Divina Commedia - Inferno - I Canto (superiori)

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Divina Commedia - Inferno - I Canto (superiori)
Tipo di risorsa Tipo: lezione
Materia di appartenenza Materia: Letteratura italiana per le superiori 1
Avanzamento Avanzamento: lezione completa al 100%

Il Primo Canto dell' Inferno di Dante Alighieri funge da proemio all'intero poema, e si svolge nella selva e poi sul pendio che conduce al colle; siamo nella notte tra il 7 e l'8 aprile 1300 (Venerdì Santo), o secondo altri commentatori tra il 24 e il 25 marzo 1300 (anniversario dell'Incarnazione di Gesù Cristo).

Qui Dante incontra Virgilio, che lo accompagnerà nella visita dell'Inferno, prima tappa della sua purificazione dal peccato. Virgilio ha scritto l'eneide

Lettura e Parafrasi del Canto[modifica]

Publio Virgilio Marone
Virgilio nacque il 15 ottobre del 70 a.C. vicino a Mantova, precisamente nel villaggio di Andes, località identificata dal XIII secolo con il borgo di Pietole; in tal senso si esprime Dante Alighieri nella Divina Commedia (Purgatorio, 18,83). Altri studi sostengono invece che l'effettivo luogo di nascita sia nella zona di Castel Goffredo.

La zona di Castel Goffredo, possibile luogo di nascita di Virgilio.

Anche Calvisano intende ritenersi la patria di Virgilio; a suo sostegno vi sarebbero infatti diversi studi del filologo e professore inglese Robert Seymour Conway, che ritroviamo in Where was Vergil's farm? (versione italiana, Dov'era il podere di Virgilio?[8], ad opera dell'Associazione italiana di cultura classica), unitamente ad ulteriori indagini e approfondimenti, fruibili nel saggio Further considerations on the site of Vergil’s farm. Il padre era un piccolo proprietario terriero arricchitosi tramite l'apicoltura, l'allevamento e l'artigianato, mentre la madre, di nome Magia Polla, era la figlia di un facoltoso mercante, Magio, al cui servizio aveva lavorato il padre del poeta. Virgilio frequenta la scuola di grammatica a Cremona, poi la scuola di filosofia a Napoli e infine la scuola di retorica a Roma. Qui conobbe molti poeti e uomini di cultura e si dedicò alla composizione delle sue opere. Inoltre nella capitale portò a termine la propria formazione oratoria studiando eloquenza alla scuola di Epidio, un maestro importante di quell'epoca. Lo studio dell'eloquenza doveva fare di lui un avvocato e aprirgli la via per la conquista delle varie cariche politiche. L'oratoria di Epidio non era certo congeniale alla natura del mite Virgilio, riservato e timido, e dunque quantomai inadatto a parlare in pubblico. Infatti, nella sua prima causa come avvocato non riuscì nemmeno a parlare. In seguito a ciò Virgilio entrò in una crisi esistenziale che lo portò, non ancora trentenne, a spostarsi dopo il 42 a.C. a Napoli, per recarsi alla scuola dei filosofi Filodemo e Sirone per apprendere i precetti di Epicuro.

Gli anni in cui Virgilio si trova a vivere sono anni di grandi sconvolgimenti a causa delle guerre civili: prima lo scontro tra Cesare e Pompeo, culminato con la sconfitta di quest'ultimo a Farsalo (48 a.C.), poi l'uccisione di Cesare (44 a.C.) in una congiura, e lo scontro tra Ottaviano e Marco Antonio da una parte e i cesaricidi (Bruto e Cassio) dall'altra, culminato con la battaglia di Filippi (42 a.C.). Egli fu toccato direttamente da queste tragedie: infatti la distribuzione delle terre ai veterani dopo la battaglia di Filippi mise in grave pericolo le sue proprietà nel Mantovano ma sembra che, grazie all'intercessione di personaggi influenti (Pollione, Varo, Gallo, Alfeno e lo stesso Augusto), Virgilio sia riuscito (almeno in un primo tempo) ad evitare la confisca. Si spostò poi a Napoli.

Dopo il successo delle Bucoliche venne in contatto con Mecenate ed entrò a far parte del suo circolo, che raccoglieva molti letterati famosi dell'epoca. Il vate frequentava le tenute terriere di Mecenate, che egli possedeva in Campania nei pressi di Atella e in Sicilia. Attraverso Mecenate, Virgilio conobbe Augusto e collaborò alla diffusione della sua ideologia politica. Divenne il maggiore poeta di Roma e dell'Impero.

