Divina Commedia - Inferno - XXVI Canto (superiori)

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Divina Commedia - Inferno - XXVI Canto (superiori)
Tipo di risorsa Tipo: lezione
Materia di appartenenza Materia: Letteratura italiana per le superiori 1
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Il Ventiseiesimo Canto dell' Inferno di Dante Alighieri. Siamo nel mattino del 9 aprile 1300 (Sabato Santo), o secondo altri commentatori del 26 marzo 1300.

Lettura e Parafrasi del Canto[modifica]

Ulisse
Il vero nome di Ulisse era Odisseo, nome dal significato formidabile che gli fu assegnato dal nonno Autolico, motivandolo come "odiato dai nemici" che il nonno si era procurato, da coloro che lui farà per il primato della sua mente, "futura cagione di molte invidie". Ὀδυσσεύς Odysséus deriverebbe dal verbo greco ὀδύσσομαι odýssomai, "odiare", "essere odiato", quindi significherebbe "Colui che è odiato", ma fra i possibili significati dobbiamo citare "collerico" o addirittura "il piccolo", quest'ultima definizione si adatterebbe alla sua statura, non altissima.

Ulisse, epiteto datogli dai Romani e reso celebre da Livio Andronico (che significa "Ferito ad un'anca"), epiteto formato da due parole in riferimento a una ferita riportata alla coscia in una battuta di caccia al cinghiale (nelle foreste di Castalia), è la "personificazione" dell'astuzia, del coraggio, della curiosità e dell'abilità manuale. Figlio di Anticlea moglie di Laerte dal quale ereditò il regno e di Sisifo, da parte materna Ulisse è pronipote di Ermes. Sposo di Penelope e padre di Telemaco e secondo molte tradizioni di Telegono, avuto con la maga Circe.


Ulisse Dantesco e Ulisse Omerico
Due aspetti caratterizzano l'Ulisse dantesco. Il primo è l'astuzia che gli ha meritato la collocazione nella bolgia dei fraudolenti; l'altro è il coraggio messo al servizio della conoscenza: l'errore sta nel percorrere questa strada senza la guida divina, il che comporta una gioia di breve durata ("Noi ci allegrammo e tosto tornò in pianto", v. 136). L'Ulisse di Dante non è l'eroe omerico del ritorno alla patria e alla famiglia: il suo racconto comincia dal momento in cui vince le arti seduttrici della maga Circe fino al folle volo passate le colonne d'Ercole. Non ignora gli affetti familiari, ma questi non lo sviano dal suo bisogno di conoscenza. In Dante Ulisse chiama i compagni "fratelli" e li incita ad interrogarsi sul senso della vita, a non privarsi nell'ultima parte dell'esistenza della possibilità di continuare a conoscere, mentre l'Ulisse di Omero si preoccupava dei compagni e aveva nei loro confronti un rapporto più protettivo: voleva preservarli dai pericoli e perciò spiegò loro come difendersi dal canto ammaliatore delle sirene.


Punti Notevoli
Dante, sebbene conoscesse Omero (nominato più volte nella Divina Commedia e da lui posto nel Limbo, come si legge nel canto IV), non poteva aver letto l'Odissea in greco, ma era al corrente della storia di Ulisse da varie fonti latine (in primis le Metamorfosi di Ovidio e l'Odusia di Livio Andronico) e da vari romanzi medievali: in questa tradizione, e in autori come Cicerone, Seneca e Orazio, Ulisse era indicato quale esempio di uomo dominato dall'ardore della conoscenza. A partire da questi spunti e dalla narrazione di Ovidio, Dante inventa quasi completamente la storia dell'ultimo viaggio di Ulisse, motivato dall'amore per la conoscenza, amore che Dante condivideva e sicuramente non disapprovava, come si evince fin dalla prima frase del Convivio: «Tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere». Da ciò deriva la grande partecipazione emotiva di Dante nei confronti del dannato, espressa più volte nel canto e specialmente ai vv. 19-20: «Allor mi dolsi, ed ora mi ridoglio / quando drizzo la mente a ciò ch'io vidi», commozione tuttavia temprata da un appello alla virtù: «e più lo ingegno affreno ch'io non soglio, / perché nol corra che virtù nol guidi». Un parallelismo a questo punto si può istituire tra Dante e Ulisse: entrambi viaggiano spinti dall'ardore di conoscenza, entrambi si sono perduti (v. 3 del canto I: «ché la diritta via era smarrita»; vv. 83-84 di questo canto: «ma l'un di voi dica / dove per lui perduto a morir gissi»). Ma se Dante ritrova la via e accede a una conoscenza superiore, guidato dalla volontà divina, Ulisse non conosce questa grazia e rimane confinato entro la sfera puramente terrena, sensibile, del sapere: v. 115, «de' nostri sensi», e soprattutto vv. 97-99, «l'ardore / ch'i' ebbi a divenir del mondo esperto / e delli vizi umani e del valore»: non vi è in lui nessuna tensione etica, morale, che rivolga la conoscenza verso un fine giusto (anzi, essa rimane sempre fine a sé stessa), e il suo desiderio diventa perciò negativo, tanto più che egli coinvolge in questo male i suoi compagni. Ed è così che egli supera le Colonne d'Ercole poste «a ciò che l'uom più oltre non si metta», infrange il divieto divino e viene da Dio sconfitto, «com'altrui piacque».

