''Il Corsaro Nero'' di Emilio Salgàri (superiori)

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''Il Corsaro Nero'' di Emilio Salgàri (superiori)
Tipo di risorsa Tipo: lezione
Materia di appartenenza Materia: Italiano per le superiori 1
Avanzamento Avanzamento: lezione completa al 100%
Il Corsaro nero
Copertina de Il Corsaro Nero, 3ª edizione, 1904, illustrazione di Alberto Della Valle (1851-1928)
AutoreEmilio Salgari
1ª ed. originale1898
Genereromanzo
Sottogenereavventura
Lingua originaleitaliano
AmbientazioneMar dei Caraibi, Tortuga, Maracaibo, metà XVII secolo
ProtagonistiCorsaro Nero (Emilio di Roccabruna signore di Ventimiglia)
AntagonistiWan Guld
Altri personaggiHonorata, Carmaux, Wan Stiller, Moko, l'Olonese
SerieI corsari delle Antille
Seguito daLa regina dei Caraibi

Il Corsaro Nero è un romanzo d'avventura di Emilio Salgari. Fu il primo di una serie di cinque romanzi collettivamente noti col titolo I corsari delle Antille, e avente come protagonista il personaggio del Corsaro Nero (Emilio di Roccabruna, signore di Ventimiglia) o suoi parenti stretti.

Ai fatti raccontati ne "Il Corsaro Nero" fanno seguito quelli raccontati ne La regina dei Caraibi, che è anche l'antefatto di Jolanda, la figlia del Corsaro Nero, altre due opere di Salgari.

L'Autore[modifica]

Per approfondire questo argomento, consulta la pagina Emilio Salgari (superiori).
Emilio Salgari

Emilio Carlo Giuseppe Maria Salgàri (Verona, 21 agosto 1862 – Torino, 25 aprile 1911) è stato uno scrittore italiano di romanzi d'avventura molto popolari.

Autore straordinariamente prolifico, è ricordato soprattutto per essere il "padre" di Sandokan, del ciclo dei pirati della Malesia e quelle dei corsari delle Antille. Scrisse anche romanzi storici, come Cartagine in fiamme, e diverse storie fantastiche, come Le meraviglie del Duemila in cui prefigura la società attuale a distanza di un secolo, un romanzo scientifico precursore della fantascienza in Italia. Molte sue opere hanno avuto trasposizioni cinematografiche e televisive.

La Trama[modifica]

Per approfondire su Wikipedia, vedi la voce Il Corsaro Nero (romanzo).

Metà del Seicento: Inghilterra e Francia combattono contro la potenza degli spagnoli e iniziano ad inviare navi corsare in scorribanda per l'Oceano per combattere quelle nemiche e danneggiare così il commercio delle loro colonie e nel 1625 due navi, con a bordo i primi corsari, gettano l'ancora davanti all'isola di San Cristoforo e vi si stabiliscono. Ma una nave spagnola distrugge dopo cinque anni la loro base e i pochi che riescono a sopravvivere trovano un rifugio all'isola della Tortuga facendone la base di partenza per tutte le loro spedizioni.

Gli abitanti di Santo Domingo però, vedendo che il loro commercio è in pericolo, dopo un attacco riescono a sconfiggerli e ad allontanarli. Un giorno però, i bucanieri e i filibustieri riescono a far ritorno all'isola. Arriva intanto alla Tortuga un nobile italiano circondato dal mistero, un certo Emilio signore di Ventimiglia, Valpenta e Roccabruna. Durante un assedio in Europa, durante la guerra fra Francia e Spagna, gli spagnoli tagliata la ritirata comprano un duca fiammingo, Wan Guld, ordinandogli di tradire i superstiti italo-francesi rifugiatisi in una rocca. Riesce nel suo malvagio piano, ma uccide il fratello maggiore di Emilio, che, dopo essersi miracolosamente salvato dalla carneficina degli Spagnoli, per vendicarsi lo insegue nei Caraibi dove lui e i suoi due fratelli diventano il Corsaro Nero, Rosso e Verde.

