Antologia di Brani di Dante Alighieri (superiori)

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Antologia di Brani di Dante Alighieri (superiori)
Tipo di risorsa Tipo: lezione
Materia di appartenenza Materia: Letteratura italiana per le superiori 1
Avanzamento Avanzamento: lezione completa al 100%
Sandro Botticelli, Dante Alighieri, tempera su tela, 1495, Ginevra, collezione privata

Vita Nuova[modifica]

Cap. XXVI - Tanto Gentile e Tanto Onesta Pare[modifica]

Dante Gabriel Rossetti, particolare del Saluto di Beatrice, dipinto ad olio con lamina dorata, 1859-1863, National Gallery of Canada, Ottawa.

Dante Alighieri, nel capitolo XXVI della Vita Nova, tratta la tematica - fondamentale per lo Stilnovo e per l’interpretazione che ne dà Dante - della lode della donna amata, che qui si declina con toni, metafore e costruzioni sintattiche che evocano un tono da litania evangelica. La lode di Beatrice culmina nei due celebri sonetti inseriti all’interno del capitolo: Tanto gentile e tanto onesta pare, e Vede perfettamente onne salute, che vengono inseriti nella struttura del prosimetro. La contemplazione della donna amata infonde nel poeta una beatitudine corroborata dalla lode stessa, il cui stile acquista qui definitivamente valore paradigmatico: d’ora in poi, la poesia non potrà prescindere dal valore salvifico di Beatrice. Dante descrive gli effetti che Beatrice, con il suo semplice passeggiare per la via, suscita in coloro che le stanno intorno - anticipando così l’argomento del sonetto Tanto gentile e tanto onesta pare -, testimoni della grazia angelica che la donna trasmette.

Testo[modifica]

[1]. Questa gentilissima donna, di cui ragionato è ne le precedenti parole 1, venne in tanta grazia de le genti, che quando passava per via, le persone correano per vedere lei; onde mirabile letizia me ne giungea. E quando ella fosse presso d’alcuno, tanta onestade giungea nel cuore di quello, che non ardia di levare li occhi, né di rispondere a lo suo saluto; e di questo molti, sì come esperti, mi potrebbero testimoniare a chi non lo credesse.

[2]. Ella coronata e vestita d’umiltade s’andava, nulla gloria mostrando di ciò ch’ella vedea e udia. Diceano molti, poi che passata era: “Questa non è femmina, anzi è uno de li bellissimi angeli del cielo”. E altri diceano: “Questa è una maraviglia; che benedetto sia lo Segnore, che sì mirabilmente sae adoperare!”.

[3]. Io dico ch’ella si mostrava sì gentile e sì piena di tutti li piaceri, che quelli che la miravano comprendeano in loro una dolcezza onesta e soave, tanto che ridicere non lo sapeano; né alcuno era lo quale potesse mirare lei, che nel principio nol convenisse sospirare.

[4]. Queste e più mirabili cose da lei procedeano virtuosamente: onde io pensando a ciò, volendo ripigliare lo stilo della sua loda, propuosi di dicere parole, ne le quali io dessi ad intendere de le sue mirabili ed eccellenti operazioni; acciò che non pur coloro che la poteano sensibilemente vedere, ma li altri sappiano di lei quello che le parole ne possono fare intendere. Allora dissi questo sonetto, lo quale comincia: Tanto gentile.

Testo Parafrasi

Tanto gentile e tanto onesta pare
la donna mia, quand'ella altrui saluta,
ch'ogne lingua devèn, tremando, muta,
e li occhi no l'ardiscon di guardare. 4

Ella si va, sentendosi laudare,
benignamente d'umiltà vestuta,
e par che sia una cosa venuta
da cielo in terra a miracol mostrare. 8

Mostrasi sì piacente a chi la mira
che dà per li occhi una dolcezza al core,
che 'ntender no la può chi no la prova; 11

e par che de la sua labbia si mova
un spirito soave pien d'amore,
che va dicendo a l'anima: Sospira. 14

Tanto nobile d'animo e tanto piena di decoro è
la donna mia, quando rivolge ad altri il saluto,
che ogni lingua diviene, tremando, muta,
e gli occhi non hanno il coraggio di guardarla. 4

Ella così va, sentendosi lodare,
benevola e mite nell'atteggiarsi,
e sembra che sia una creatura discesa
sulla terra per compiere un miracolo. 8

Si dimostra così affascinante a chi la guarda
che trasmette, tramite gli occhi, una dolcezza
al cuore, che non si può capire se non la si è provata; 11

e sembra che dalla sua fisionomia esca
uno spirito dolce ricolmo d'amore
che va dicendo all'anima: Sospira. 14

Analisi del Testo[modifica]

[1]. Il ventiseiesimo capitolo della Vita Nova è quindi incentrato sul topos della donna amata che passa tra la gente, come già compare già nella poesia di Guinizzelli. L’immagine rimanda anche a quella cristologica del passaggio di Gesù tra la folla che, analogamente, nel testo dantesco accorre per guardare Beatrice, la cui sola visione infonde rispetto e benessere, o, per usare un termine specifico, “grazia”. L’amore del poeta è così totalmente disinteressato e si nutre di una beatitudine apportata non solamente dalla lode e dalla visione di Beatrice, ma anche dalla constatazione del miracolo che suscita nella folla.