« ... infin che 'l mar fu sovra noi richiuso » (v.142)

Notevole in questo canto è lo stile, che si innalza per raffigurare un personaggio magnanimo come quello di Ulisse (particolarmente ricca è l'apostrofe di Virgilio, ma anche tutta la narrazione successiva, che sfiora il tono epico nella narrazione del viaggio e si fa «orazione» nelle famosissime parole rivolte da Ulisse ai compagni). Da non trascurare anche i molti segnali che Dante dissemina nel suo testo, come la similitudine con il profeta Elia, che sale al cielo in un carro di fuoco (mentre Ulisse sprofonda), all'espressione biblica del v. 136 «tosto tornò in pianto» (più l'allitterazione), ai molti riferimenti negativi come la mano «mancina» (v. 126), la «luna» (v. 131), simboli negativi per la cultura classica.

Il critico Natalino Sapegno scrisse nel suo commento a questo canto dell'Inferno: "Il viaggio di Ulisse oltre le Colonne d'Ercole è un "folle volo", perché egli tenta, pur senza saperlo, un'impresa a compier la quale si richiedeva l'aiuto, a lui vietato, della Grazia [...]. Non è certo un caso che la commemorazione di questa sconfitta dell'umana ragione abbandonata alle sue sole forze sia collocata qui, a breve distanza, e quasi a guisa di esemplificazione, dall'affermazione della necessità di affrenare l'ingegno e contenerlo nei limiti di una norma religiosa (cfr. vv. 21-22)".

Nella cultura filosofica di stampo aristotelico la mente umana è rappresentata come una nave. La poppa è la memoria, la prua è la fantasia, o immaginazione. Il Purgatorio si aprirà (I, 1-3) su questa immagine: "Per correr migliori acque alza le vele / ormai la navicella del mio ingegno, / che lascia dietro a sé mar sì crudele ". Sulla soglia dell'ingresso del Paradiso (II, 1-3) si ritrova la medesima immagine.. La studiosa Maria Corti vede nell'Ulisse dantesco un'allegoria dell'aristotelismo radicale. Ulisse è il prototipo dell'"eroe della conoscenza errante", che "viola spazi inaccessibili". Si tratterebbe di una figura degli intellettuali - alcuni conosciuti da Dante, come Guido Cavalcanti - che avevano aderito all'aristotelismo radicale, ritenendo che la conoscenza perfetta si potesse raggiungere con le sole forze della ragione, senza intervento della Grazia divina e durante la vita mortale, terrena.


Curiosità
* Il canto XXVI è stato citato in Se questo è un uomo, libro di Primo Levi sulle tematiche del genocidio nazista a danno degli ebrei nonché di altre etnie considerate inferiori e impure.
  • Il verso "ma per seguir virtute e canoscenza" è utilizzato dalla SISSA come motto.
Testo Parafrasi
Godi, Fiorenza, poi che se’ sì grande,

che per mare e per terra batti l’ali,

e per lo ’nferno tuo nome si spande! 3

Tra li ladron trovai cinque cotali

tuoi cittadini onde mi ven vergogna,

e tu in grande orranza non ne sali. 6

Ma se presso al mattin del ver si sogna,

tu sentirai di qua da picciol tempo

di quel che Prato, non ch’altri, t’agogna. 9

E se già fosse, non saria per tempo.

