il quale è prevista la controfirma del presidente del Consiglio dei ministri, che può essere negata nel caso di mancanza dei requisiti nei candidati o per gravi ragioni di opportunità. Quindi il contenuto del decreto è deciso autonomamente dal presidente della Repubblica e la controfirma ha solo lo scopo di certificare la regolarità del procedimento seguito.

L'elezione a opera del Parlamento in seduta comune avviene a scrutinio segreto e con la maggioranza dei due terzi dei componenti dell'assemblea. Per gli scrutini successivi al terzo è sufficiente la maggioranza dei tre quinti. L'alto quorum ha spesso determinato ritardi (oltre il termine di un mese previsto da norma costituzionale) nell'elezione dei giudici, pericolosi perché la Corte per funzionare necessita di almeno 11 giudici, tanto che nel 2002, per la prima volta, la Corte ha rinviato la discussione su una delle cause in ruolo per mancato raggiungimento del quorum di 11 giudici.

L'elezione da parte della magistratura avviene con una maggioranza assoluta dei componenti del collegio e, in mancanza di questa, in seconda votazione a maggioranza relativa con ballottaggio fra i candidati, in numero doppio di quelli da eleggere, più votati.

I giudici sono scelti tra magistrati anche a riposo delle giurisdizioni superiori ordinarie e amministrative, i professori ordinari di università in materie giuridiche e gli avvocati con più di venti anni di attività professionale forense. Nel momento in cui il soggetto diventa giudice della Corte deve interrompere l'eventuale attività di membro del Parlamento o di un Consiglio regionale, di avvocato e di ogni carica e ufficio stabiliti dalla legge.

In relazione a questa componente elettiva si è posto il problema di stabilire che cosa si debba intendere per suprema magistratura: la tesi che ha prevalso è di ritenere che il soggetto debba possedere requisiti sia formali (cioè l'essere magistrato) sia sostanziali (cioè esercitare effettivamente le funzioni).

Il giudice così nominato resta in carica nove anni, decorrenti dal giuramento, alla scadenza dei quali cessa dalla carica e dall'esercizio delle funzioni. Il mandato non può essere rinnovato. Non è possibile la prorogatio del giudice con mandato scaduto, in attesa della nomina e dell'entrata nelle funzioni del nuovo giudice. Ciò potrebbe comportare qualche problema, per il fatto che non sempre il termine di un mese per la nomina di un nuovo giudice viene rispettato.

I membri della Corte costituzionale godono dell'immunità politica e penale simile a quella prevista dall'articolo 68.

Accanto alla composizione ordinaria la Corte conosce una composizione integrata, che si ha ogni volta che la Corte è chiamata a giudicare dei reati presidenziali di alto tradimento e di attentato alla costituzione, previa messa in stato di accusa del Capo dello Stato dal Parlamento in seduta comune a maggioranza assoluta dei suoi membri. In tal caso la Corte è integrata con 16 membri tratti a sorte da un elenco di 45 cittadini eleggibili a senatore che il Parlamento compila ogni nove anni mediante l'elezione con le stesse modalità stabilite per la nomina dei giudici ordinari. In tal caso la Corte deve essere composta da almeno 21 giudici e quelli aggregati devono essere la maggioranza.

Il Presidente della Corte Costituzionale[modifica]

Ai sensi del combinato disposto dell'articolo 6 della l. n. 87 dell'11 marzo 1953 e dell'articolo 7 del Regolamento Generale della Corte costituzionale, «la Corte elegge a scrutinio segreto sotto la Presidenza del giudice più anziano di carica [e] a maggioranza dei suoi componenti il Presidente». Nel caso in cui nessuno ottenga la maggioranza si procede a una nuova votazione e, dopo di questa, eventualmente, alla votazione di ballottaggio tra i candidati che hanno ottenuto il maggior numero di voti e si proclama eletto chi abbia riportato la maggioranza. In caso di parità è proclamato presidente il più anziano di carica e, in mancanza, il più anziano di età.

Dopo l'elezione, il presidente della Corte deve comunicare immediatamente la sua nomina al presidente della Repubblica, al presidente della Camera dei Deputati, al presidente del Senato della Repubblica e al presidente del Consiglio dei ministri.[10]

Il presidente, in ossequio al disposto dell'articolo 135, comma 5, della Costituzione, «rimane in carica per un triennio, ed è rieleggibile, fermi in ogni caso i termini di scadenza dall'ufficio di giudice». Fino alla modifica dell'art. 135, avvenuta nel 1967, il presidente durava in carica quattro anni ed era rieleggibile.