Morì a Brindisi il 21 settembre del 19 a.C. (calendario giuliano), di ritorno da un viaggio in Grecia secondo i biografi per le conseguenze di un colpo di sole. Prima di morire, Virgilio raccomandò ai suoi compagni di studio Plozio Tucca e Vario Rufo di distruggere il manoscritto dell’Eneide, perché, per quanto l'avesse terminata, non aveva fatto in tempo a rivederla. Ma i due consegnarono i manoscritti all'imperatore, e l'Eneide, anche se reca tuttora evidenti tracce di incompiutezza, divenne in breve il poema nazionale romano.

La morte del poeta ispirò allo scrittore austriaco Hermann Broch il romanzo La morte di Virgilio.

Testo Parafrasi
Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita. 3
A metà del percorso della vita umana (all'età di 35 anni),
mi ritrovai per una oscura foresta,
poiché avevo smarrito la giusta strada.
Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura! 6
Ahimè, è difficile descrivere com'era quella foresta,
selvaggia, inestricabile e tremenda,
tale che al solo pensiero fa tornare la paura.
Tant’è amara che poco è più morte;
ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai,
dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte. 9
È così spaventosa che la morte lo è poco di più:
ma per descrivere il bene che vi trovai dentro,
dirò quali altre cose ho visto in essa.
Io non so ben ridir com’i’ v’intrai,
tant’era pien di sonno a quel punto
che la verace via abbandonai. 12
Non sono in grado di spiegare come vi sia entrato,
tanto ero pieno di sonno
nel momento in cui lasciai la giusta strada.
Ma poi ch’i’ fui al piè d’un colle giunto,
là dove terminava quella valle
che m’avea di paura il cor compunto, 15
Ma dopo che fui arrivato ai piedi di un colle,
là dove finiva quella valle
che mi aveva rattristato il cuore di paura,
guardai in alto e vidi le sue spalle
vestite già de’ raggi del pianeta
che mena dritto altrui per ogne calle. 18
alzai lo sguardo e vidi la sua vetta
già illuminata dai raggi del sole,
che conduce ogni uomo sulla giusta strada.
Allor fu la paura un poco queta,
che nel lago del cor m’era durata
la notte ch’i’ passai con tanta pieta. 21
Allora si placò un poco la paura
che avevo avuto nel profondo del cuore,
quella notte che trascorsi con tanta angoscia.
E come quei che con lena affannata,
uscito fuor del pelago a la riva,
si volge a l’acqua perigliosa e guata, 24
E come il naufrago che col respiro affannoso,
gettato dal mare sulla riva,
si volta e guarda alle acque pericolose da cui è scampato,
così l’animo mio ch’ancor fuggiva,
si volse a retro a rimirar lo passo
che non lasciò già mai persona viva. 27
così il mio animo, che ancora era in fuga,
si voltò indietro ad osservare il passaggio
che non lasciò mai passar vivo nessun uomo.
Poi ch’èi posato un poco il corpo lasso,
ripresi via per la piaggia diserta,
sì che ’l piè fermo era sempre ’l più basso. 30
Dopo che ebbi riposato un poco il corpo stanco,
ripresi a camminare lungo il pendio deserto del colle,
in modo tale che il piede più saldo era sempre quello più basso.
Ed ecco, quasi al cominciar de l’erta,
una lonza leggiera e presta molto,
che di pel macolato era coverta; 33
Ed ecco che apparve, quasi all'inizio della salita,
una lonza snella e molto agile,
ricoperta di pelo maculato;
e non mi si partia dinanzi al volto,
anzi ’mpediva tanto il mio cammino,
ch’i’ fui per ritornar più volte vòlto. 36
e non si allontanava di fronte a me, anzi,
impediva a tal punto il mio cammino
che io pensai più volte di tornare indietro.
Temp’era dal principio del mattino,
e ’l sol montava ’n sù con quelle stelle
ch’eran con lui quando l’amor divino 39
Erano le prime ore del mattino,
e il sole stava sorgendo insieme
a quella costellazione (l'Ariete)
che era con lui il giorno della Creazione,
mosse di prima quelle cose belle;
sì ch’a bene sperar m’era cagione
di quella fiera a la gaetta pelle 42
quando l'amore divino mosse per la prima volta quelle belle cose;
l’ora del tempo e la dolce stagione;
ma non sì che paura non mi desse
la vista che m’apparve d’un leone. 45
così l'ora del giorno e la stagione primaverile
mi davano buoni motivi per sperare bene
a proposito di quella belva dalla pelle chiazzata;
ma non al punto che non mi desse paura la vista,
che mi apparve subito dopo, di un leone.
Questi parea che contra me venisse
con la test’alta e con rabbiosa fame,
sì che parea che l’aere ne tremesse. 48
Questi sembrava venire contro di me,
con la testa alta e con fame rabbiosa,
al punto che persino l'aria sembrava tremare.
Ed una lupa, che di tutte brame
sembiava carca ne la sua magrezza,
e molte genti fé già viver grame, 51
Ed ecco apparire una lupa,
che nella sua magrezza sembra piena di tutti
i desideri e spinse molte persone a vivere miseramente;
questa mi porse tanto di gravezza
con la paura ch’uscia di sua vista,
ch’io perdei la speranza de l’altezza. 54
questa mi procurò una tale angoscia,
col terrore che mi ispirava il suo aspetto,
che persi la speranza di raggiungere la sommità del colle.
E qual è quei che volentieri acquista,
e giugne ’l tempo che perder lo face,
che ’n tutti i suoi pensier piange e s’attrista, 57
E come colui che acquista volentieri,
e poi arriva il tempo in cui perde ogni cosa,
per cui piange e si rattrista in ogni pensiero,
tal mi fece la bestia sanza pace,
che venendomi ’ncontro a poco a poco
mi ripigneva là dove ’l sol tace. 60
così mi rese la belva senza pace,