Così foss’ei, da che pur esser dee! ché più mi graverà, com’più m’attempo. 12

Noi ci partimmo, e su per le scalee

che n’avea fatto iborni a scender pria, rimontò ’l duca mio e trasse mee;  15

e proseguendo la solinga via,

tra le schegge e tra ’ rocchi de lo scoglio

lo piè sanza la man non si spedia. 18

Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio

quando drizzo la mente a ciò ch’io vidi,

e più lo ’ngegno affreno ch’i’ non soglio, 21

perché non corra che virtù nol guidi;

sì che, se stella bona o miglior cosa

m’ha dato ’l ben, ch’io stessi nol m’invidi. 24

Quante ’l villan ch’al poggio si riposa,

nel tempo che colui che ’l mondo schiara

la faccia sua a noi tien meno ascosa, 27

come la mosca cede alla zanzara,

vede lucciole giù per la vallea,

forse colà dov’e’ vendemmia e ara: 30

di tante fiamme tutta risplendea

l’ottava bolgia, sì com’io m’accorsi

tosto che fui là ’ve ’l fondo parea. 33

E qual colui che si vengiò con li orsi

vide ’l carro d’Elia al dipartire,

quando i cavalli al cielo erti levorsi, 36

che nol potea sì con li occhi seguire,

ch’el vedesse altro che la fiamma sola,

sì come nuvoletta, in sù salire: 39

tal si move ciascuna per la gola

del fosso, ché nessuna mostra ’l furto,

e ogne fiamma un peccatore invola. 42

Io stava sovra ’l ponte a veder surto,

sì che s’io non avessi un ronchion preso,

caduto sarei giù sanz’esser urto. 45

E ’l duca che mi vide tanto atteso,

disse: «Dentro dai fuochi son li spirti;

catun si fascia di quel ch’elli è inceso» 48

«Maestro mio», rispuos’io, «per udirti

son io più certo; ma già m’era avviso

che così fosse, e già voleva dirti: 51

chi è ’n quel foco che vien sì diviso

di sopra, che par surger de la pira

dov’Eteòcle col fratel fu miso?». 54

Rispuose a me: «Là dentro si martira

Ulisse e Diomede, e così insieme

a la vendetta vanno come a l’ira; 57

e dentro da la lor fiamma si geme

l’agguato del caval che fé la porta

onde uscì de’ Romani il gentil seme. 60

Piangevisi entro l’arte per che, morta,

Deidamìa ancor si duol d’Achille,

e del Palladio pena vi si porta». 63

«S’ei posson dentro da quelle faville

parlar», diss’io, «maestro, assai ten priego

e ripriego, che ’l priego vaglia mille, 66

che non mi facci de l’attender niego

fin che la fiamma cornuta qua vegna;

vedi che del disio ver’ lei mi piego!». 69

Ed elli a me: «La tua preghiera è degna

di molta loda, e io però l’accetto;  

ma fa che la tua lingua si sostegna. 72

Lascia parlare a me, ch’i’ ho concetto

ciò che tu vuoi; ch’ei sarebbero schivi,  

perch’e’ fuor greci, forse del tuo detto». 75

Poi che la fiamma fu venuta quivi

dove parve al mio duca tempo e loco,

in questa forma lui parlare audivi: 78

«O voi che siete due dentro ad un foco,

s’io meritai di voi mentre ch’io vissi,

s’io meritai di voi assai o poco 81

quando nel mondo li alti versi scrissi,

non vi movete; ma l’un di voi dica

dove, per lui, perduto a morir gissi». 84

Lo maggior corno de la fiamma antica

cominciò a crollarsi mormorando

pur come quella cui vento affatica; 87

indi la cima qua e là menando,

come fosse la lingua che parlasse,

gittò voce di fuori, e disse: «Quando 90

mi diparti’ da Circe, che sottrasse

me più d’un anno là presso a Gaeta,

prima che sì Enea la nomasse, 93

né dolcezza di figlio, né la pieta

del vecchio padre, né ’l debito amore

lo qual dovea Penelopé far lieta, 96

vincer potero dentro a me l’ardore

ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto,

e de li vizi umani e del valore; 99

ma misi me per l’alto mare aperto

sol con un legno e con quella compagna

picciola da la qual non fui diserto. 102

L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna,

fin nel Morrocco, e l’isola d’i Sardi,

e l’altre che quel mare intorno bagna. 105

Io e ’ compagni eravam vecchi e tardi

quando venimmo a quella foce stretta

dov’Ercule segnò li suoi riguardi, 108

acciò che l’uom più oltre non si metta:

da la man destra mi lasciai Sibilia,

da l’altra già m’avea lasciata Setta. 111

"O frati", dissi "che per cento milia

perigli siete giunti a l’occidente,

a questa tanto picciola vigilia 114

d’i nostri sensi ch’è del rimanente,

non vogliate negar l’esperienza,

di retro al sol, del mondo sanza gente. 117

Considerate la vostra semenza:

fatti non foste a viver come bruti,

ma per seguir virtute e canoscenza". 120

Li miei compagni fec’io sì aguti,

con questa orazion picciola, al cammino,

che a pena poscia li avrei ritenuti; 123

e volta nostra poppa nel mattino,

de’ remi facemmo ali al folle volo,

sempre acquistando dal lato mancino. 126

Tutte le stelle già de l’altro polo

vedea la notte e ’l nostro tanto basso,

che non surgea fuor del marin suolo. 129

Cinque volte racceso e tante casso

lo lume era di sotto da la luna,

poi che ’ntrati eravam ne l’alto passo, 132

quando n’apparve una montagna, bruna

per la distanza, e parvemi alta tanto

quanto veduta non avea alcuna.  135

Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto,

ché de la nova terra un turbo nacque,

e percosse del legno il primo canto. 138

Analisi del Canto[modifica]

Nel Canto XXVI si tratta degli orditori di frode ossia condottieri e politici che non agirono con le armi e con il coraggio personale ma con l'acutezza spregiudicata dell'ingegno. Qui, Dante fa una riflessione sull'ingegno e sul suo utilizzo: l'ingegno è un dono di Dio, ma per il desiderio di conoscenza può portare alla perdizione, se non è guidato dalla virtù cristiana.

Invettiva contro Firenze - versi 1-12[modifica]

«Godi, Fiorenza, poi che se' sì grande
che per mare e per terra batti l'ali,
e per lo 'nferno tuo nome si spande!»

(vv. 1-3)
La targa sul Bargello: «...qu[a]e mare, qu[a]e terra[m], qu[a]e totu[m] possidet orbem...» (1255).

Il canto si apre con una invettiva nei confronti di Firenze che tematicamente si lega al canto precedente, dove Dante aveva incontrato cinque ladri appunto fiorentini: con ironia nota quanto Firenze sia conosciuta su tutta la terra (metaforicamente "batte l'ali", citando un'iscrizione sul Palazzo del Bargello del 1255). Francesco Buti a proposito commentava infatti: «erano allora i Fiorentini sparti molto fuor di Fiorenza per diverse parti del mondo, ed erano in mare e in terra, di che forse li fiorentini se ne gloriavano». Anche nell'Inferno quindi il nome di Firenze si spande, essendosi Dante dovuto vergognare per aver trovato ben cinque concittadini tra i «ladroni», che certo non arrecano «onore» alla sua città.

Ma se quello che si sogna al primissimo mattino, secondo una leggenda medievale, diventa vero, allora Dante predice che presto essa subirà la punizione che persino la vicinissima Prato, nonché altre città, desiderano per lei. Il perché sia indicata proprio Prato non è stato ancora chiarito e le ipotesi più convincenti sono quelle legate agli anatemi scagliati dal cardinale Niccolò da Prato, che tentò vanamente di riappacificare le fazioni fiorentine nel 1304. Manfredi Porena, pur non proponendo un'alternativa a questa spiegazione, trova difficoltà ad accettarla in quanto il cardinale da Prato fu poco dopo uno dei principali manipolatori dell'elezione di papa Clemente V, di cui si sa cosa pensasse Dante (Inferno XIX, 82-87), e par difficile che Dante potesse invocarne l'autorità, sia pure in tutt'altra materia.