Il romanzo ha inizio quando due filibustieri, Carmaux e Van Stiller, vengono ripescati dalla "Folgore", nave filibustiera appartenente a Emilio di Roccabruna, conte di Valpenta e di Ventimiglia, conosciuto come il Corsaro Nero. Una volta a bordo, i due raccontano al terribile comandante che suo fratello, Enrico di Ventimiglia conosciuto come il Corsaro Rosso era stato impiccato nella piazza di Maracaibo per ordine di Van Guld, governatore della città. Emilio decide così di recarsi a Maracaibo per sottrarre il cadavere del fratello e, reclutati Carmaux e Van Stiller, affida il comando della nave a Morgan, suo luogotenente.

Dopo aver catturato una guardia spagnola e guadagnato l'aiuto di Moko, un africano eremita, i filibustieri giungono a Maracaibo. Dopo numerose avventure il Corsaro riesce a rapire la salma del fratello e a rimbarcarsi sulla Folgore dove, dopo aver celebrato il funerale del fratello, giura solennemente che sterminerà Van Guld e tutta la sua famiglia.

Sulla strada del ritorno per la Tortuga, i filibustieri assaltano una nave spagnola che trasporta una bionda fanciulla che si fa chiamare Honorata Willerman, duchessa di Weltrendrem, di cui Emilio si innamora, ricambiato. Dopo essersi imbattuti in un terribile uragano la nave giunge finalmente alla Tortuga. Qui il racconto s'interrompe e l'autore introduce una parentesi storica, citando le imprese di grandi filibustieri realmente esistiti e spiegando cosa siano la filibusteria e la bucaneria.

Ha poi inizio il racconto della spedizione per assalire Maracaibo. La caccia di Emilio lo porta, insieme a Carmaux, Wan Stiller, Moko e il soldato che avevano catturato poco tempo prima, promosso a guida del drappello, nella foresta vergine. Lì il gruppo incontrerà coguari e puzzole, vampiri, sabbie mobili e antropofagi. Giunti quasi alla meta, il soldato e Moko si fermano, mentre i tre filibustieri proseguono la caccia. Seguirà uno scontro con le forze di Van Guld e l'assalto a Gibraltar.

Finite queste avventure pericolose, il Corsaro scoprirà che Honorata è in realtà la figlia di Van Guld e, combattuto tra onore e amore, farà imbarcare la giovane su una scialuppa e l'abbandonerà in mare con enorme dolore. Il romanzo si conclude con Carmaux che dice al suo amico Wan Stiller: «Guarda lassù! Il Corsaro Nero piange».

Il Brano: "I Filibustieri della Tortuga" da Il Corsaro Nero[modifica]

Carmaux e Wan Stiller, Due Pirati della Tortuga, sono Fuggiti da Maracaibo e stanno errando nel Golfo del Messico su un Canotto quando Incontrano la Nave del Corsaro Nero che si sta avvicinando alla Città Spagnola. La Notizia che Portano è Terribile.

«Una voce robusta, che aveva una specie di vibrazione metallica, s’alzò dal mare ed echeggiò fra le tenebre, lanciando queste parole minacciose:

— Uomini del canotto! Alt! o vi mando a picco!...

La piccola imbarcazione, montata da due soli uomini, che avanzava faticosamente sui flutti color inchiostro, fuggendo l’alta sponda che si delineava confusamente sulla linea dell’orizzonte, come se da quella parte temesse un grave pericolo, s’era bruscamente arrestata.

I due marinai, ritirati rapidamente i remi, si erano alzati d’un sol colpo, guardando con inquietudine dinanzi a loro, e fissando gli sguardi su di una grande ombra, che pareva fosse improvvisamente emersa dai flutti.

Erano entrambi sulla quarantina, ma dai lineamenti energici e angolosi, resi piú arditi dalle barbe folte, irte, e che forse mai avevano conosciuto l’uso del pettine e della spazzola.

Due ampi cappelli di feltro, in piú parti bucherellati e con le tese sbrindellate, coprivano le loro teste; camicie di flanella lacerate e scolorite, e prive di maniche, riparavano malamente i loro robusti petti, stretti alla cintura da fasce rosse, del pari ridotte in stato miserando, ma sostenenti un paio di grosse e pesanti pistole che si usavano verso la fine del sedicesimo secolo. Anche i loro corti calzoni erano laceri, e le gambe ed i piedi, privi di scarpe, erano imbrattati di fango nerastro.

