Divina Commedia - Inferno - XIX Canto (superiori)
Il diciannovesimo canto dell'Inferno di Dante Alighieri nella terza bolgia dell'ottavo cerchio, dove sono puniti i simoniaci, ovvero uomini ecclesiastici che hanno abusato per scopi personali del denaro della chiesa. Siamo all'alba del 9 aprile del 1300 (Sabato Santo), o secondo altri commentatori del 26 marzo 1300.
Lettura e parafrasi del canto
[modifica]| Testo | Parafrasi |
| O Simon mago, o miseri seguaci che le cose di Dio, che di bontate deon essere spose, e voi rapaci 3 |
Oh Simon Mago, oh miseri seguaci tuoi, che le cose di Dio, che dovrebbero essere amate come spose, voi le usate invece come oggetti per arricchirvi. |
| per oro e per argento avolterate, or convien che per voi suoni la tromba, però che ne la terza bolgia state. 6 |
per oro e argento, le vostre mani sono piene di peccato, ora è giusto che suoni la tromba del giudizio, perché vi trovate nella terza bolgia. |
| Già eravamo, a la seguente tomba, montati de lo scoglio in quella parte ch'a punto sovra mezzo 'l fosso piomba. 9 |
Eravamo già vicini alla tomba successiva, salimmo su uno scoglio che pendeva a picco sul fosso. |
| O somma sapïenza, quanta è l'arte che mostri in cielo, in terra e nel mal mondo, e quanto giusto tua virtù comparte! 12 |
Oh somma sapienza, quanta grandezza mostri nel cielo, nella terra e nel mondo infernale, e quanto giustamente distribuisci la tua virtù. |
| Io vidi per le coste e per lo fondo piena la pietra livida di fóri, d'un largo tutti e ciascun era tondo. 15 |
Vidi lungo le coste e sul fondo della valle, le pietre livide erano piene di fori, ognuno di questi fori era grande e tondo. |
| Non mi parean men ampi né maggiori che que' che son nel mio bel San Giovanni, fatti per loco d'i battezzatori; 18 |
Non mi sembravano né più piccoli né più grandi di quelli nel battistero di San Giovanni, fatti per l'uso dei battezzatori. |
| l'un de li quali, ancor non è molt'anni, rupp'io per un che dentro v'annegava: e questo sia suggel ch'ogn'omo sganni. 21 |
Uno di questi, non molti anni fa, io lo romperei per salvare una persona che stava annegando dentro, e questa sia la prova che tutti devono essere attenti. |
| Fuor de la bocca a ciascun soperchiava d'un peccator li piedi e de le gambe infino al grosso, e l'altro dentro stava. 24 |
Da ogni apertura uscivano i piedi e le gambe di un peccatore, fino alle cosce, mentre il resto del corpo rimaneva immerso. |
| Le piante erano a tutti accese intrambe; per che sì forte guizzavan le giunte, che spezzate averien ritorte e strambe. 27 |
Entrambe le piante dei piedi erano infuocate; così forte si muovevano le giunture, che si sarebbero rotte o distorte. |
| Qual suole il fiammeggiar de le cose unte muoversi pur su per la strema buccia, tal era lì dai calcagni a le punte. 30 |
Così come il fuoco sulle cose unte che si muove solo sulla superficie, allo stesso modo bruciavano loro, dai calcagni alle punte dei piedi. |
| "Chi è colui, maestro, che si cruccia guizzando più che li altri suoi consorti", diss'io, "e cui più roggia fiamma succia?". 33 |
“Chi è colui, maestro, che soffre di più degli altri suoi compagni”, chiesi io, “e perché una fiamma più ardente lo tormenta?” |
| Ed elli a me: "Se tu vuo' ch'i' ti porti là giù per quella ripa che più giace, da lui saprai di sé e de' suoi torti". 36 |
Virgilio rispose: “Se desideri che ti conduca giù per quella riva che più giace in basso, lì potrai conoscere lui e i suoi peccati.” |
| E io: "Tanto m'è bel, quanto a te piace: tu se' segnore, e sai ch'i' non mi parto dal tuo volere, e sai quel che si tace". 39 |
E io: "Mi va bene quanto a te possa piacere; tu sei il mio maestro, sai che non mi allontano dalla tua volontà e conosci i miei pensieri." |
| Allor venimmo in su l'argine quarto; volgemmo e discendemmo a mano stanca là giù nel fondo foracchiato e arto. 42 |
Arrivammo al quarto argine, girammo e scendemmo stanchi, giù nel fondo profondo e tortuoso. |