che venendo contro di me mi sospingeva
poco a poco verso il basso,
dove non c'era il sole.

Mentre ch’i’ rovinava in basso loco,
dinanzi agli occhi mi si fu offerto
chi per lungo silenzio parea fioco. 63
Mentre io scivolavo a valle, verso la foresta,
apparve davanti ai miei occhi qualcuno
che non riuscivo a vedere bene per la penombra.
Quando vidi costui nel gran diserto,
«Miserere di me,» gridai a lui,
«qual che tu sii, od ombra od omo certo!» 66
Quando vidi costui nel luogo deserto,
gli gridai: «Abbi pietà di me, chiunque tu sia,
un'anima o un uomo in carne e ossa!»
Rispuosemi: «Non omo, omo già fui,
e li parenti miei furon lombardi,
mantoani per patria ambedui. 69
Mi rispose: «No, non sono un uomo,
lo sono già stato, e i miei genitori furono della Lombardia,
entrambi nativi di Mantova.
Nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi,
e vissi a Roma sotto ’l buono Augusto
al tempo de li dei falsi e bugiardi. 72
Nacqui sotto il governo di Giulio Cesare,
anche se negli ultimi anni,
e vissi a Roma sotto il governo del buon imperatore Augusto,
al tempo degli dei pagani.
Poeta fui, e cantai di quel giusto
figliuol d’Anchise che venne di Troia
poi che il superbo Ilïón fu combusto. 75
Fui poeta, e cantai di quel giusto figlio di Anchise (Enea)
che fuggì da Troia dopo
che il superbo Ilio (Troia) fu bruciato.
Ma tu perché ritorni a tanta noia?
perché non sali il dilettoso monte
ch’è principio e cagion di tutta gioia?» 78
Ma tu, perché ritorni al male della foresta?
Perché non scali il colle gioioso,
che è principio e causa di ogni felicità?»
«Or se’ tu quel Virgilio e quella fonte
che spandi di parlar sì largo fiume?»,
rispuos’io lui con vergognosa fonte. 81
«Allora tu sei quel Virgilio
e quella sorgente
che spande un così largo fiume di parole?»
gli risposi vergognandomi.
«O de li altri poeti onore e lume,
vagliami ’l lungo studio e ’l grande amore
che m’ha fatto cercar lo tuo volume. 84
«O tu che sei luce e guida degli altri poeti,
mi siano di aiuto il lungo impegno
e il grande amore che mi hanno spinto a leggere la tua opera!
Tu se’ lo mio maestro e ’l mio autore,
tu se’ solo colui da cu’ io tolsi
lo bello stilo che m’ha fatto onore. 87
Tu sei il mio maestro e il mio modello;
tu sei il solo da cui io trassi
il bello stile che mi ha reso celebre.
Vedi la bestia per cu’ io mi volsi;
aiutami da lei, famoso saggio,
ch’ella mi fa tremar le vene e i polsi». 90
Vedi la belva che mi ha fatto voltare;
aiutami da lei, famoso sapiente,
poiché essa fa tremare ogni goccia del mio sangue».
«A te convien tenere altro viaggio,»
rispuose, poi che lagrimar mi vide,
«se vuo’ campar d’esto loco selvaggio; 93
«Tu devi compiere un altro viaggio,»
mi rispose dopo avermi visto piangere,
«se vuoi salvarti da questo luogo selvaggio.
ché questa bestia, per la qual tu gride,
non lascia altrui passar per la sua via,
ma tanto lo ’mpedisce che l’uccide; 96
Infatti, la belva che ti fa urlare
non lascia passare nessuno per la sua strada,
ma lo impedisce al punto di ucciderlo.
e ha natura sì malvagia e ria,
che mai non empie la bramosa voglia,
e dopo ’l pasto ha più fame che pria. 99
E ha un'indole così malvagia e malefica
che non può mai soddisfare la sua bramosia,
e dopo ogni pasto ha più fame di prima.
Molti son li animali a cui s’ammoglia,
e più saranno ancora, infin che ’l veltro
verrà, che la farà morir con doglia. 102
Sono molti gli animali a cui si accoppia,
e saranno sempre di più,
finché arriverà il cane da caccia (veltro)
che la farà morire con dolore.
Questi non ciberà terra né peltro,
ma sapïenza, amore e virtute,
e sua nazion sarà tra feltro e feltro. 105
Costui non baderà alle ricchezze materiali,
ma solo a quelle spirituali