[2-3]. Coloro che hanno la fortuna di poter guardare Beatrice provano un sentimento che non è possibile riuscire a esprimere a parole, poiché Beatrice è portatrice di una perfezione divina, che può solo essere oggetto di contemplazione e adorazione. Gli effetti si propagano alla realtà circostante:

[4]. Dante introduce così uno dei suoi sonetti più noti, in cui vengono riprese in altra forma le tematiche appena descritte. Inoltre viene qui ribadito il senso di miracolo suscitato dall’apparizione di Beatrice e in generale gli effetti provocati sia sul poeta si su chiunque abbia la fortuna di assistervi.

Sonetto. Il sonetto è densissimo di artifatti e pensieri propri dello stilnovismo, condensati in soli 14 versi. Infatti, l'intero componimento è latore, in primo luogo, dell'elogio di Beatrice (non a caso il sonetto, posto nel cuore della Vita Nuova, costituisce il culmine dello stilo della loda, assieme al sonetto Vede perfettamente onne salute), grazie poi alla quale «erano onorate e laudate molte [altre donne]». Costei, grazie al saluto, dispensa la grazia salvifica, operando la redenzione e donando beatitudine agli uomini. Non vi è alcuna fisicità nel sonetto, nessuna descrizione di Beatrice, vista e percepita da Dante sotto una luce puramente angelica: si allude, al massimo, a labbia, latinismo che Gianfranco Contini preferisce tradurre con "fisionomia" anziché con "volto", in quanto la considera una «traduzione meno imprecisa». Beatrice rappresenta quasi una emanazione di Dio (figura Christi), attraverso uno spirito soave che induce chiunque a sospirare al passaggio della gentilissima Beatrice. La dimensione contemplativa è costruita dal poeta attraverso le pause e gli accenti ritmici ben calibrati, che scandiscono il tempo di questa scena rarefatta. L'andamento è dolce, chiaro e perciò non difficile da comprendere, ricca di infiniti, participi e gerundi. Il tutto è facilitato anche dalla posizione delle rime, ottenute attraverso l'allineamento delle desinenze dei termini. Come già prima accennato, v'è la presenza della dittologia sinonimica tanto gentile e tanto onesta, la quale a sua volta racchiude l'anafora tanto, volta a sublimare le qualità di Beatrice. Le parole chiave (pare al verso 1; saluta al verso 2; laudare al verso 4) sono tutte poste in "posizione forte", cioè poste alla fine del verso per dar maggior rilievo. A livello lessicale, troviamo latinismi (onesta, labbia) e sicilianismi (vestuta). Dal punto di vista linguistico, infine, abbiamo un esempio della legge «Tobler-Mussafia»: il Mostrasi (v. 9) presenta il riflessivo si in posizione clitica, cioè dopo il verbo.

Rime[modifica]

Guido, i' vorrei che tu e Lapo ed io[modifica]

Guido, i' vorrei che tu e Lapo ed io è un sonetto di Dante, Poesia LII delle Rime. Fu composto prima della Vita nuova, per via del clima cortese scevro degli innesti filosofico-morali propri della prima e indirizzato all'amico Guido Cavalcanti che rispose con il sonetto S'io fosse quelli che d'amor fu degno.

Testo[modifica]

Testo Parafrasi

Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io
fossimo presi per incantamento
e messi in un vasel, ch’ad ogni vento
per mare andasse al voler vostro e mio; 4

sì che fortuna od altro tempo rio
non ci potesse dare impedimento,
anzi, vivendo sempre in un talento,
di stare insieme crescesse ’l disio. 8

E monna Vanna e monna Lagia poi
con quella ch’è sul numer de le trenta
con noi ponesse il buono incantatore: 11

e quivi ragionar sempre d’amore,
e ciascuna di lor fosse contenta,
sì come i’ credo che saremmo noi. 14

Guido, io vorrei che tu, Lapo ed io
fossimo soggetti ad un incantesimo
e posti su un vascello, che ad ogni soffio di vento
andasse lungo il mare secondo il nostro volere; 4

cosicché la tempesta od ogni altra sventura
non ci potesse essere d'ostacolo,
ma anzi, avendo gli stessi desideri,
crescesse il desiderio di stare assieme. 8

E che Monna Vanna e Monna Lagia,
oltre a colei che è la trentesima
il nostro mago ci ponesse vicino: 11

e qui discutere sempre sull'amore,
e ciascuna di loro fosse felice,
così come, credo, lo saremmo noi [poeti]. 14

Analisi del Testo[modifica]

Il sonetto è uno dei primi che Dante abbia composto all'inizio della sua carriera poetica al fianco di Guido Cavalcanti. Tale breve componimento parla di un viaggio che Dante sogna di intraprendere con lo stesso Guido Cavalcanti e, secondo la maggior parte dei critici, con Lapo Gianni. I tre amici si troverebbero, in una sorta di fuga dalla realtà attraverso un incantamento (v.2), di navigare, su di un vasel (v. 3) che naviga su un mare sempre calmo, verso il luogo del piacere (si riscontra il tema provenzale del plazer). Grazie a tale nave incantata, allusione certa al vascello magico del mago Merlino, arriverebbero poi tre donne: monna Vanna (l'amata di Cavalcanti), monna Lagia (quella di Lapo Gianni) e la trentesima donna più bella di Firenze con le quali ragionar sempre d'amore (v. 12), in una completa sintonia spirituale. Il sonetto rivela la vicinanza dell'Alighieri ancora ai modelli occitanici (il tema già ricordato del plazer), e a quelli del ciclo arturiano (la presenza di Merlino), ma emerge quella tematica spirituale, basata sull'amicizia tra i tre poeti e la disquisizione sull'amore, perno centrale della riflessione stilnovista.