Il poeta rincara poi la dose dicendo che se anche questa punizione fosse già arrivata, non sarebbe stata troppo sollecita ("E se già fosse, non saria per tempo.", v. 10) e, visto che la riconosce necessaria, si augura che arrivi presto ("Così foss'ei, da che pur esser dee!", v. 11) perché la sventura di Firenze gli graverà di più via via che la sua età avanza ("ché più mi graverà, com' più m'attempo.", v. 12). Non tutti i commentatori concordano sul perché Dante si augura che la punizione arrivi presto. Alcuni sostengono che la sventura di Firenze, benché ineluttabile, riempie Dante di dolore, che più gli sarà grave quanto più invecchierà. Il vecchio infatti sopporta meno i dolori, diventa sempre più disposto al perdono e l'amore per il luogo natio cresce in lui con l'età. Secondo altri Dante vuole dire invece che più la sventura tarderà, tanto più egli soffrirà per non aver goduto a lungo della punizione. Questa interpretazione contrasta però col "da che pur esser dee", che riconosce sì la necessità della punizione, ma lo fa a malincuore. È curioso che i commentatori moderni protendano tutti per la prima ipotesi e quelli antichi per la seconda, a dimostrare come in fondo la lettura di questo passo è anche mutuata dalla nostra sensibilità e maniera di pensare.

La bolgia dei consiglieri fraudolenti - vv. 13-48[modifica]

Alessandro Vellutello, illustrazione del Canto XXVI

«Noi ci partimmo, e su per le scalee
che n'avea fatto iborni a scender pria,
rimontò 'l duca mio e trasse mee;»

(vv. 13-15)

I due poeti ripartono dall'argine interno della settima bolgia percorrendo a ritroso la strada seguita in Inferno XXIV, 79-81: Virgilio risale la scala che li aveva «fatto iborni», reso eburnei, cioè fatti impallidire per l'orrore suscitato dalle serpi che stipavano la bolgia, quindi tira su Dante. Non tutti concordano sulla lezione sopra riportata del verso 14: alcuni preferiscono leggere "che n'avea fatto i borni a scender pria", interpretando "i borni" come le sporgenze digradanti (francese borne: pietra) che Virgilio ('l duca mio) aveva utilizzato come scala per scendere e che ora servono a entrambi per risalire. Altri leggono invece "che il buior n'avea fatto scender pria", ricordando che Dante aveva chiesto a Virgilio di scendere perché non poteva vedere il fondo della bolgia a causa del buio. A meno di un improbabile ritrovamento del manoscritto originale, non sapremo mai che cosa ha scritto realmente Dante; comunque sia, la sostanza del racconto, cioè che i due poeti sono ritornati al punto da cui erano partiti per vedere cosa c'era nella settima bolgia, non cambia.

«e proseguendo la solinga via,
tra le schegge e tra ' rocchi de lo scoglio
lo piè sanza la man non si spedia.»

(vv. 16-18)

Proseguono quindi per la strada solitaria ("solinga via"), per l'assenza di demoni e dannati, tra le pietre aguzze ("schegge") e tondeggianti ("rocchi") del ponticello successivo ("scoglio"), che deve essere più ripido dell'altro se non bastano i piedi per avanzare, ma bisogna aiutarsi con le mani.
Quando arriva sul colmo del ponticello, Dante prova un dolore tanto grande per quello che vede, da essere ancor vivo al momento in cui scrive, e grande a tal punto da indurlo a tenere a freno l'ingegno perché non superi i limiti della virtù; non vuole infatti che l'influenza degli astri ("stella bona") o la grazia divina ("miglior cosa"), che gli hanno concesso l'esperienza iniziatica, gliela tolgano per causa di una sua azione o un suo pensiero troppo ardito. Questa notazione, ora un po' arcana, diventerà evidente se considerata alla luce di ciò che verrà dopo nel canto, cioè la storia di Ulisse il cui ingegno, non tenuto a freno dalla virtù, gli procurò la morte per aver superato i limiti imposti da Dio.
Egli usa una similitudine per descrivere quello che vede:

«Quante 'l villan ch'al poggio si riposa,
nel tempo che colui che 'l mondo schiara
la faccia sua a noi tien meno ascosa,

come la mosca cede a la zanzara,
vede lucciole giù per la vallea,
forse colà dov'e' vendemmia e ara:

di tante fiamme tutta risplendea
l'ottava bolgia, sì com'io m'accorsi
tosto che fui là 've 'l fondo parea.»

(vv. 25-33)

«Quante lucciole vede il contadino che si riposa sul poggio,
d'estate, quando il sole
resta visibile più a lungo,

di sera, quando la mosca si posa e cede il posto alla zanzara,
giù nella valle,
forse proprio nei campi dove lavora:

di tante fiamme risplendeva tutta
l'ottava bolgia, così come mi accorsi
appena giunsi dove ne appariva il fondo.»