e la sua nascita avverrà tra feltro e feltro.
Di quella umile Italia fia salute
per cui morì la vergine Cammilla,
Eurìalo e Turno e Niso di ferute. 108
Sarà la salvezza di quell'umile Italia,
per cui morirono in battaglia Eurialo
e Niso, Turno, la vergine Camilla.
Questi la caccerà per ogne villa,
fin che l’avrà rimessa ne lo ’nferno,
là onde invidia prima dipartilla. 111
Costui le darà la caccia per ogni città,
finché l'avrà rimessa nell'Inferno da dove
l'invidia (del demonio) la fece uscire per la prima volta.
Ond’io per lo tuo me’ penso e discerno
che tu mi segui, ed io sarò tua guida,
e trarrotti di qui per loco etterno, 114
Perciò io penso e giudico per il tuo bene che tu debba seguirmi,
e io ti farò da guida;
e ti porterò via di qui per guidarti in un luogo dell'Oltretomba,
ove udirai le disperate strida,
vedrai li antichi spiriti dolenti,
ch’a la seconda morte ciascun grida; 117
dove udirai le grida disperate
e vedrai le antiche anime dei dannati,
ciascuno dei quali invoca la morte definitiva.
e vederai color che son contenti
nel foco, perché speran di venire
quando che sia a le beate genti. 120
E poi vedrai coloro che sono contenti
di subire pene (i penitenti del Purgatorio),
perché sperano un giorno di raggiungere i beati del Paradiso.
A le quai poi se tu vorrai salire,
anima fia a ciò di me più degna:
con lei ti lascerò nel mio partire; 123
E se poi tu vorrai salire a visitare questi ultimi,
allora ci sarà un'anima più degna di me per farti da guida:
quando me ne andrò, ti lascerò con lei.
ché quello imperador che lassù regna,
perch’i’ fu’ ribellante a la sua legge,
non vuol che ’n sua città per me si vegna. 126
Infatti, quell'imperatore (Dio) che regna lassù,
non vuole che io entri nella sua città,
in quanto fui ribelle alla sua legge (fui pagano).
In tutte parti impera e quivi regge;
quivi è la sua città e l’alto seggio;
oh felice colui cu’ ivi elegge!» 129
Dio ha autorità in tutto l'Universo e in Paradiso governa;
qui c'è la sua città e il suo altro trono;
oh, felice colui che sceglie per risiedere in quel luogo!»
E io a lui: «Poeta, io ti richeggio
per quello Dio che tu non conoscesti,
a ciò ch’io fugga questo male e peggio, 132
E io gli dissi: «Poeta, in nome di quel Dio
che non hai conosciuto
e affinché io fugga questo male e altri peggiori,
che tu mi meni là dov’or dicesti,
sì ch’io veggia la porta di san Pietro
e color che tu fai cotanto mesti». 135
ti chiedo di condurmi là dove hai detto,
così che io veda la porta di San Pietro
e coloro che descrivi tanto miseri».
Allor si mosse, e io li tenni dietro. 136 Allora si mise in cammino, e io lo seguii.

Analisi del Canto[modifica]

La selva - vv. 1-12[modifica]

Alessandro Vellutello, la selva del peccato (1534)

Nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai per una selva oscura,/ ché la diritta via era smarrita. Nel primo verso della Divina Commedia Dante pone l'accento subito su come la sua sia un'esperienza collettiva, usando l'aggettivo nostra invece di mia; per lui la metà della vita di un individuo sono i trentacinque anni, poiché riteneva l'età media di un uomo essere di 70 anni (lo scrisse nel Convivio, IV 23, 6-10, a sua volta citando dal Libro dei Salmi), ed è proprio da questo che possiamo e abbiamo dedotto l'anno della sua nascita, il 1265. Egli parla infatti nel 1300, un anno altamente simbolico, nel quale si svolse il primo giubileo; inoltre la parola cammin introduce già il tema del viaggio che il poema tratta. Il primo verso riecheggia un passo biblico del profeta Isaia (38,10): “Io pensavo: nel mezzo dei miei giorni me ne andrò, alle porte degli inferi sarò trattenuto per il resto dei miei anni, non vedrò più il signore nella terra dei vivi”.