Il sonetto non presenta particolari annotazioni stilistiche e lessicali. Oltre alla presenza dei già citati loci provenzaleggianti (incantamento, vasel), termini che rimandano alla dimensione onirica, v'è la presenza anaforica della congiunzione e, che dà un andamento paratattico alla narrazione, ma anche un senso di comunione con gli altri personaggi che vi si trovano.

Convivio[modifica]

Trattato I, Cap. I - In Significato del Convivio[modifica]

In questo capitolo Dante spiega gli intenti che lo hanno indotto a scrivere l'opera e dà ragione del titolo.

Testo[modifica]

1. Sì come dice lo Filosofo nel principio de la Prima Filosofia, tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere. La ragione di che puote essere ed è che ciascuna cosa, da providenza di prima natura impinta, è inclinabile a la sua propria perfezione; onde, acciò che la scienza è ultima perfezione de la nostra anima, ne la quale sta la nostra ultima felicitade, tutti naturalmente al suo desiderio semo subietti. 2. Veramente da questa nobilissima perfezione molti sono privati per diverse cagioni, che dentro a l’uomo e di fuori da esso lui rimovono da l’abito di scienza. Dentro da l’uomo possono essere due difetti e impedi[men]ti: l’uno da la parte del corpo, l’altro da la parte de l’anima. 3. Da la parte del corpo è quando le parti sono indebitamente disposte, sì che nulla ricevere può, sì come sono sordi e muti e loro simili. Da la parte de l’anima è quando la malizia vince in essa, sì che si fa seguitatrice di viziose delettazioni, ne le quali riceve tanto inganno che per quelle ogni cosa tiene a vile. 4. Di fuori da l’uomo possono essere similemente due cagioni intese, l’una de le quali è induttrice di necessitade, l’altra di pigrizia. La prima è la cura familiare e civile, la quale convenevolmente a sé tiene de li uomini lo maggior numero, sì che in ozio di speculazione esser non possono. L’altra è lo difetto del luogo dove la persona è nata e nutrita, che tal ora sarà da ogni studio non solamente privato, ma da gente studiosa lontano. 5. Le due di queste cagioni, cioè la prima da la parte [di dentro e la prima da la parte] di fuori, non sono da vituperare, ma da escusare e di perdono degne; le due altre, avvegna che l’una più, sono degne di biasimo e d’abominazione. 6. Manifestamente adunque può vedere chi bene considera, che pochi rimangono quelli che a l’abito da tutti desiderato possano pervenire, e innumerabili quasi sono li ’mpediti che di questo cibo sempre vivono affamati. 7. Oh beati quelli pochi che seggiono a quella mensa dove lo pane de li angeli si manuca! e miseri quelli che con le pecore hanno comune cibo! 8. Ma però che ciascuno uomo a ciascuno uomo naturalmente è amico, e ciascuno amico si duole del difetto di colui ch’elli ama, coloro che a così alta mensa sono cibati non sanza misericordia sono inver di quelli che in bestiale pastura veggiono erba e ghiande sen gire mangiando. 9. E acciò che misericordia è madre di beneficio, sempre liberalmente coloro che sanno porgono de la loro buona ricchezza a li veri poveri, e sono quasi fonte vivo, de la cui acqua si refrigera la naturale sete che di sopra è nominata. 10. E io adunque, che non seggio a la beata mensa, ma, fuggito de la pastura del vulgo, a’ piedi di coloro che seggiono ricolgo di quello che da loro cade, e conosco la misera vita di quelli che dietro m’ho lasciati, per la dolcezza ch’io sento in quello che a poco a poco ricolgo, misericordievolmente mosso, non me dimenticando, per li miseri alcuna cosa ho riservata, la quale a li occhi loro, già è più tempo, ho dimostrata; e in ciò li ho fatti maggiormente vogliosi. 11. Per che ora volendo loro apparecchiare, intendo fare un generale convivio di ciò ch’i’ ho loro mostrato, e di quello pane ch’è mestiere a così fatta vivanda, sanza lo quale da loro non potrebbe esser mangiata. 12. E questo [è quello] convivio, di quello pane degno, con tale vivanda qual io intendo indarno [non] essere ministrata. E però ad esso non s’assetti alcuno male de’ suoi organi disposto, però che né denti né lingua ha né palato; né alcuno assettatore di vizii, perché lo stomaco suo è pieno d’omori venenosi contrarii, sì che mai vivanda non terrebbe. 13. Ma vegna qua qualunque è [per cura] familiare o civile ne la umana fame rimaso, e ad una mensa con li altri simili impediti s’assetti; e a li loro piedi si pongano tutti quelli che per pigrizia si sono stati, che non sono degni di più alto sedere: e quelli e questi prendano la mia vivanda col pane, che la farò loro e gustare e patire. 14. La vivanda di questo convivio sarà di quattordici maniere ordinata, cioè quattordici canzoni sì d’amor come di vertù materiate, le quali sanza lo presente pane aveano d’alcuna oscuritade ombra, sì che a molti loro bellezza più che loro bontade era in grado. 15. Ma questo pane, cioè la presente disposizione, sarà la luce la quale ogni colore di loro sentenza farà parvente. 16. E se ne la presente opera, la quale è Convivio nominata e vo’ che sia, più virilmente si trattasse che ne la Vita Nuova, non intendo però a quella in parte alcuna derogare, ma maggiormente giovare per questa quella; veggendo sì come ragionevolmente quella fervida e passionata, questa temperata e virile esser conviene. 17. Ché altro si conviene e dire e operare ad una etade che ad altra; perché certi costumi sono idonei e laudabili ad una etade che sono sconci e biasimevoli ad altra, sì come di sotto, nel quarto trattato di questo libro, sarà propria ragione mostrata. E io in quella dinanzi, a l’entrata de la mia gioventute parlai, e in questa dipoi, quella già trapassata. 18. E con ciò sia cosa che la vera intenzione mia fosse altra che quella che di fuori mostrano le canzoni predette, per allegorica esposizione quelle intendo mostrare, appresso la litterale istoria ragionata; sì che l’una ragione e l’altra darà sapore a coloro che a questa cena sono convitati. 19. Li quali priego tutti che se lo convivio non fosse tanto splendido quanto conviene a la sua grida, che non al mio volere ma a la mia facultade imputino ogni difetto; però che la mia voglia di compita e cara liberalitate è qui seguace.