(parafrasi)

Segue quindi un'altra similitudine per rappresentare il fatto che ciascuna fiamma si muove racchiudendo in sé un peccatore, paragone dotto che si accorda al linguaggio ricercato e aulico di tutto il canto. Dante si ispira, con qualche licenza poetica, al rapimento in cielo del profeta Elia riportato dalla Bibbia nel 2º Libro dei Re, che racconta che mentre Elia ed Eliseo camminavano conversando, Elia fu improvvisamente rapito in cielo da un carro di fuoco trainato da cavalli di fuoco, che presto scomparve alla vista del suo compagno (cfr. 2Re 2, 11-12). Poco più avanti nello stesso testo (cfr. 2Re 2, 23-24) viene narrato che dei ragazzi incominciarono a beffare Eliseo, dandogli del calvo, finché egli si voltò e li maledisse nel nome del Signore, e dal bosco uscirono due orse che sbranarono quarantadue ragazzi. Ecco i versi di Dante:

«E qual colui che si vengiò con li orsi
vide 'l carro d'Elia al dipartire,
quando i cavalli al cielo erti levorsi,

che nol potea sì con li occhi seguire,
ch'el vedesse altro che la fiamma sola,
sì come nuvoletta, in sù salire:

tal si move ciascuna per la gola
del fosso, ché nessuna mostra 'l furto,
e ogne fiamma un peccatore invola.»

(vv. 34-42)

«E come colui che si vendicò con gli orsi (Eliseo)
vide partire il carro di Elia,
quando i cavalli si levarono dritti verso il cielo,

che con gli occhi poteva seguire
solo la fiamma, senza vedere altro,
salire su come una nuvoletta:

così si muove ciascuna fiamma nell'incavo
della bolgia, perché nessuna mostra il contenuto ("'l furto"),
e ognuna cela un peccatore (letteralmente "invola", cioè ruba, connesso con "furto").»

(parafrasi)

Dante sta guardando ritto in piedi ("surto") sul ponte, in modo così precario che se non fosse aggrappato ad un masso sporgente ("ronchion"), cadrebbe giù senza bisogno di essere urtato. Vistolo così attento ("atteso") Virgilio, non rendendosi conto stavolta che il compagno lo ha già capito, gli spiega che dentro ai fuochi ci sono gli spiriti dei dannati, ciascuno dei quali si fascia di quello da cui è acceso, cioè la fiamma ("catun si fascia di quel ch'elli è inceso").

Non è chiaro quali dannati siano puniti in questa bolgia. Essi sono abitualmente indicati come consiglieri fraudolenti e il loro contrappasso consiste nell'essere avvolti da lingue di fuoco, per analogia con le loro stesse lingue che furono fonte di frode, e nascosti dentro alle fiamme allo stesso modo in cui da vivi celarono la verità per l'inganno (come dice l'Apostolo Giacomo, la lingua fraudolenta è come fuoco). Tuttavia l'unico dei dannati che si inquadra in questa categoria è Guido da Montefeltro, presentato nel Canto XXVII, che si pente invano di un consiglio fraudolento fornito, su sua richiesta, a Papa Bonifacio VIII. Ulisse e Diomede, presentati nel seguito di questo canto, non sono puniti per i consigli dati, ma per le opere che hanno compiuto, e per loro la definizione di consiglieri fraudolenti mal si adatta perché risulta troppo specifica.

Ulisse e Diomede - vv. 49-84[modifica]

Dante allora ringrazia e risponde che aveva già capito ("già m'era avviso che così fosse") e, attratto in particolare da una fiamma doppia che gli ricorda Eteocle e suo fratello Polinice, ne chiede la spiegazione a Virgilio (altra citazione dotta sui due fratelli che arrivarono a uccidersi a vicenda per la discordia; in Stazio e in Lucano si racconta che anche le fiamme della pira su cui bruciavano i loro corpi si divisero in due, come se continuassero ad odiarsi anche dopo la morte).

Virgilio gli rivela che lì sono puniti Ulisse e Diomede, insieme nella vendetta divina così come, peccando insieme, incorsero nell'ira di Dio in vita, ed elenca i tre peccati per cui i due han ben da gemere nella fiamma, vale a dire:

  1. L'inganno del Cavallo di Troia, che provocò la caduta della città: da Troia uscì poi Enea, nobile progenitore ("gentil seme") dei Romani.
  2. La scoperta di Achille, fatto travestire da donna dalla madre Teti e mandato alla corte di Licomede affinché non partecipasse alla Guerra di Troia. Ulisse e Diomede, travestiti da mercanti, usarono l'astuzia di mostrargli spade in mezzo a sete e drappi, scoprendolo tra le altre donne e costringendolo a partire per la guerra, abbandonando la sua amante Deidamia che morì di dolore, e ancor morta si duole dell'amante infedele.
  3. Il furto del Palladio che proteggeva Troia.