| Lo buon maestro ancor de la sua anca non mi dipuose, sì mi giunse al rotto di quel che si piangeva con la zanca. 45 |
Il buon maestro non mi lasciò, mi fece avvicinare al dannato che piangeva, con le gambe contorte per il dolore. |
| "O qual che se' che 'l di sù tien di sotto, anima trista come pal commessa", comincia' io a dir, "se puoi, fa motto". 48 |
“Chiunque tu sia, che stai in basso, oh anima triste che ti dibatti come una pianta,” cominciai a dire, “se puoi, parla.” |
| Io stava come 'l frate che confessa lo perfido assessin, che, poi ch'è fitto, richiama lui per che la morte cessa. 51 |
Stavo come un frate che confessa un assassino, che, una volta condannato, lo chiama per farlo morire più lentamente. |
| Ed el gridò: "Se' tu già costì ritto, se' tu già costì ritto, Bonifazio?" Di parecchi anni mi mentì lo scritto. 54 |
Lui gridò: “Sei già qui, in piedi, Bonifacio? Lei mi aveva mentito di qualche anno!” |
| Se' tu sì tosto di quell'aver sazio per lo qual non temesti tòrre a 'nganno la bella donna, e poi di farne strazio?". 57 |
Ti sei saziato di quella ricchezza, e non hai temuto di rubare una donna, per poi farne uno strazio? |
| Tal mi fec'io, quai son color che stanno, per non intender ciò ch'è lor risposto, quasi scornati, e risponder non sanno. 60 |
Così mi sentii io, come coloro che stanno in silenzio, senza capire ciò che è stato detto loro, quasi vergognandosi e incapaci di rispondere. |
| Allor Virgilio disse: "Dilli tosto: "Non son colui, non son colui che credi""; e io rispuosi come a me fu imposto. 63 |
Allora Virgilio disse: “Dì subito: ‘Non sono chi credi che io sia!'”; e io risposi come mi era stato ordinato. |
| Per che lo spirto tutti storse i piedi poi, sospirando e con voce di pianto, mi disse: "Dunque che a me richiedi?" 66 |
L'anima distorse tutti i piedi, poi sospirò e con voce piangente mi disse: “Allora, cosa vuoi sapere da me?” |
| Se di saper ch'i' sia ti cal cotanto, che tu abbi però la ripa corsa, sappi ch'i' fui vestito del gran manto; 69 |
Se ti interessa tanto sapere chi io sia, e che tu abbia quindi percorso tutta questa riva, sappi che ero vestito con il grande manto (indumento papale). |
| e veramente fui figliuol de l'orsa, cupido sì per avanzar li orsatti, che sù l'avere e qui me misi in borsa. 72 |
E veramente ero figlio della lince (la famiglia di Bonifacio VIII), desideroso di avanzare nella gerarchia ecclesiastica, che mi misi a usare i beni e qui mi riempii le tasche. |
| Di sotto al capo mio son li altri tratti che precedetter me simoneggiando, per le fessure de la pietra piatti. 75 |
Sotto la mia testa ci sono i tratti degli altri che hanno preceduto me, simoneggiando, e le loro anime si strisciano lungo le fessure della pietra. |
| Là giù cascherò io altresì quando verrà colui ch'i' credea che tu fossi, allor ch'i' feci 'l sùbito dimando. 78 |
Là giù cadrò anch'io quando verrà colui che pensavo fossi tu, quando feci la domanda immediatamente. |
| Ma più è 'l tempo già che i piè mi cossi e ch'i' son stato così sottosopra, ch'el non starà piantato coi piè rossi:" 81 |
È passato molto tempo da quando i miei piedi si sono mossi, e da quando sono stato sottosopra, che non resterà piantato con i piedi rossi. |
| ché dopo lui verrà di più laida opra, di ver' ponente, un pastor sanza legge, tal che convien che lui e me ricuopra. 84 |
Poiché dopo di lui verrà un'opera ancora più spregevole, un pastore senza legge da occidente, che dovrà coprire lui e me. |
| Nuovo Iasón sarà, di cui si legge ne' Maccabei; e come a quel fu molle suo re, così fia lui chi Francia regge". 87 |
Un nuovo Giasone sarà, di cui si legge nel libro dei Maccabei; e come il suo re fu debole, così sarà lui che regge la Francia. |
| Io non so s'i' mi fui qui troppo folle, ch'i' pur rispuosi lui a questo metro: "Deh, or mi dì: quanto tesoro volle 90 |
Non so se sono stato troppo audace, ma risposi subito a questo modo: “Dimmi, per favore, quanto oro voleva |