Analisi del Testo[modifica]

Questo testo è un esempio molto importante di filosofia in volgare. Innanzitutto vi è il richiamo all' auctoritas di Aristotele nel pieno segno di della concezione medievale di sapere che non è ricerca e conquista critica ma verità data dall' auctoritas. Di qui anche il sistema di ragionamento, basatosi sulla Scolastica aristotelica, che è deduttivo (da una premessa generale che non va dimostrata, si passa ad una premessa inferiore più specifica, fino ad una conclusione) a differenza del nostro che ha uno schema induttivo (cioè dal particolare si arriva ad una conclusione generale). Dante quindi usano una forte struttura retorica. Da qui anche il nome Convivio cioè un banchetto dove si offre il "cibo" della scienza diviso in "vivande" cioè le canzoni e in "pane" cioè il commento in prosa. Ma è un banchetto non ricco dove si pratica l'alta cultura per i problemi generali della filosofia e della teologia. Il suo ruolo è quello divulgativo. Di qui anche la scelta del pubblico a cui è dedicata quest'opera. Non i dotti che si sono dedicati professionalmente agli studi ma tutta quella categoria di cittadini che per la famiglia o la vita civili si sono dedicati alle attività eminentemente pratiche cioè, non al pubblico popolare, ma la classe dirigente urbana. Possono rientrare in questo pubblico anche gli abitanti della campagna che si sono privati degli studi perché lontani dalla città, "per difetto del luogo", e impediti a studiare. Ad essi è riservata però una posizione più marginale. Collegata a questo pubblico è la scelta del volgare come strumento di comunicazione.

De Vulgari Eloquentia[modifica]

Trattato I, Cap. XVI-XVIII - Caratteri del Volgare Illustre[modifica]

Scopo del trattato è definire le norme retoriche di uno stile illustre in lingua volgare. Dante cerca quindi il volgare che può essere adatto allo stile sublime. Passa in rassegna i vari dialetti della penisola italiana ma nessuno ha queste caratteristiche poiché troppo gravati da caratteristiche locali, municipali. Il volgare cercato è in tutte le parlate cittadine ma non si identifica pienamente con nessuna di esse.

Testo[modifica]

XVI. Abbiamo battuto i boschi e i pascoli d’Italia senza trovare la pantera che inseguiamo: applichiamo dunque per la sua scoperta un metodo di indagine più razionale, nell’intento di avviluppare nei nostri lacci questa fiera che fa sentire il suo profumo ovunque senza mostrarsi in nessun luogo. Riprendiamo dunque i nostri spiedi di caccia e affermiamo che in ciascun genere deve esistere un elemento con cui confrontare e valutare tutti i membri di quel genere e da cui ricavare la misura degli altri suoi componenti. Così fra i numeri tutto viene misurato sull’uno, e si dice che un numero è maggiore o minore a seconda che si allontani o si avvicini all’uno; così fra i colori tutto è misurato sul bianco: si dice infatti che un colore è più o meno luminoso a seconda che si accosti o si discosti dal bianco. Queste affermazioni relative a casi che presentano le categorie della quantità e qualità si possono a nostro avviso estendere a qualsivoglia categoria, compresa la sostanza. Noi riteniamo cioè che ciascuna cosa, in quanto appartenente a un genere, sia misurabile dal più semplice dei componenti di quel genere. Anche fra le nostre azioni (benché si divìdano in diverse specie) bisogna quindi trovare questo indice che ci permetta di misurarle. In quanto agiamo come uomini in senso assoluto, abbiamo dunque come indice la virtù (intendendola in senso generale): infatti rispetto ad essa giudichiamo buono o cattivo un uomo; in quanto agiamo come uomini e cittadini, abbiamo come indice la legge, in base alla quale dichiariamo buono o cattivo un cittadino; in quanto agiamo come uomini e Italiani, abbiamo alcuni indici semplicissimi, costituiti da usi, costumi e linguaggio, con cui valutiamo e misuriamo le azioni proprie degli Italiani. Ora, le più nobili di queste azioni proprie degli Italiani sono quelle che, senza appartenere ad alcuna città d’Italia, sono comuni a tutte le città: fra queste azioni possiamo adesso scorgere quel volgare che prima abbiamo cercato, quel volgare che si fa sentire in ogni città, senza aver sede in nessuna di esse. Esso può tuttavia farsi sentire in una città più che in un’altra: infatti la più semplice delle sostanze, cioè Dio, si fa sentire nell’uomo più che nella bestia, nell’animale più che nella pianta, nella pianta più che nel minerale, in quest’ultimo più che nell’elemento, nel fuoco più che nella terra; la più semplice quantità, cioè l’unità, si fa invece sentire nel numero dispari più che nel pari; il colore più semplice, cioè il bianco, si fa sentire nel giallo più che nel verde. Abbiamo così conseguito ciò che cercavamo, e dichiariamo che in Italia il volgare illustre, cardinale, regale e curiale è quel volgare che appartiene a tutte le città italiane senza apparire proprio di alcuna di esse, quel volgare con cui vengono misurati, valutati e confrontati i volgari italiani.