Il presidente della Corte, che è la quinta carica dello Stato, è scelto per una prassi invalsa fra i giudici che stanno concludendo il mandato, in modo da garantire una certa mobilità della carica. Durante l'elezione del presidente, per evitare che le preferenze espresse dai giudici siano conosciute all'esterno, le schede di voto vengono bruciate subito dopo la votazione nel caminetto della Camera di Consiglio.

Il presidente della Corte costituzionale svolge svariate funzioni fra le quali risaltano:

  • la nomina di un giudice per l'istruzione e la relazione nei giudizi di legittimità costituzionale e la convocazione della Corte per la discussione entro i successivi venti giorni, ai sensi dell'articolo 26 della l. n. 87/1953
  • la facoltà di ridurre i termini dei procedimenti nei casi in cui lo ritenga necessario, ai sensi dell'articolo 9 della legge costituzionale n. 1/1953
  • la fissazione con decreto del giorno dell'udienza pubblica della Corte, ai sensi dell'articolo 8 delle norme integrative del 2008
  • la facoltà di regolare la discussione e di determinare i punti più importanti sui quali essa deve svolgersi, ai sensi dell'articolo 17, comma 2, delle norme integrative del 2008
  • la facoltà di votare per ultimo nelle deliberazioni delle ordinanze e delle sentenze e, in caso di parità di voti, la prevalenza della sua preferenza (tranne nei giudizi di accusa nei quali – in ossequio all'articolo 28 della l. n. 20/1962 – «prevale l'opinione più favorevole all'accusato»), ai sensi dell'articolo 17, comma 3, delle norme integrative del 2008

Le attribuzioni conferite dalla legge e dai regolamenti al presidente della Corte, se formalmente lo pongono come primus inter pares rispetto agli altri giudici, sostanzialmente lo pongono in una posizione di effettiva preminenza, seppur non assoluta, ma tale da consentirgli di assolvere a una funzione d'impulso e di coordinamento dei lavori della Corte, oltre che d'influenzare i giudizi di legittimità costituzionale, pur nell'osservanza del principio di collegialità cui s'informa l'attività della Consulta.

Il Vicepresidente della Corte Costituzionale[modifica]

Ai sensi dell'articolo 6, comma 4, della l. 87/1953, «il Presidente, subito dopo l'insediamento nella carica, designa un giudice destinato a sostituirlo per il tempo necessario in caso di impedimento». Dal 1971 questo giudice assume formalmente il titolo di Vicepresidente.

Inoltre dal 1996, al giudice più anziano che presiede la Corte in caso di assenza del presidente e del vicepresidente, può essere conferito dalla Corte il titolo di vicepresidente.

Le Decisioni della Corte Costituzionale[modifica]

Le Decisioni della Corte Costituzionale assumono la forma delle decisioni giurisdizionali tipiche: "sentenze" (decisioni di merito), "ordinanze" (decisioni processuali), "decreti" (decisioni procedurali). Posta la modesta rilevanza esterna dei decreti, si può quindi affermare che le pronunce della Corte si possano distinguere in due categorie: le sentenze di accoglimento e le decisioni di rigetto (siano esse di merito o processuali).

Le Decisioni di Natura Processuale[modifica]

Per quanto riguarda le "Decisioni di Naturale Processuale", esse si basano su considerazioni che non consentono di passare all'esame del merito della questione di legittimità costituzionale. Nella giurisprudenza della Consulta, si può notare come esse assumano promiscuamente la forma delle sentenze o delle ordinanze, non contando tanto la forma stessa, quanto il motivo che sta alla base della decisione di non passare al merito, e presentano in alcuni casi un carattere sostanzialmente decisorio.

Le Decisioni di Merito[modifica]

Più complesso si presenta l'esame delle "Decisioni di Merito". Esse possono essere, innanzi tutto, divise in "sentenze di accoglimento", con le quali la Corte si pronuncia sia sulla questione sia sulla legge, e "decisioni di rigetto" (in forma di sentenza o di ordinanza), le quali invece si pronunciano solo sulla questione, in quanto non spetta alla Corte un generale potere di esternazione della costituzionalità o incostituzionalità delle leggi, ma solo un potere repressivo dell'incostituzionalità.

Per quanto riguarda gli effetti tipici nel tempo, la pronuncia di rigetto è costitutiva, avendo quindi efficacia ex nunc, mentre la sentenza di accoglimento, dichiarativa, ha rilevanti, anche se non assoluti, effetti ex tunc, che arretrano solo di fronte ai rapporti giuridici esauriti (con la rilevante eccezione del giudicato penale).