Alcuni critici hanno avanzato un'avvalorata teoria riguardo al valore dell'aggettivo "nostra", che sarebbe da attribuire alla volontà di Dante di inserire nei versi della Commedia la maggiore quantità di nozioni culturali possibile: l'aggettivo, infatti, potrebbe essere riferito alla cosiddetta "teoria del grande anno storico". Questa teoria fu naturalmente argomentata dagli stoici in epoca antica: secondo loro, la durata della vita del mondo è di 1300 anni, all'inizio dei quali i pianeti (ovviamente nella teoria geocentrica) erano tutti perfettamente allineati; secondo questa teoria, di conseguenza, nel momento in cui, 13000 anni più tardi fosse accaduto ancora, il mondo sarebbe stato vittima di un grande incendio da cui poi si sarebbe rigenerata una nuova terra popolata da una nuova umanità. la teoria degli stoici, quindi, pone Dante nel momento preciso dell'anno a metà di 1300, perciò possiamo affermare che il 1300 è, per gli stoici, il 6500º anno dalla creazione del mondo. Possiamo affermare questa teoria escatologica sulla base di alcuni complicati calcoli che possiamo svolgere all'interno della Commedia. Stando a questi calcoli, e alla teoria stoica in sé e per sé, l'allineamento dei pianeti sarebbe dovuto avvenire l'8 giugno 2007. Non c'è stato nessun incendio rigeneratore ed escatologico, ma la presenza di una teoria proveniente dalla filosofia stoica nella Divina Commedia è affascinante e davvero fondatissima, nonostante l'ipotesi più accreditata continui ad essere quella del Dante trentacinquenne che, dopo la morte di Beatrice, si trova in una selva fatta non solo di peccato e perdizione, ma anche di grande e terribile dolore.

L'azione inizia in medias res. Ciò permette a Dante di evitare alcuni punti "scomodi" della narrazione, durante i quali finge di non ricordare le cose, sviene o è comunque assente a livello intellettivo, anche se fisicamente c'è sempre. Il poeta si è smarrito in una selva oscura, secondo un senso allegorico un momento difficile della vita del poeta e più in generale la cosiddetta selva del peccato o dell'errore. Come noto cronotopo, la selva oscura rappresenta la perdizione e l'errore nella Commedia analogamente a quanto avviene nella favolistica popolare. La diritta via invece rappresenta chiaramente la rettitudine, e quindi il cronotopo opposto, (opposto di "devianza") morale, spirituale, eccetera.

E che dolore, che paura, è per il Dante-narratore (nel flashback con il quale è raccontato tutto il poema) ricordare la "durezza" delle selva selvaggia, intricata e difficile.

Questa selva (ovvero il peccato) era così amara che la morte è una cosa appena peggiore (intesa come la dannazione), ma per poter parlare del bene che il poeta vi incontrò egli si appresta di buon grado a rivivere quell'esperienza: è il concetto di commedia stessa, che da un inizio duro e difficile si coronerà con un lieto fine.

Dante non ricorda bene come ha fatto a smarrirsi, a causa di un torpore dei sensi che gli fece perdere la verace via (anche qui è chiaro il senso allegorico sotto al mero avvenimento). Tuttavia, nonostante questa prima descrizione negativa, Dante ci fa notare che c'è sempre una speranza di salvezza: infatti la retta via è "smarrita", non perduta; ciò ci rimanda al fatto che quest'opera è pur sempre una "commedia" con inizio negativo (l'inferno) e finale positivo (il paradiso).

Il colle illuminato dal sole - vv. 13-60[modifica]

A un certo punto Dante arriva ai piedi di un colle (o dilettoso monte al v. 77) dove termina la selva (la valle), dietro il quale sta sorgendo il sole e che calma un po' la sua inquietudine. La luce simboleggia la Grazia divina, che illumina il cammino umano, quindi il colle è una via di salvezza, da alcuni interpretato come la felicità terrena alla quale ogni uomo tende naturalmente. Dante crede di poter raggiungere il colle con le sue forze e inizia a passare quella paura che gli aveva colmato il cuore nella notte passata con tanta pieta, con tanto dolore. I versi danteschi (...al piè di un colle giunto....guardai in alto....Allor fu la paura un poco queta....vv. 13-19) richiamano quelli di un salmo biblico (CXX, 1):"Alzai i miei occhi verso un monte dal quale mi verrà il soccorso".