XVII. Dobbiamo ora esporre perché definiamo il volgare da noi trovato con l’aggiunta di «illustre, cardinale, regale, curiale»: renderemo con ciò più chiaro ed evidente che cos’è questo volgare. Spieghiamo dunque anzitutto che cosa intendiamo con l’aggiunta di «illustre» e per quale ragione usiamo il termine «illustre». Con questo termine intendiamo qualcosa che illumina e che, una volta illuminato, risplende. In questo senso definiamo illustri certi uomini; essi infatti o ricevono luce dal potere e illuminano gli altri con la giustizia e la carità, o hanno ricevuto una dottrina eccelsa e impartiscono un’eccelsa dottrina: così fecero Seneca e Numa Pompilio. Ora, il volgare di cui parliamo è reso sublime dalla dottrina e dal potere e rende sublimi i suoi cultori con l’onore e la gloria. Che sia reso sublime dalla dottrina, è evidente: infatti da tanti rozzi vocaboli degli Italiani, da tanti costrutti intricati, da tante forme errate, da tanti accenti campagnoli noi vediamo scaturire un volgare così eccellente, così sciolto, così perfetto, così urbano come quello che ci mostrano le canzoni di Cino da Pistoia e dal suo amico. Che poi esista un potere che lo eleva, si vede chiaramente. Qual maggiore potere infatti della possibilità di cambiare il cuore umano e di far volere chi non vuole e disvolere chi vuole, come ha fatto e fa questo volgare? Che esso poi renda sublimi conferendo onore, è palese. Forse che i suoi ministri non vincono per fama qualsiasi re, marchese, conte o signore? Non c’è proprio bisogno di dimostrarlo. Noi stessi del resto sappiamo quanto esso renda gloriosi i suoi amici, perché la dolcezza di questa gloria ci spinge a dimenticare il nostro esilio. Pertanto dobbiamo a buon diritto dichiararlo «illustre».

XVIII. Non è senza ragione che onoriamo questo volgare con l’aggiunta del secondo aggettivo, cioè chiamandolo «cardinale». Infatti, come l’intero uscio segue il cardine e gira esso stesso muovendosi in dentro o in fuori nel senso in cui gira il cardine, così l’intero gregge dei volgari municipali si gira e si rigira, si muove e si ferma secondo quanto fa questo volgare che appare come il vero padrone di casa. Forse che non estirpa ogni giorno dalla selva italiana i cespugli spinosi? Forse che ogni giorno non innesta germogli e trapianta pianticelle? Di che si occupano i suoi contadini, se non, come si è detto, di togliere e mettere piante? Merita quindi davvero l’onore di un nome così alto. La ragione per cui lo definiamo «regale» sta nel fatto che, se noi Italiani avessimo una reggia, esso sarebbe la lingua di palazzo. Infatti, se la reggia rappresenta la casa comune di tutto il regno e l’augusta governante di tutte le sue parti, è conveniente che vi si trovi e abiti tutto ciò che risulta tale da essere comune a tutti, senza essere proprio di nessuno: non vi è anzi dimora più degna di un abitante così nobile. E questo sembra appunto il caso del volgare di cui parliamo. Da questo fatto deriva che tutti coloro che si trovano nelle regge si esprimono sempre in un volgare illustre, e, come ulteriore conseguenza, che il nostro volgare illustre, mancando la reggia, va peregrinando come straniero e trova ospitalità in umili ricoveri. È giusto chiamarlo anche «curiale». La curialità infatti non è altro che la norma e misura di ciò che si deve fare: e poiché la bilancia per tale misura suole esistere soltanto nelle eccellentissime «curie», ne deriva che tutto ciò che nei nostri atti è ben misurato viene chiamato curiale. Ora, questo volgare riceve la sua misura nell’eccellentissima curia degli Italiani e merita pertanto il nome di curiale. Parlare tuttavia di misure effettuate nella curia degli Italiani, pare uno scherzo, perché non abbiamo curia. Ma a questo si risponde facilmente: infatti, benché in Italia non esista una curia, intesa nella sua unità (come la curia del re di Germania), non mancano tuttavia le membra che la sostituiscono; e come le membra della curia di Germania ricevono unità da un unico Principe, così le membra della nostra sono unite dal lume di grazia della ragione. Sarebbe pertanto falso dire che gli Italiani mancano di una curia, benché siano privi di un Principe: abbiamo infatti una curia, anche se fisicamente dispersa.

Analisi del Testo[modifica]

Nella piena ottica di quello che è il ragionamento medievale, Dante, parla di un volgare illustre sotto forma di astrazione, quasi in senso negativo. Come un volgare che rappresenta tutte le varie lingue volgari, ma che non si identifica con nessuna di esse, ma da loro prende solo le qualità migliori creando un modello ideale. Di qui la tendenza a creare un linguaggio artificiale che superi le divisioni politiche e sociali e crei un linguaggio utile ad un élite intellettuale. Il problema, quindi, come individuato da Dante, non è solo Sociale, le enormi differenze tra il linguaggio dei colti e quello degli illetterati o addirittura analfabeti, ma soprattutto Politiche a causa delle divisioni di potere nella penisola e la necessità quindi di una unificazione anche culturale. Di qui anche la esaltazione della cultura e dell'uomo acculturato, un uomo capace di poter unire quello che politicamente un politico, almeno a quell'epoca non poteva fare, cioè la penisola italiana, sotto un'unica cultura.