Quei due uomini che si sarebbero potuti scambiare per due evasi da qualche penitenziario del Golfo del Messico, se in quel tempo fossero esistiti quelli fondati piú tardi alle Guiane, vedendo quella grande ombra che spiccava nettamente sul fondo azzurro cupo dell’orizzonte, fra lo scintillio delle stelle, si scambiarono uno sguardo inquieto.

— Guarda un po’, Carmaux, — disse colui che pareva il piú giovane. — Guarda bene, tu che hai la vista piú acuta di me. Sai che si tratta di vita o di morte.

— Vedo che è un vascello e sebbene non sia lontano piú di tre tiri di pistola non saprei dire se viene dalla Tortue o dalle colonie spagnole.

— Che siano amici?... Uhm! Osare spingersi fin qui, quasi sotto i cannoni dei forti, col pericolo d’incontrare qualche squadra di navi d’alto bordo scortante qualche galeone pieno d’oro!...

— Comunque sia ci hanno veduti, Wan Stiller, e non ci lasceranno fuggire. Se lo tentassimo, un colpo di mitraglia sarebbe sufficiente a mandarci tutti e due a casa di Belzebú.

La stessa voce di prima, potente e sonora, echeggiò per la seconda volta fra le tenebre, perdendosi lontana sulle acque del golfo:

— Chi vive?

— Il diavolo, — borbottò colui che si chiamava Wan Stiller.

Il compagno invece salí sul banco e con quanta voce aveva gridò:

— Chi è l’audace che vuol sapere da qual paese veniamo noi?... Se la curiosità lo divora, venga da noi e gliela pagheremo a colpi di pistola.

Quella smargiassata, invece di irritare l’uomo che interrogava dal ponte della nave, parve che lo rendesse lieto, poiché rispose:

— I valorosi s’avanzino e vengano ad abbracciare i Fratelli della Costa!...

I due uomini del canotto avevano mandato un grido di gioia.

— I Fratelli della Costa! — avevano esclamato.

Poi colui che si chiamava Carmaux aggiunse:

— Il mare m’inghiotta, se non ho conosciuta la voce che ci ha data questa bella nuova.

— Chi credi che sia? — chiese il compagno, che aveva ripreso il remo manovrandolo con supremo vigore.

— Un uomo solo, fra tutti i valorosi della Tortue, può osare spingersi fino sotto i forti spagnuoli.

— Chi?...

— Il Corsaro Nero.

— Tuoni d’Amburgo!... Lui!... Proprio lui!...

— Che triste notizia per quell’audace marinaio!... — mormorò Carmaux con un sospiro. — Ed è proprio morto!...

— Mentre lui forse sperava di giungere in tempo per strapparlo vivo dalle mani degli spagnuoli, è vero, amico?

— Sí, Wan Stiller.

— Ed è il secondo che gli appiccano!...

— Il secondo, sí. Due fratelli, e tutti e due appesi alla forca infame!

— Si vendicherà, Carmaux.

— Lo credo, e noi saremo con lui. Il giorno che vedrò strangolare quel dannato governatore di Maracaibo, sarà il piú bello della mia vita e darò fine ai due smeraldi che tengo cuciti nei miei pantaloni. Saranno almeno mille piastre che mangerò coi camerati.

— Ah!... Ci siamo!... Te lo dicevo io? È la nave del Corsaro Nero!...

Il vascello, che poco prima non si poteva ben discernere in causa della profonda oscurità, non si trovava allora che a mezza gomena dal piccolo canotto.

Era uno di quei legni da corsa che adoperavano i filibustieri della Tortue per dare la caccia ai grossi galeoni spagnuoli, recanti in Europa i tesori dell’America Centrale, del Messico e delle regioni equatoriali.

Buoni velieri, muniti d’alta alberatura per potere approfittare delle brezze piú leggere, colla carena stretta, la prora e la poppa soprattutto altissime come si usavano in quell’epoca, e formidabilmente armati.