La prima similitudine del poema è proprio dedicata a questo senso di sollievo: come colui che scampato da annegamento arriva con fatica alla riva marina e si guarda indietro per rivedere quell'acqua perigliosa, così Dante si gira per vedere quel passaggio che non lasciò già mai persona viva. Quest'ultimo passaggio è un po' oscuro perché è ambiguo se il soggetto sia il passo o la persona, e in ogni caso vuol dire che nessuno è immune dal peccato o che nessuno può uscirne senza la luce della Grazia divina.

Dante si riposa un attimo e riparte, in salita (con una perifrasi, sì che'l pié fermo sempre era 'l più basso, ossia in modo che il piede perno fosse più in basso rispetto a quello che avanza nel passo).

La salita è appena iniziata quando appare una lonza leggera e molto veloce, coperta da una pelliccia maculata, che non si vuole togliere davanti a Dante, anzi lo ricaccia indietro, con paronomasia indicante l'esitazione, tramite balbettamento simulato, di Dante spaventato. La lonza, così come gli altri animali che seguiranno, sono simboli di virtù o debolezze specifici, secondo le indicazioni dei bestiari medievali, e in questo caso gli antichi commentatori sono tutti concordi nell'indicarla come simbolo di lussuria o di invidia (sta ad indicare Firenze).

Dante non dice se questa lonza si avvicini o scappi, ma inserisce uno stacco sull'ora: è il tempo del mattino nel quale il sole saliva con quelle stelle (quella costellazione) che erano con lui al momento della Creazione: la prima costellazione dello zodiaco è l'ariete, quindi era un tempo vicino all'equinozio di primavera, momento propizio dell'anno che fa sperare a Dante di poter evitare quella fiera a la gaetta pelle, cioè maculata.

Ma la speranza è subito cancellata dall'apparizione di un leone, che pare andare incontro a Dante con la testa alta e con rabbiosa fame, di tale impeto che pareva che l'aria ne tremesse. Il leone viene indicato come simbolo di superbia. Subito appare anche una lupa, carica dei segni del corpo e nella magrezza di tutta la sua bramosia. Essa avrebbe secondo Dante reso infelice la vita di molte altre genti e gli si avvicina con aspetto talmente spaventoso che Dante perde tutta la speranza di raggiungere il colle. La lupa è la bestia più pericolosa ed è indicata come simbolo di avidità (la Chiesa, che vuole sempre di più) - (e non, come è erronea credenza, di avarizia; infatti, l'avarizia indica la tendenza a tenere per sé e non donare ciò che già si possiede; l'avidità, o cupidigia o bramosia, indica la volontà di possedere un bene in quantità sempre maggiore): l'attaccamento a questi beni è il più radicato nell'uomo e il più difficile da superare. Infatti Dante, come un avaro o un giocatore d'azzardo che tutto acquista finché non perde tutto, si sente adesso triste e sconfortato, per via della bestia senza pace, cioè implacabile. La lupa si avvicina a poco a poco e respinge Dante dove 'l sol tace, cioè nella selva del peccato.

Altri indicano le tre bestie anche come simboli delle tre categorie di peccati che corrispondono alle zone dell'Inferno: incontinenza (lonza), violenza (leone) e frode (lupa). Altri ancora ne fanno un'interpretazione politica dei poteri deviati che reggevano l'Italia medievale: la lupa come la Roma papale (si pensi alla lupa capitolina), il leone come l'Impero e la lonza come i principi feudatari. Tuttavia, delle tre fiere, la lupa è quella che ha suscitato più problemi di interpretazione: se alcuni, come Singleton, l'associano alla frode, altri grandi commentatori danteschi, come Gorni, la identificano come l'invidia.

Evidentemente Dante ha attinto l'idea delle fiere da un passo biblico del profeta Geremia (V, 6): "Per questo li azzanna il leone della foresta, il lupo delle steppe ne fa scempio, il leopardo sta in agguato vicino alle loro città: quanti escono saranno sbranati, perché si sono moltiplicati i loro peccati, sono aumentate le loro ribellioni."

Uno spazio spiritualizzato[modifica]

Nel primo canto lo spazio è presentato secondo la contrapposizione basso-alto (valle-colle), a cui corrisponde l'antitesi buio-luce di origine liturgica: essa indica l'eterna lotta fra il bene e il male, tra il peccato e la Grazia, infatti rimanda alle parole evangeliche di Gesù Cristo: "Io sono la luce del mondo, chi mi segue non cammina nelle tenebre". (Giovanni, 12). L'opposizione spaziale è anche indicatrice della gerarchia morale peccato-salvezza: la selva oscura (v. 2) è collocata in basso loco (v. 61), rispetto al colle che è posto in alto ed è illuminato; è priva di luce in quanto non è illuminata dal sole che mena dritto altrui per ogni calle (v. 18).