Monarchia[modifica]

Libro III, Cap. XV, vv. 7-18 - L'Imperatore, il Papa e i Due Fini della Vita Umana[modifica]

Nell'ultimo capitolo della sua opera, Dante ne riassume il suo senso: l'Autorità dell'Impero non deriva da quella del Papa, ma direttamente da Dio. L'Imperatore, in altri termini, non è sottoposto al Pontefice, ma le due autorità sono indipendenti.

Testo[modifica]

L'ineffabile Provvidenza ha posto dunque innanzi al l'uomo due fini cui tendere: la felicità di questa vita, che consiste nell'esplicazione della propria specifica facoltà, ed è simboleggiata nel paradiso terrestre, e la felicità della vita eterna, che consiste nel godimento della visione di Dio, e costituisce il paradiso celeste; ad essa quella facoltà specifica dell'uomo non può elevarsi senza il soccorso della luce divina. A queste [due] beatitudini, come a [due] fini diversi, occorre giungere con mezzi diversi. Alla prima infatti perveniamo per mezzo degli insegnamenti filosofici, purché li mettiamo in pratica operando secondo le virtù morali e intellettuali; alla seconda invece perveniamo per mezzo degli insegnamenti divini che trascendono la ragione umana, purché li seguiamo operando secondo le virtù teologiche della fede, speranza e carità. Sebbene quel fine e quei mezzi [naturali] ci siano stati additati dalla ragione umana, quale si è manifestata a noi compiutamente attraverso i filosofi, e sebbene quel fine e quei mezzi [soprannaturali] ci siano stati indicati dallo Spirito Santo, che ci ha rivelato la verità soprannaturale a noi necessaria attraverso i profeti, gli scrittori ispirati, Gesù Cristo, figlio di Dio a lui coeterno, ed i suoi discepoli, tuttavia la cupidigia umana indurrebbe a dimenticarli, se gli uomini, come cavalli spinti dalla loro bestialità a percorrere vie traverse, non fossero trattenuti sulla retta strada «con la briglia e con il freno». Per questo l'uomo ebbe bisogno di una duplice guida, in corrispondenza del duplice fine, cioè del Sommo Pontefice, per condurre il genere umano alla vita eterna mediante la dottrina rivelata, e dell'Imperatore, per dirigere il genere umano alla felicità terrena attraverso gli insegnamenti della filosofia. E siccome a questo porto n [della felicità terrena] nessuno o pochi, ed anche questi con eccessiva difficoltà, potrebbero approdare, se il genere umano — sedati i flutti della cupidigia esposta ad ogni seduzione — non riposasse libero nella tranquillità della pace, il governatore del mondo, detto Principe Romano, deve tendere con tutte le sue forze a questo scopo, cioè a far sì che in questa aiuola umana si possa vivere nella libertà e nella pace. E siccome la disposizione di questo mondo è conseguenza della disposizione propria dei moti celesti, affinché le utili iniziative [imperiali] di libertà e di pace possano trovare applicazione adatta ai luoghi e ai tempi, è necessario che quel governatore del mondo sia stabilito da chi ha una visione complessiva ed immediata della disposizione globale dei cieli. Ora questi è soltanto Colui che ha preordinato tale disposizione come mezzo per poter subordinare provvidenzialmente tutte le cose ai suoi piani. Ma se è così, solo Dio elegge, egli solo conferma, non avendo altri superiori a sé. Dal che si può ricavare questa ulteriore conseguenza, che né gli elettori attuali, né quelli che, in qualunque modo, sono stati detti «elettori» si possono chiamare con tale titolo, ma piuttosto vanno considerati come «annunciatori della scelta provvidenziale di Dio». Onde avviene che talvolta coloro, cui è stata conferita questa carica di annunciatori, sono travagliati da discordie, dovute al fatto che tutti o alcuni di essi, ottenebrati dalla nebbia della cupidigia, non riescono ad individuare chiaramente l'elezione fatta da Dio. Così dunque risulta evidente che l'autorità del monarca temporale gli deriva, senza intermediario alcuno, dalla fonte stessa di ogni autorità, fonte che, pur essendo tutta raccolta nella roccaforte della sua semplicità, si espande in molteplici ruscelli per la sovrabbondanza della sua bontà. Mi pare ormai di aver raggiunto la meta che mi ero proposto. Difatti è stata dimostrata la vera soluzione della questione se al buon ordinamento del mondo sia necessario l'ufficio del Monarca, dell'altra questione se il popolo romano si sia appropriato di diritto dell'Impero, ed infine dell'ultima questione se l'autorità del monarca dipenda immediatamente da Dio o da qualcun altro. La soluzione data all'ultima questione non va però intesa in senso così stretto, da escludere che il Principe romano non sottostia in qualcosa al romano Pontefice, poiché la felicità di questa vita mortale è ordinata, in qualche modo, alla felicità immortale. Cesare pertanto usi verso Pietro di quella reverenza che il figlio primogenito deve usare verso il padre, affinché, illuminato dalla luce della grazia paterna, possa illuminare con maggior efficacia la terra, al cui governo è stato preposto solo da Colui che è il reggitore di tutte le cose spirituali e temporali.

Analisi del Testo[modifica]

La natura dell'uomo, per Dante, è incline al male; ora essendo lo scopo dell'umanità quello di conservare la libertà e la pace, e quindi acquista un particolare ruolo dell'Imperatore che è l'unico che ha la forza materiale per realizzare queste condizioni. Certamente in questa sua visione si riflettono le sue aspirazioni deluse di una pace garantita dall'alto, che risolve le discordie cittadine e i contrasti particolari. Alla fine però Dante corregge il tiro dimostrando comunque la superiorità dei valori spirituali a quelli puramente umani, l'imperatore deve rendere omaggio e "riverenza" al Pontefice.