Dante si mostra estremamente desideroso di parlare con i due, probabilmente perché in tutto il Medioevo c'era gran mistero su quale fosse stata la fine di Ulisse (Dante non conosceva l'Odissea perché non sapeva leggere il greco, anche se ne aveva letti alcuni sunti mutuati da autori latini) ed arriva a pregare Virgilio ben cinque volte in due terzine:

«"S'ei posson dentro da quelle faville
parlar", diss'io, "maestro, assai ten priego
e ripriego, che 'l priego vaglia mille,

che non mi facci de l'attender niego
fin che la fiamma cornuta qua vegna;
vedi che del disio ver' lei mi piego!".»

(vv. 64-69)

Virgilio gli promette di rivolgere loro delle domande purché egli taccia: parlerà lui perché essi sono greci e forse schivi "del tuo detto" (delle parole di Dante). Sul perché sia necessario che parli Virgilio si sono fatte diverse ipotesi: la più semplice è che i due parlano greco e Dante non conosce questa lingua, a differenza di Virgilio, ma questa ragione non sussiste perché se avessero parlato in greco Dante non avrebbe capito e non potrebbe riferire il contenuto del discorso, inoltre nel prossimo canto Guido da Montefeltro dirà di aver udito parlare Virgilio in dialetto lombardo; l'altra ipotesi è che siccome era comune opinione medievale che i greci fossero un popolo superbo, essi si sarebbero rifiutati di parlare con una persona che non avesse ancora eccellenti meriti, infatti l'invocazione successiva di Virgilio verterà proprio sulle sue opere, motivo di vanto, espresse nel più alto linguaggio possibile. In questo episodio comunque Dante riproduce la sua situazione rispetto ai greci e alla loro letteratura in particolare: non essendo la loro lingua conosciuta in Italia (con pochissime eccezioni forse in Calabria) essi "parlavano" solo tramite gli autori latini che avevano tradotto o sintetizzato o citato le loro opere.

Virgilio quindi aspetta che la duplice fiamma arrivi vicino al ponte e gli si rivolge con solennità e altisonanza, ponendo la questione principale, che ha letto nel pensiero di Dante, di sapere la fine di Ulisse, un mistero sul quale gli autori antichi tacevano:

«"O voi che siete due dentro ad un foco,
s'io meritai di voi mentre ch'io vissi,
s'io meritai di voi assai o poco

quando nel mondo li alti versi scrissi,
non vi movete; ma l'un di voi dica
dove, per lui, perduto a morir gissi".»

(vv. 79-84)

Da notare l'aulica anafora della prima terzina e la captatio benevolentiae.

Dante infatti non conosceva l'Odissea e ne trascurava anche i sunti medievali, sebbene piuttosto diffusi alla sua epoca. Della fine di Ulisse, sulla quale tacciono Virgilio, Orazio, Seneca e Cicerone, si erano fatte numerose congetture dai tempi Servio, più vive che mai nel Medioevo, alle quali Dante aggiunse una sua versione basata su vari indizi, ma tutto sommato piuttosto originale.

Racconto dell'ultimo viaggio di Ulisse - vv. 85-142[modifica]

Anonimo fiorentino, Il naufragio della nave di Ulisse (1390-1400)

La maggiore delle due fiamme inizia allora a muoversi come mossa dal vento e dal movimento della cima della lingua di fuoco iniziano a uscire le parole.

Ulisse non si presenta e inizia subito a parlare degli ultimi anni della sua vita, dall'addio alla maga Circe: in questo Dante riprende pari pari la lezione di Ovidio quando nelle Metamorfosi XIV 436 ss. Macareo, uno dei compagni di Ulisse, racconta a Enea come abbandonò il suo capitano che si rimetteva per l'ennesima volta in mare.