Apparizione di Virgilio - vv. 61-99[modifica]

Illustrazione al Canto I di William Blake
Canto 1, Giovanni Stradano, 1587

Mentre Dante non solo torna indietro, ma rovina, cioè precipita ripiombando nella selva peccaminosa, improvvisa ecco un'altra apparizione dal nulla di questo canto: qualcuno, che sembra fioco per essere stato a lungo in silenzio (chi per lungo silenzio parea fioco, con ossimoro, si vedrà presto che rappresenta la Ragione a lungo sopita), si manifesta davanti agli occhi di Dante e il poeta si rivolge a lui impaurito chiedendogli misericordia, sia che sia ombra, cioè anima trapassata, od omo certo, cioè vivo.

Subito la figura risponde: (parafrasi) "Non sono un uomo, ma uomo fui"; e come per presentare un biglietto da visita specifica che i suoi genitori furono lombardi, anzi mantovani entrambi; e che nacque sub Iulio, cioè al tempo di Giulio Cesare, anche se non lo vide (ancor che fosse tardi), e visse sotto il buon Augusto al tempo degli dei falsi e bugiardi, cioè del paganesimo. "Poeta fui e cantai del valente figlio di Anchise che venne da Troia dopo che la superba Ilion (altro nome di Troia) venne incendiata": sta parlando di Enea e dell'Eneide. Da notare un "anacronismo" da parte di Dante: al tempo in cui visse Virgilio, la Lombardia non aveva ancora questo nome in quanto esso deriva dalla popolazione barbara dei Longobardi; e quindi lo stesso Virgilio non dovrebbe dire che i suoi genitori "furono lombardi".

Poi fa una domanda direttamente a Dante: «Ma tu perché ritorni a tanta noia? (inteso come dolore, angoscia) / perché non sali il dilettoso monte / ch'è principio e cagion di tutta gioia?».

Dante ha riconosciuto il suo maestro e lo chiama per nome, vergognandosi un po' per la sua importanza: (parafrasi) "Sei tu quel Virgilio e quella la fonte di tanto parlare come un fiume? Tu che sei l'onore e il lume degli altri poeti, fa' che mi valga il lungo studio e il grande amore avuto per la tua opera: tu sei il mio maestro e il mio autore (autorità), sei l'unico dal quale presi quel bello stile (poetico) che mi ha reso onore." Nella commedia, Virgilio è l'allegoria della ragione.

Dopo essersi raccomandato così animatamente, Dante chiede al famoso saggio se può aiutarlo con quella bestia che lo ha fatto tornare indietro e che gli fa tremare le vene e i polsi. Virgilio allora indica a Dante, che ha iniziato a piangere, come a lui convenga iniziare un altro viaggio per uscire da questo luogo, perché la lupa non lascia passare nessuno ma anzi arriva a uccidere chi tenta di passare a causa della sua natura malvagia: essa non soddisfa mai la sua bramosa voglia e, anzi, dopo aver mangiato è più affamata di prima; molti sono gli uomini (animali) che si fanno vincere dalla cupidigia (che la cupidigia lega a sé) e saranno ancora molti, fino alla venuta di un salvatore (il veltro) che ucciderà la lupa con dolore.

Il fatto che Dante chiami quest'animale lupa e non lupo potrebbe essere indice di come egli volesse forse alludere anche alla lupa capitolina, cioè a Roma, sede del papato corrotto.

Dante sceglie come sua guida Virgilio per diversi motivi:

  • in primis, nella quarta bucolica egli aveva cantato la nascita di un puer che avrebbe riportato nel mondo l'età dell'oro (secondo l'interpretazione in chiave allegorica della classicità vigente nel Medioevo, Virgilio era ritenuto uno spirito profetico per aver preannunciato la nascita di Cristo, sebbene il poeta romano parlasse in realtà del figlio di Asinio Pollione);
  • Virgilio è nel Medioevo considerato il simbolo della ragione che non ha ancora conosciuto la pienezza della rivelazione cristiana. Egli è pertanto in grado di condurre Dante per l'Inferno e per il Purgatorio, ma non per il Paradiso (sarà necessaria Beatrice-teologia);
  • Virgilio aveva celebrato l'impero di Augusto, archetipo e realizzazione provvidenziale dell'ideale di impero universale che Dante aveva esaltato nel De Monarchia come la soluzione al degrado morale e politico dell'Italia e dell'Europa (Dante deplorava infatti il fatto che, dopo Federico II, in Italia fosse assente la figura imperiale);
  • Virgilio aveva narrato la discesa di Enea negli Inferi, e sarebbe quindi stato un ottimo maestro nel viaggio nei regni ultraterreni (lo stesso Dante nel secondo canto dell'Inferno si inserirà tra la schiera di personaggi illustri scesi secondo la tradizione agli Inferi, cioè Enea e San Paolo).