Epistole[modifica]

Epistola a Cangrande della Scala - L'Allegoria, il Fine, il Titolo della Commedia[modifica]

L' Epistola XIII a Cangrande della Scala è un'epistola in lingua latina, ultima delle tredici Epistole di Dante Alighieri, diretta a Cangrande della Scala, signore di Verona, presso cui Dante aveva trovato ospitalità durante l'esilio (e che è stato celebrato anche in Paradiso, XVII). Con essa avviene la dedica a Cangrande della Terza Cantica. L'epistola contiene tutta una serie di indicazioni di lettura del poema. Si è molto discusso sull'autenticità.

Testo[modifica]

[7]. Per chiarire quanto stiamo per dire, occorre sapere che non è uno solo il senso di quest'opera: anzi, essa può essere definita polisensa, ossia dotata di più significati. Infatti, il primo significato è quello ricavato da una lettura alla lettera; un altro è prodotto da una lettura che va al significato profondo. Il primo si definisce significato letterale, il secondo, di tipo allegorico, morale oppure anagogico. E tale modo di procedere, perché risulti più chiaro, può essere analizzato da questi versi: "Durante l'esodo di Israele dall'Egitto, la casa di Giacobbe si staccò da un popolo straniero, la Giudea divenne un santuario e Israele il suo dominio". Se osserviamo solamente il significato letterale, questi versi appaiono riferiti all'esodo del popolo di Israele dall'Egitto, al tempo di Mosè; ma se osserviamo il significato allegorico, il significato si sposta sulla nostra redenzione ad opera di Cristo. Se guardiamo al senso morale, cogliamo la conversione dell'anima dal lutto miserabile del peccato alla Grazia; il senso anagogico indica, infine, la liberazione dell'anima santa dalla servitù di questa corruzione terrena, verso la libertà della gloria eterna. E benché questi significati mistici siano chiamati con denominazioni diverse, in generale tutti possono essere chiamati allegorici, perché sono traslati dal senso letterale o narrativo. Infatti allegoria viene ricavata dal greco alleon che, in latino, si pronuncia alienum, vale a dire diverso.

[8]. Alla luce di queste considerazioni, è evidente che occorrono due soggetti, intorno ai quali corrano i due sensi. E perciò bisogna fare attenzione, in riferimento al soggetto di quest'opera, dapprima che venga colto in senso letterale e successivamente che quel medesimo soggetto sia colto in senso allegorico. Preso solo nel suo senso letterale, dunque, il soggetto dell'intera Commedia riguarda semplicemente la condizione delle anime dopo la morte; infatti, l'opera tutta procede muovendosi attorno a questo tema. Se, in verità, si scava nel senso allegorico, il soggetto diventa nell'uomo che, meritando o non meritando, alla luce del libero arbitrio, è gratificato dal premio o dannato al giusto castigo.

[9].' La forma, a sua volta, è duplice: la forma del trattato e la forma da trattare. La forma del trattato è triplice, secondo una triplice divisione. La prima divisione è quella per cui tutta la Commedia viene scandita in tre Cantiche; la seconda è quella per cui ogni Cantica si divide in canti; la terza è quella per cui ogni canto si divide in versi. La forma concepita come modo del trattare è poetica, inventiva, descrittiva, digressiva, transuntiva e insieme definitiva, divisiva, probativa, reprobativa ed esemplificativa.

[10]. Il titolo del libro è "Inizia la Commedia di Dante Alighieri, fiorentino di nascita, non di costumi". A chiarimento di ciò dobbiamo sapere che commedia deriva da "comos", "villaggio", e "oda", cioè "canto": da qui commedia quasi "canto villereccio". La commedia è un genere di narrazione poetica che differisce da tutti gli altri. Differisce dalla tragedia riguardo al contenuto: infatti la tragedia all'inizio suscita un sentimento di quieta ammirazione, ma nella conclusione è rivoltante e terrificante; è definita così perché deriva da "tragos", che è il "capro" e "oda", come se si trattasse di un "canto del capro", ossia disgustoso e maleodorante appunto come un capro, come appare palese nelle tragedie di Seneca. La commedia, poi, propone all’inizio le difficoltà di un evento, ma lo sviluppo di questo approda a un esito felice, come si palesa nelle commedie di Terenzio. Da qui alcuni scrittori hanno preso l'abitudine di usare, nei loro saluti, invece di "salve", l'espressione " tragico principio e comico finale". Allo stesso modo i due generi differiscono nell'espressione: alata e sublime è la tragedia, dimessa e umile la commedia, come afferma Orazio nella sua Arte poetica, dove consente talvolta ai comici di esprimersi come i tragici e viceversa:

Talvolta, però, anche la commedia solleva lo stile,
e Cremete, irato, disputa con ampolloso linguaggio;
e spesso si dolgono con parole dimesse
i tragici Telefo e Peleo...

E per questo appare chiara la ragione per cui quest'opera si intitola Commedia. Infatti, se guardiamo al contenuto, inizialmente orribile e ripugnante, poiché descrive l'Inferno, alla fine appare positiva, desiderabile e gradevole, perché illustra il Paradiso; quanto all'espressione, viene impiegato un linguaggio misurato e umile, in quanto usa la lingua volgare in cui si esprimono le donnette. Ma vi sono anche altri generi di narrazioni poetiche, come il carme bucolico, l'elegia, la satira e il canto votivo, come Orazio spiega nella sua Arte poetica; ma, in questo contesto, non è opportuno parlare al riguardo.