| Nostro Segnore in prima da san Pietro ch'ei ponesse le chiavi in sua balìa? Certo non chiese se non "Viemmi retro". 93 |
Nostro Signore, prima di San Pietro, quando gli consegnò le chiavi del regno? Certamente non chiese altro che: "Vieni dietro a me". |
| Né Pier né li altri tolsero a Matia oro od argento, quando fu sortito al loco che perdé l'anima ria. 96 |
Né Pietro né gli altri presero oro o argento, quando fu scelto Matia per sostituire Giuda, nella posizione che avrebbe causato la sua dannazione. |
| Però ti sta, ché tu se' ben punito; e guarda ben la mal tolta moneta ch'esser ti fece contra Carlo ardito. 99 |
Perciò stai tranquillo, poiché sei giustamente punito; guarda bene la moneta mal acquisita, che ti ha portato contro il valoroso Carlo. |
| E se non fosse ch'ancor lo mi vieta la reverenza de le somme chiavi che tu tenesti ne la vita lieta, 102 |
E se non fosse che la reverenza per le sommo chiavi che tu tenevi durante la tua vita felice, mi verrebbero altre parole ancora più dure. |
| io userei parole ancor più gravi; ché la vostra avarizia il mondo attrista, calcando i buoni e sollevando i pravi. 105 |
Userei parole ancora più gravi; perché la vostra avarizia affligge il mondo, schiacciando i buoni e innalzando i malvagi. |
| Di voi pastor s'accorse il Vangelista, quando colei che siede sopra l'acque puttaneggiar coi regi a lui fu vista; 108 |
Il Vangelista si accorse di voi pastori, quando colei che siede sopra le acque, si vide seduta con i re, prostituendosi. |
| quella che con le sette teste nacque, e da le diece corna ebbe argomento, fin che virtute al suo marito piacque. 111 |
Lei che nacque con sette teste, e dalle dieci corna prese significato, finché la sua virtù piacque al suo marito. |
| Fatto v'avete dio d'oro e d'argento; e che altro è da voi a l'idolatre, se non ch'elli uno, e voi ne orate cento? 114 |
Avete fatto di Dio un idolo d'oro e d'argento; e che differenza c'è tra voi e gli idolatri, se loro pregano un solo idolo e voi ne pregate cento? |
| Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre, non la tua conversion, ma quella dote che da te prese il primo ricco patre!". 117 |
Ah Costantino, quanto male sei stato madre, non per la tua conversione, ma per quella dote che prese da te il primo ricco papa! |
| E mentr'io li cantava cotai note, o ira o coscïenza che 'l mordesse, forte spingava con ambo le piote. 120 |
E mentre io gli cantavo questi versi, la rabbia o la coscienza lo mordeva, e lo spingeva forte con entrambe le mani. |
| I' credo ben ch'al mio duca piacesse, con sì contenta labbia sempre attese lo suon de le parole vere espresse. 123 |
Credo proprio che al mio duca piacesse, e con la sua bocca soddisfatta, sempre in attesa, il suono delle parole veritiere che ho detto. |
| Però con ambo le braccia mi prese; e poi che tutto su mi s'ebbe al petto, rimontò per la via onde discese. 126 |
Poi mi prese con entrambe le braccia; e, dopo che mi ebbe al petto, salì lungo la via per cui era sceso. |
| Né si stancò d'avermi a sé distretto, sì men portò sovra 'l colmo de l'arco che dal quarto al quinto argine è tragetto. 129 |
E non si stancò di tenermi vicino, così mi portò sopra il culmine dell'arco, che collega il quarto e il quinto argine. |
| Quivi soavemente spuose il carco, soave per lo scoglio sconcio ed erto che sarebbe a le capre duro varco. 132 |
Là dolcemente pose il suo carico, dolce per lo scoglio ruvido e ripido, che sarebbe stato difficile da attraversare per le capre. |
| Indi un altro vallon mi fu scoperto. 135 | Poi mi fu rivelata un'altra valle. |
Analisi del canto
[modifica]C'è una struttura lineare divisa in sequenze. Il canto si svolge in un clima di sdegno. Nonostante Niccolò III sia sempre presente, vede come vero protagonista Dante. Tema: potere temporale della Chiesa. Alla fine tutte queste idee confluiranno nel De Monarchia. Luogo: pietra livida dove si aprono pozzi circolari. Qui vi sono i simoniaci a testa in giù. Da questo pozzo escono i piedi dell'ultimo dannato lambiti dal fuoco.