Dodici bocche da fuoco, dodici caronade, sporgevano le loro nere gole dai sabordi, minacciando a babordo ed a tribordo, mentre sull’alto cassero si allungavano due grossi cannoni da caccia, destinati a spazzare i ponti a colpi di mitraglia.

Il legno corsaro si era messo in panna per attendere il canotto, ma sulla prora si vedevano, alla luce d’un fanale, dieci o dodici uomini armati di fucili, i quali parevano pronti a far fuoco al minimo sospetto.

I due marinai del canotto, giunti sotto il bordo del veliero, afferrarono una fune che era stata loro gettata insieme ad una scala di corda, assicurarono l’imbarcazione, ritirarono i remi, poi si issarono sulla coperta con un’agilità sorprendente.

Due uomini, entrambi muniti di fucili, puntarono su di essi le armi, mentre un terzo si avvicinava, proiettando sui nuovi arrivati la luce d’una lanterna.

— Chi siete? — fu chiesto loro.

— Per Belzebú, mio patrono!... — esclamò Carmaux. — Non si conoscono piú gli amici?...

— Un pesce-cane mi mangi se questi non è il biscaglino Carmaux!... — gridò l’uomo della lanterna. — Come sei ancora vivo, mentre alla Tortue ti si credeva morto?... Toh!... Un altro risuscitato!... Non sei tu l’amburghese Wan Stiller?...

— In carne ed ossa, — rispose questi.

— Anche tu adunque sei sfuggito al capestro?...

— Eh!... La morte non mi voleva ed io ho pensato che era meglio vivere qualche anno ancora.

— Ed il capo?...

— Silenzio, — disse Carmaux.

— Puoi parlare: è morto?

— Banda di corvi!... Avete finito di gracchiare?... — gridò la voce metallica, che aveva lanciata quella frase minacciosa agli uomini del canotto.

— Tuoni d’Amburgo!... Il Corsaro Nero!... — borbottò Wan Stiller, con un brivido.

Carmaux, alzando la voce, rispose:

— Eccomi comandante. —

Un uomo era sceso allora dal ponte di comando e si dirigeva verso di loro, con una mano appoggiata al calcio d’una pistola che pendevagli dalla cintola.

Era vestito completamente di nero e con una eleganza che non era abituale fra i filibustieri del grande Golfo del Messico, uomini che si accontentavano di un paio di calzoni e d’una camicia, e che curavano piú le loro armi che gli indumenti.

Portava una ricca casacca di seta nera, adorna di pizzi di eguale colore, coi risvolti di pelle egualmente nera; calzoni pure di seta nera, stretti da una larga fascia frangiata; alti stivali alla scudiera e sul capo un grande cappello di feltro, adorno d’una lunga piuma nera che gli scendeva fino alle spalle.

Anche l’aspetto di quell’uomo aveva, come il vestito, qualche cosa di funebre, con quel volto pallido, quasi marmoreo, che spiccava stranamente fra le nere trine del colletto e le larghe tese del cappello, adorno d’una barba corta, nera, tagliata alla nazzarena e un po' arricciata.

Aveva però i lineamenti bellissimi: un naso regolare, due labbra piccole e rosse come il corallo, una fronte ampia solcata da una leggera ruga che dava a quel volto un non so che di malinconico, due occhi poi neri come carbonchi, d’un taglio perfetto, dalle ciglia lunghe, vivide e animate da un lampo tale che in certi momenti doveva sgomentare anche i piú intrepidi filibustieri di tutto il golfo.

La sua statura alta, slanciata, il suo portamento elegante, le sue mani aristocratiche, lo faceva conoscere, anche a prima vista, per un uomo d’alta condizione sociale e soprattutto per un uomo abituato al comando.

I due uomini del canotto, vedendolo avvicinarsi, si erano guardati in viso con una certa inquietudine, mormorando:

— Il Corsaro Nero!

— Chi siete voi e da dove venite? — chiese il Corsaro, fermandosi dinanzi a loro e tenendo sempre la destra sul calcio della pistola.

— Noi siamo due filibustieri della Tortue, due Fratelli della Costa, — rispose Carmaux.

— E venite?

— Da Maracaybo.

— Siete fuggiti dalle mani degli spagnuoli?