[11]. A questo punto può risultare chiaro in che modo si debba determinare il soggetto della Cantica donata. Infatti, se il soggetto dell'intera opera, colta nel suo senso letterale, consiste nella condizione della anime dopo la morte, non limitato ma accolto nella sua semplicità, è manifesto che in questa cantica tale situazione sia il soggetto, ma solo per quanto riguarda la condizione delle anime beate. E se il soggetto dell'intera Commedia, intesa in senso allegorico, consiste nell'uomo che, alla luce del libero arbitrio, merita di essere premiato o punito dalla Giustizia divina, è chiaro che in questa parte questo soggetto viene determinato e consiste nell'uomo che merita il premio assegnato dalla Giustizia divina.

[12]. Si definisce in questo modo la forma della Cantica, attraverso la forma della Commedia tutta. Infatti, se la forma del trattato è triplice, in questa parte è soltanto duplice: infatti, il Paradiso si divide in canti e in versi. Non può contenere la prima divisione, perché essa stessa è il risultato di questa scansione.

[13]. Anche il titolo non richiede troppe spiegazioni: infatti, titolo dell'intera opera è Inizia la Commedia... ecc., come dissi prima. Ne deriva che il titolo di questa parte è Comincia la terza cantica della Commedia di Dante ecc..., che si chiama Paradiso.

[14]. Analizzati i tre elementi per i quali la parte varia rispetto all'opera nel suo insieme, occorre parlare di quegli altri tre nei quali non esiste alcuna variazione rispetto alla totalità. L'autore della Cantica è il medesimo che ha scritto il tutto.

[15]. L'obiettivo dell'opera e della Cantica potrebbe essere molteplice, ossia riguardare la realtà immediata e quella futura; ma, tralasciando ogni sottigliezza, per parlare brevemente, l'obiettivo della Commedia e di questa cantica consiste nell'allontanare i viventi, durante la loro esistenza, dallo stato di miseria spirituale, per condurli alla salvezza.

[16]. La branca della filosofia, sotto la quale procedono l'opera e questa parte, è quella della morale, ossia l'etica; infatti l'opera tutta, e questa parte, non è finalizzata alla speculazione del pensiero, bensì a un risultato concreto. Infatti se in qualche brano o in qualche passaggio il linguaggio si fa simile a quello della filosofia speculativa, questo avviene non in virtù di un fine speculativo, ma per necessità intrinseche all'opera stessa. Infatti, come dice il Filosofo nel secondo libro della Metafisica, "su qualcosa e su momenti particolari talvolta i pensatori pragmatici speculano".

Analisi del Testo[modifica]

L'Epistola XIII si divide in due parti: la prima (1-13) nella quale è contenuta la dedica del Paradiso, la seconda (14-89) nella quale è introdotto un commento della Commedia.

Nella prima parte, Dante dedica al suo protettore, il signore di Verona Cangrande della Scala, la terza cantica della sua opera maggiore:

«[...] propter hoc munuscula mea sepe multum conspexi et ab invicem segregavi, nec non segregata percensui, digniusque gratiusque vobis inquirens. Neque ipsi preheminentie vestre congruum comperi magis quam Comedie sublimem canticam, que decoratur titulo Paradisi; et illam sub presenti epistola, tanquam sub epigrammate proprio dedicatam, vobis adscribo, vobis offero, vobis denique recommendo.»

(Epistola XIII, capp. 10-11)

«[...] sovente ho esaminato i miei piccoli regali e li ho differenziati e poi vagliati, alla ricerca del più degno e gradito a voi. E non ne ho trovato uno adeguato alla vostra eccellenza più di quella sublime cantica della Commedia che si intitola Paradiso. E questa, con la presente lettera, come a Voi consacrata con propria epigrafe, a Voi la intitolo, la offro, la raccomando.»

(Traduzione di Epistola XIII, capp. 10-11)

Nella seconda parte, l'autore riprende un concetto che trova il suo più diretto precedente nel Convivio: la differenza tra senso letterale e senso allegorico (tripartito in propriamente detto, morale, anagogico), fondamentale nella lettura della Commedia (20-22).

Spiega poi alcuni aspetti dell'opera in generale e relativamente al Paradiso: il soggetto (23-25), la forma (35-36), il titolo (28-32), l'agente (38), il fine (39), il genere di filosofia (40-41).

Nei capitoli successivi al 42, l'autore focalizzerà sulla terza cantica e sui suoi contenuti, introducendone un commento e un'esposizione lacunosa, causa altre attività di interesse pubblico.

La datazione, non certa, è evinta da segnali interni all'epistola: così si è stabilito che il termine post quem è il 1316, data di inizio della stesura del Paradiso, il termine ante quem è invece il 1320, data della sconfitta di Cangrande (nell'epistola definito "victorioso") a Padova.

Problematica e non ancora del tutto risolta è la questione dell'attribuzione dell'epistola a Dante: essa scaturisce soprattutto da un grande divario tra lo stile dei primi tredici capitoli e quello dei successivi; così, la prima parte dell'Epistola XIII è quasi unanimemente attribuita a Dante, mentre la seconda è ancora fonte di accese dispute. Sulla base dello studio di indizi e del confronto con altri passi dell'opera dantesca, alcuni critici, come Bruno Nardi, negano l'autenticità, mentre altri, come Giorgio Padoan ed Enzo Cecchini, la confermano.