I simoniaci - versi 1-30
[modifica]Il canto inizia con un'apostrofe rivolta a Simon Mago, personaggio degli Atti degli Apostoli che intendeva acquistare col denaro la facoltà di fare prodigi da San Pietro e dal cui nome deriva il termine simonia.
In questo canto Dante mostra infatti la bolgia dove sono puniti i simoniaci, all'interno dell'ottavo cerchio dell'Inferno, dedicato ai fraudolenti. Questa bolgia è introdotta in maniera non canonica rispetto alle altre: invece di descrivere l'aspetto generale del luogo per poi scegliere un peccatore, che a sua volta indichi poi i nomi di altri dannati, qui Dante inizia improvvismente con un'invettiva solenne che annuncia il carattere del canto, dove il poeta esporrà le sue idee in merito alla situazione politica globale, dominata dalle lotte tra papato e impero che erano alla base di tutti i problemi del mondo allora attuale.
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«O Simon mago, o miseri seguaci |
| (vv. 1-6) |

Il suonare la tromba richiama sia i banditori medievali, che richiamavano l'attenzione, sia il passo dell'Apocalisse di Giovanni dove gli angeli suonano la tromba per annunciare il Giudizio Universale.
Dante inizia solo dopo a parlare di dove si trova: già nella bolgia successiva, sulla parte dello "scoglio" (il ponticello che scavalca la bolgia) che sta sopra la mezzeria del fosso ("Già eravamo, a la seguente tomba, montati de lo scoglio in quella parte ch'a punto sovra mezzo 'l fosso piomba.", vv. 7-9). Quindi il poeta, dopo un'invocazione alla sapienza divina che con giustizia amministra sia il mondo dei vivi sia le punizioni nell'Inferno, inizia a tracciare l'aspetto della nuova fossa: piena di buchi (gli ricordano quelli del bel San Giovanni a Firenze, dove si battezza e dove Dante ebbe occasione di scheggiarne uno quando si trattò di salvare un ragazzo che vi stava affogando) da cui escono le gambe dei peccatori fino alle cosce (il "grosso"), con le piante dei piedi accese da fiammelle che sembrano quelle che lambiscono la superficie ("la buccia") delle cose unte; per il supplizio questi dannati scalciano furiosamente ("per che sì forte guizzavan le giunte, che spezzate averien ritorte e strambe", vv. 26-27, cioè così forte scuotevano i ginocchi che avrebbero spezzato qualsiasi tipo di corda, comprese le fortissime "ritorte" di vimini e le "strambe" di fibre vegetali).
Papa Niccolò III - vv. 31-87
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Dante è subito attratto da una fossa dove il dannato scalcia più degli altri e ha una fiamma più rossa degli altri; Virgilio si offre di accompagnarcelo subito scendendo con lui nella fossa: si scoprirà presto che quella è la fossa riservata nientemeno che ai papi. Con precisione Dante ci racconta la sua risposta e la discesa verso sinistra ("discendemmo a mano stanca / là giù nel fondo foracchiato e arto", vv. 41-42). Arrivati alla fossa, a Dante sembra che l'uomo pianga "con la zanca", cioè con le gambe ("cianca" è un termine dialettale ancora in uso).
Dante allora si rivolge all'anima capovolta:
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«"O qual che se' che 'l di sù tien di sotto, anima trista come pal commessa", comincia' io a dir, "se puoi, fa motto".» |
| (vv. 46-47) |
Cioè "Oh tale che stai sottosopra, anima malvagia che stai conficcata come un palo, se puoi parla." La successiva descrizione ha dei toni surreali: Dante dice che stava come il frate che confessi un assassino (all'epoca la parola aveva valore di sicario, e in molte città costoro erano condannati a morte tramite propagginazione, cioè appesi capovolti in una buca che veniva gradualmente riempita fino al soffocamento), che viene richiamato dall'assassino stesso per ritardare il momento della morte; dato che il dannato è un papa, è piuttosto curioso ed eloquente lo scambio di ruoli tra confessato e confessore che qui il poeta immagina.