Profezia del veltro - vv. 100-111[modifica]

Stava dicendo Virgilio quindi che la lupa vivrà indisturbata finché 'l veltro / verrà, che la farà morir con doglia.

Il veltro, nel linguaggio tecnico dell'attività venatoria, è un termine che indica il cane da caccia (si confronti l'uso per esempio in Inferno, XIII v. 126): quindi Dante resta nell'allegoria animalesca e spiega che un cane da caccia farà finalmente morire dolorosamente questa lupa dell'avidità, cacciandola (terzina ai vv. 109-111) di città in città (villa qui è un francesismo), finché non l'avrà rimessa ne lo 'nferno da dove il primo invidioso (Lucifero, l'angelo ribelle) la fece uscire. vv 111. là onde 'nvidia prima dipartilla: secondo un'altra interpretazione filologica "prima" sta a significare: la prima volta, quindi il momento del peccato originale di Eva. L'assenza dell'articolo rende questa ipotesi più realistica rispetto a quella che identifica lucifero come:'nvidia prima'

Su chi o cosa simboleggiasse questo veltro nessuno ha potuto ancora dare una spiegazione sicura e univoca e di fatto ciò resta uno dei più celebri enigmi del poema. Due terzine descrivono questo veltro come salvatore che non sarà cibato né dalle terre né dal denaro (peltro, inteso come metallo), ma da sapienza, amore e virtù; la sua nazione sarà tra feltro e feltro; e sarà la salvezza di quell'umile Italia per la quale morirono di ferite la vergine Camilla, Turno, Eurialo e Niso.

A parte gli ultimi due versi che citano l'Eneide, il significato degli attributi del veltro non è chiaro: il cibo del veltro sono le virtù spirituali che richiamano la Trinità e che potrebbero riferirsi o a un personaggio in particolare sia laico che religioso, o a un'entità presente o futura; la sua nascita sarà tra feltro e feltro cioè tra panni umili o tra tonache monastiche, o tra il feltro che si usava per foderare le urne per le elezioni dei magistrati? Oppure in senso geografico tra Feltre e Montefeltro, alludendo magari a Cangrande della Scala i cui territori si estendevano pressappoco tra quelle due località? O Arrigo VII? O Uguccione della Faggiuola? O il ritorno di Cristo?

La questione probabilmente non verrà mai svelata perché Dante qui usa un linguaggio particolarmente sibillino anche perché tra le tante profezie della Commedia questa è l'unica profezia "vera", che non consistesse cioè in un fatto già avveratosi all'epoca quando Dante scrisse il testo. Le dottrine profetiche al tempo di Dante si andavano diffondendo. In particolare si ricordano quelle del frate calabrese Gioacchino da Fiore.

Il viaggio nell'oltretomba - vv. 112-136[modifica]

Dante e Virgilio, codice della British Library, miniato da Priamo della Quercia (XV secolo)

Continuando nella risposta di Virgilio alle questioni di Dante, il poeta latino a questo punto consiglia a Dante di seguirlo in un viaggio da lui guidato, attraverso il loco etterno (il regno dell'oltretomba, dove tutto è eterno, a differenza della fugacità del mondo dei vivi): nell'Inferno udirà le disperate grida e vedrà gli antichi spiriti dolenti che invocano la seconda morte (l'annichilimento totale per fermare le loro sofferenze); nel Purgatorio vedrà coloro che sono contenti nei loro supplizi perché hanno la speranza di ascendere alle beate genti; nel Paradiso, se ci vorrà salire, ci sarà un'anima più degna di lui ad accompagnarlo, poiché l'imperatore dei cieli (Dio) non vuole che Virgilio vada per la sua città perché egli non è cristiano quindi fu ribelle alla sua legge. Dio infatti, prosegue Virgilio, impera dappertutto (nel linguaggio giuridico "ha giurisdizione") ma regge ("regna direttamente") in Paradiso e beato chi è eletto ad andarvi (Oh felice colui cu' ivi elegge!).

Dante risponde che è d'accordo per la descrizione data di Dio (io ti richeggio) e per sfuggire al male della selva o al peggio della dannazione egli accetta di compiere il viaggio-pellegrinaggio, in modo che possa vedere la porta di San Pietro e coloro che Virgilio dipinge così mestamente, cioè i dannati.

Allora Virgilio parte e Dante gli "tiene dietro", cioè lo segue in fila............e la storia continua nel 2^Canto