Una questione di legittimità semplice, la quale ossia si possa concludere con la caducazione o il mantenimento di una disposizione, si risolverà in una pronuncia di fondatezza o infondatezza. Una questione di legittimità costituzionale complessa, invece, ossia una questione per la quale non è sufficiente un'operazione meramente ablatoria da parte della Corte, verrà risolta con uno degli strumenti di cui la giurisprudenza della Consulta si è dotata nella sua attività, ossia con una "decisione interpretativa" oppure con una "sentenza manipolativa".

Le Decisioni Interpretative e le Decisioni Manipolative[modifica]

Nelle "Decisioni Interpretative" la Corte si pronuncia non sulla disposizione di legge nel significato normativo individuato dal giudice a quo, bensì su un diverso significato normativo che essa stessa ritiene contenuto nella disposizione impugnata. Non c'è così alcuna corrispondenza tra "chiesto e pronunciato".

Le decisioni interpretative di rigetto si dicono "correttive" quando la Corte «corregge» l'interpretazione fornita dal giudice a quo, la quale si discosta dal diritto vivente; si dicono invece "adeguatrici" (o decisioni interpretative di rigetto in senso stretto) quando la Corte individua nella disposizione impugnata dal giudice a quo un diverso significato, eventualmente anche contrario al diritto vivente, ma conforme al dettato costituzionale.

Le sentenze interpretative di accoglimento, invece, le quali sostanzialmente si basano sullo schema di una doppia pronuncia, vengono adottate soprattutto nelle ipotesi in cui si mantenga un diritto vivente difforme a una precedente decisione interpretativa di rigetto.

Per ciò che concerne gli effetti delle decisioni interpretative, mentre le sentenze di accoglimento hanno gli effetti ordinariamente collegati a questo tipo di pronuncia, maggiormente controversa è la questione riguardante le decisioni di rigetto, dovendosi distinguere tra le decisioni di rigetto in senso stretto, nelle quali l'interpretazione fornita dalla Corte è individuabile sia nella motivazione sia nel dispositivo, dalle decisioni di rigetto interpretative, nelle quali invece l'interpretazione fornita dalla Corte è presente nella sola motivazione. Si deve comunque notare come solitamente la giurisprudenza ordinaria si adegui alle interpretazioni operate dalla Corte, discostandosene soltanto in caso di invincibile opposto convincimento ermeneutico.

Le "Decisioni Manipolative", invece, comportano un'alterazione del parametro (che viene esteso nella sua interpretazione e applicazione) oppure del testo di legge. Queste ultime, a loro volta, possono essere:

  • riduttive: quando espungono, a seconda dei casi, parte della norma oppure parte della disposizione
  • additive: quando aggiungono un contenuto normativo assente nella disposizione. Possono essere "additive di garanzia" (o di prestazione) quando la pronuncia della corte introduce una norma (il che avviene quando la pronuncia è «a rime obbligate», ossia quando la norma aggiunta dalla Corte è direttamente ricavabile dal disposto costituzionale), oppure "additive di principio", quando cioè la Corte si limita a indicare un principio, il quale può orientare l'attività interpretativa del giudice ovvero l'azione del legislatore. Le additive di prestazione pongono un problema di copertura delle spese, pur non essendo le sentenze della Corte costituzionale, a differenza delle leggi, soggette all'obbligo costituzionale di copertura.
  • sostitutive: quando, con una duplice componente (ablatoria e additiva) una norma o una disposizione viene sostituita con altra norma o altra disposizione.

Come le decisioni della Corte possono avere effetti manipolativi nello «spazio», questi effetti si possono avere anche nel tempo, con decisioni manipolative per il passato (pro praeterito: incostituzionalità sopravvenuta e incostituzionalità differita) oppure per il futuro (pro futuro), con le quali la Corte - pur riconoscendo nella motivazione l'illegittimità della disposizione impugnata - rinvia l'annullamento con un dispositivo di rigetto (sentenze-indirizzo o monitorie di rigetto, sentenze di incostituzionalità accertata ma non dichiarata; vengono adottate soprattutto per sollecitare l'intervento del legislatore, altrimenti inerte).

Per concludere questo rapido esame delle decisioni della Corte, si deve ricordare che esse, in base all'art. 18 della legge n. 87 del 1953, sono motivate (in fatto e in diritto le sentenze; «succintamente motivate» le ordinanze). La "motivazione" - non prevista da fonti costituzionali, e da alcuni Autori ritenuta anche non costituzionalmente obbligatoria - assume importanti funzioni, sia politiche sia giuridiche, essendo essa rivolta, innanzi tutto, al giudice a quo, ma anche al legislatore, per l'eventuale seguito legislativo, e a tutti gli operatori del diritto.