Il peccatore allora inizia a cantilenare con sorpresa "Se' tu già costì ritto, / se' tu già costì ritto, Bonifazio?", ripetendo due volte la domanda e aggiungendo che forse si è sbagliato lo scritto, cioè il libro del futuro che i dannati possono comprendere, che gli prediceva la sua venuta tra molti anni. Continua apostrofando e malignamente insinuando che forse il nuovo arrivato (papa Bonifacio VIII) è già stanco (sazio) di straziare la bella donna che aveva sposato con l'inganno. Dante a queste parole rimane di sasso, perché non le capisce:
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«Tal mi fec'io, quai son color che stanno, per non intender ciò ch'è lor risposto, quasi scornati, e risponder non sanno.» |
| (vv. 58-60) |
La spiegazione della situazione viene data di lì a poco, dopo che Virgilio ha intimato a Dante ammutolito dal dubbio di rispondere "Non son colui, non son colui che credi", quasi imitando ironicamente la ripetizione della domanda del dannato.
Dante sta parlando con Niccolò III, papa simoniaco che attende la venuta del suo successore, Bonifacio VIII. In quella bolgia infatti vige la regola che stiano in superficie solo gli ultimi arrivati, che poi vengono fatti sprofondare nelle viscere rocciose dopo l'arrivo di un nuovo dannato. Con questo stratagemma Dante può collocare all'Inferno anche i papi non ancora morti, in particolare il tanto odiato Bonifacio VIII che egli vedeva come uno dei personaggi causa delle disgrazie dei suoi tempi. La bella donna alla quale allude Niccolò III altro non è che la Chiesa latina, in una metafora, frequente all'epoca, del matrimonio tra pontefice e Santa Romana Chiesa. La nota del "tòrre con inganno", cioè del "prendere" (sposare con l'inganno), si riferisce alla contestata elezione di Bonifacio, che avrebbe prima indotto ad abdicare il suo predecessore Celestino V, secondo alcuni commentatori identificabile con colui che fece il gran rifiuto (citato da Dante in Inf. III, 60).
Inizialmente Niccolò III (del quale non sappiamo ancora l'identità dal testo) parla presentandosi: (parafrasi) "Se sei così curioso di sapere chi io sia, tanto che hai anche sceso la "ripa", sappi che io fui un papa (vestito del gran manto), e fui un Orsini (figlio dell'orsa), che con cupidigia cercai di far avanzare i miei nipoti (orsatti, cioè orsacchiotti), mettendo lassù averi in borsa e condannando me, qui giù, a esser imborsato" (vv. 67-72).
Continua poi il papa esponendo il meccanismo del tormento in quella bolgia e spiegando che il suo successore lo spingerà giù (Bonifacio VIII morirà solo nel 1303, mentre Dante immagina il viaggio nella primavera del 1300). Continua profetizzando che il suo seguace non starà a farsi "cuocere i piedi" quanto c'è stato lui, perché dopo di lui verrà un papa anche peggiore, "di più laida opra". Questo terzo papa è Clemente V, francese (Dante fa intuire che verrà da ponente), che farà come quel Giasone (quello dei Maccabei spiega Dante, non quello mitologico incontrato nel canto precedente tra i seduttori) che comprò dal suo re (Antioco IV Epifane) la dignità di sommo sacerdote, così egli farà dal suo re di Francia (Filippo IV di Francia, il bello). Il riferimento al papa che diede di fatto inizio alla cattività avignonese non giungendo mai a Roma e stanziandosi nel sud della Francia è stato ed è tuttora motivo di grandi controversie riguardo alla datazione dell'Inferno.