Dopo un anno a Gaeta (prima che Enea le desse quel nome) «né dolcezza di figlio, né la pièta / del vecchio padre, né 'l debito amore / lo qual dovea Penelope far lieta» poterono fermare Ulisse dalla sua sete di conoscenza, dall'ardore di conoscere i vizi umani e le virtù. Partì così per mare aperto invece di tornare a casa, con una barca e quella «compagnia picciola» di sempre. Navigò lungo i lidi europei (fino alla Spagna) e africani (fino al Marocco) del Mediterraneo occidentale, comprese le isole quali la Sardegna e le altre. Lui e i suoi compagni erano già anziani quando arrivarono a quella «foce stretta» dove Ercole segnò il confine da non superare, lo Stretto di Gibilterra. Ulisse passò Siviglia (Sibilia) a destra e Ceuta (Setta) a sinistra arrivando davanti allo stretto; per convincere i suoi all'impresa mai arrischiata pronunciò la famosa «orazion picciola»:

«"O frati," dissi, "che per cento milia
perigli siete giunti a l'occidente,
a questa tanto picciola vigilia

d'i nostri sensi ch'è del rimanente
non vogliate negar l'esperïenza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.

Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza".»

(vv. 112-120)

"Fratelli miei, che attraverso centomila pericoli siete arrivati a questa "piccola" ultima soglia (le famose colonne d'Ercole) presso l'Occidente; non negate ai nostri sensi quello che rimane da vedere, dietro al sole (dietro all'orizzonte), nel mondo disabitato; considerate la vostra origine: non siete nati per vivere come bruti (come animali), ma per praticare la virtù e apprendere la conoscenza."

Le celebri terzine sono un vertice di retorica: si apre con una captatio benevolentiae (il vocativo, il ricordo delle esperienze in comune) e cresce di intensità gradualmente, prima usando il "voi", poi "noi" (infatti prima di questa orazione Ulisse usava il pronome "io" e in seguito userà solo il "noi"), incitando all'impresa fino a culminare in chiusura toccando uno dei sentimenti più profondi dell'animo umano quale l'orgoglio per la superiorità sugli altri esseri viventi.

I compagni allora divennero così desiderosi di partire che a malapena li avrebbe potuti trattenere oltre: girarono la poppa a est e fecero dei remi «ali» per il «folle volo», sempre avanzando a sinistra, verso sud-ovest. Dopo cinque mesi già le stelle erano cambiate in cielo (perché erano giunti nell'altro emisfero) oppure erano trascorsi cinque noviluni e altrettanti pleniluni, quando apparve una montagna velata dalla lontananza («bruna») e altissima (il monte del Purgatorio). Essi si rallegrarono ma presto dovettero cedere al pianto perché da quella terra si mosse un turbine che percosse la barca alla prua; tre volte essi girarono intorno con tutta l'acqua vicina, alla quarta la poppa si alzò in alto, la prua in basso, come piacque a qualcuno (a Dio), e poi il mare fu sopra di essi richiuso (notare l'allusione al seppellimento, alla tomba), con un verbo che metaforicamente chiude anche il canto.

Dante ci fa capire tramite le parole di Ulisse l'importanza della conoscenza che non ha né età né limiti: infatti gli affetti più grandi non sono riusciti a vincere nell'animo di Ulisse il desiderio di conoscenza. La celebre terzina "Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza" è la sintesi della personalità di Dante il quale considerava la conoscenza il presupposto base per la valutazione di una persona. L'ansia di ricerca spinta all'estremo limite, che nella tradizione antica costituiva la peculiarità positiva dell'eroe omerico, in Dante diventa il peccato che condanna l'eroe per il fatto di aver disdegnato i limiti imposti alla natura umana. Per l'Ulisse classico Dante prese spunto da Publio Virgilio Marone, da Ovidio (Metamorfosi, XIV, 241 sgg.), da Seneca, da Cicerone (Sul sommo bene e sul sommo male, V, XVIII, v. 49) e soprattutto da Orazio (Epistulae, I, 2, 17-26).

Il racconto mostra dunque la debolezza dell'ingegno umano, abbandonato alle sue sole forze, privo della guida teologica della Grazia. Al "folle" viaggio di Ulisse si contrappone il viaggio "sacro" di Dante. Al modello umano e immanente del viaggio "orizzontale" di Ulisse, si contrappone il modello sovrumano e trascendente del viaggio "verticale" di Dante; il primo (di tradizione classica e "scientifica") tende all'allargamento illimitato dei confini del conoscere, il secondo (di tradizione ebraico-cristiana e teologica) tende a cogliere il significato universale e spirituale della vita.