La cantica viene generalmente datata come iniziata nel biennio 1304-1305 o, secondo altre tesi più accreditate, il periodo 1306-1307, coi fatti citati che non vanno oltre il 1309. La prima citazione pervenutaci di un passo della Commedia risale al 1317 ed è contenuta nel retro di copertina di un registro bolognese, mentre i manoscritti più antichi che possediamo risalgono tutti agli anni dopo il 1330. Tra l'altro, si tratta in particolare di copie di Giovanni Boccaccio, che a sua volta le ricopiò non dal manoscritto originale. In questi versi Dante dimostra di essere a conoscenza del fatto che il successore di Bonifacio VIII regnerà meno di Bonifacio stesso (che governò la Chiesa per nove anni). Clemente V regnò fino al 1314 e questa citazione è in contrasto con tutte le teorie di datazione generalmente accettate (a quell'epoca si ritiene che Dante stesse già scrivendo il Purgatorio). La versione attualmente più accreditata è che la citazione riguardo alla durata del pontificato di Clemente sia un ritocco eseguito dal poeta in epoca successiva alla stesura della cantica. Non è d'altronde molto accreditato dagli studiosi il fatto che Dante si fosse solo fidato del suo buonsenso, valutando le condizioni di salute del papa in carica. A favore di quest'ultima ipotesi bisogna però considerare che, affinché Bonifacio VIII stesse a farsi "cuocere i piedi" meno a lungo di Niccolò III, che rimase "imborsato" per ventitré anni (dalla sua morte nel 1280 a quella di Bonifacio VIII nel 1303), Clemente V sarebbe dovuto morire prima del 1326, previsione che Dante poteva ben arrischiare viste le precarie condizioni di salute di Clemente stesso.
Invettiva contro i papi simoniaci - vv. 88-133
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A questo punto Dante si sente di rispondere al Papa. Pur temendo di essere troppo temerario (folle), avvia un discorso (che poi Virgilio, simbolo della ragione, benedirà con il suo assenso): (parafrasi)
"Dimmi dunque, quanti soldi chiese Nostro Signore da San Pietro prima che gli desse le chiavi? Solo un 'Vienimi dietro'; a loro volta né Pietro né gli altri apostoli chiesero alcun oro o argento a Mattia apostolo quando gli offrirono il posto dell'anima malvagia (di Giuda Iscariota); Perciò ti sta bene che tu venga ben punito; per non parlare dei soldi ingiustamente rubati, che ti misero contro Carlo l'ardito (Carlo d'Angiò). Se parlo così è per reverenza delle somme chiavi di pontefice che tenesti in vita, perché dovrei usare parole anche peggiori: la vostra avarizia (anche qui intesa come avidità) rattrista il mondo, schiaccia i buoni ed eleva i malvagi. Proprio di voi parlava profetizzando l'evangelista Giovanni quando nell'Apocalisse citava colei che siede sopra le acque 'puttaneggiando con i re' (la Chiesa, che siede su tutti i popoli rappresentati da tutti i fiumi della Terra, anche se nell'Apocalisse i teologi hanno indicato rappresentare Roma)" (vv. 90-108).
Dante prosegue e passa a interpretare liberamente le figure dell'Apocalisse, dove compare un drago rosso con sette teste e dieci corna, identificato dai primi esegeti biblici con Raab o il Leviatano, ma più frequentemente col Diavolo, comandante delle forze del male, con cui la donna si fortificò finché piacque al marito, cioè al papa stesso. Grave è l'accusa della terzina seguente: Dante dice che ora i Papi adorano un Dio d'oro e d'argento (chiaro è il riferimento all'episodio biblico del Vitello d'oro), che non è nemmeno uno, ma sono cento, come nel diabolico paganesimo.
Infine l'orazione si conclude con un'invettiva contro Costantino I:
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«"Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre, non la tua conversion, ma quella dote che da te prese il primo ricco patre!» |
| (vv. 115-117) |
Parafrasando, Dante rimprovera a Costantino non già la sua conversione, ma la cosiddetta donazione di Costantino, un documento falso (ma la sua non-autenticità fu dimostrata come tale solo nel XV secolo dall'umanista Lorenzo Valla, sebbene già nei secoli prima molti dubbi fossero stati avanzati a tal proposito) che legittimava il potere temporale del papa. Secondo questo documento, che Dante biasimò duramente nel De Monarchia, l'imperatore, prima di trasferire la capitale a Costantinopoli, fece dono a papa Silvestro I della città di Roma, alienando di fatto un pezzo di Impero a un esponente religioso. Forti di tale documento i papi, soprattutto nel Medioevo, avallarono gli scontri con l'Imperatore che erano alla base di gran parte dei problemi politici del Medioevo europeo.
Terminata l'orazione, che il papa dannato ha ascoltato in silenzio contorcendo talvolta le gambe con maggiore energia per la rabbia o per il rimorso, Dante è rincuorato dall'espressione accondiscendente di Virgilio, che, come simbolo della Ragione, ha gradito la professione di "verità" del suo discepolo. Il maestro solleva quindi Dante e lo riporta sul sentiero sopra il fossato. Qui "un altro vallon" viene a mostrarsi al poeta.