— Sí, comandante.

— A qual legno appartenevate?

— A quello del Corsaro Rosso. —

Il Corsaro Nero udendo quelle parole trasalí, poi stette un istante silenzioso, guardando i due filibustieri con due occhi che pareva mandassero fiamme.

— Al legno di mio fratello, — disse poi, con un tremito nella voce.

Afferrò bruscamente Carmaux per un braccio e lo condusse verso poppa, traendolo quasi a forza.

Giunto sotto il ponte di comando, alzò il capo verso un uomo che stava ritto lassú, come se attendesse qualche ordine, e disse:

— Incrocierete sempre al largo, signor Morgan; gli uomini rimangano sotto le armi e gli artiglieri con le micce accese; mi avvertirete di tutto ciò che può succedere.

— Sí, comandante, — rispose l’altro. — Nessuna nave o scialuppa si avvicinerà, senza che ne siate avvertito.

Il Corsaro Nero scese nel quadro, tenendo sempre Carmaux per il braccio, entrò in una piccola cabina ammobiliata con molta eleganza ed illuminata da una lampada dorata, quantunque a bordo delle navi filibustiere fosse proibito, dopo le nove di sera, di tenere acceso qualsiasi lume, quindi indicando una sedia disse brevemente:

— Ora parlerai.

— Sono ai vostri ordini, comandante. —

Invece d’interrogarlo, il Corsaro si era messo a guardarlo fisso, tenendo le braccia incrociate sul petto. Era diventato piú pallido del solito, quasi livido, mentre il petto gli si sollevava sotto frequenti sospiri.

Due volte aveva aperto le labbra come per parlare, e poi le aveva richiuse come se avesse paura di fare una domanda, la cui risposta doveva forse essere terribile.

Finalmente, facendo uno sforzo, chiese con voce sorda:

— Me l’hanno ucciso, è vero?

— Chi?

— Mio fratello, colui che chiamavano il Corsaro Rosso.

— Sí, comandante, — rispose Carmaux, con un sospiro. — Lo hanno ucciso come vi hanno spento l’altro fratello, il Corsaro Verde. —

Un grido rauco che aveva qualche cosa di selvaggio, ma nello stesso tempo straziante, uscí dalle labbra del comandante.

Carmaux lo vide impallidire orribilmente e portarsi una mano sul cuore, e poi lasciarsi cadere su di una sedia, nascondendosi il viso colla larga tesa del cappello.

Il Corsaro rimase in quella posa alcuni minuti, durante i quali il marinaio del canotto lo udí singhiozzare, poi balzò in piedi come se si fosse vergognato di quell’atto di debolezza. La tremenda emozione che lo aveva preso era completamente scomparsa; il viso era tranquillo, la fronte serena, il colorito non piú marmoreo di prima, ma lo sguardo era animato da un lampo cosí tetro che metteva paura.

Fece due volte il giro della cabina come se avesse voluto tranquillarsi interamente prima di continuare il dialogo, poi tornò a sedersi, dicendo:

— Io temevo di giungere troppo tardi, ma mi resta la vendetta. L’hanno fucilato?

— Appiccato, signore.

— Sei certo di questo?

— L’ho veduto coi miei occhi pendere dalla forca eretta sulla Plaza de Granada.

— Quando l’hanno ucciso?

— Quest’oggi, dopo il mezzodí.

— È morto?...

— Da prode, signore. Il Corsaro Rosso non poteva morire diversamente, anzi...

— Continua.

— Quando il laccio stringeva, ebbe ancora la forza d’animo di sputare in faccia al governatore.

— A quel cane di Wan Guld?

— Sí, al duca fiammingo.

— Ancora lui! Sempre lui!... Ha giurato adunque un odio feroce contro di me? Un fratello ucciso a tradimento e due appiccati da lui!

— Erano i due piú audaci corsari del golfo, signore, è quindi naturale che li odiasse.

— Ma mi rimane la vendetta!... — gridò il filibustiere con voce terribile. — No, non morrò se prima non avrò sterminato quel Wan Guld e tutta la sua famiglia e dato alle fiamme la città ch’egli governa. Maracaybo, tu mi sei stata fatale; ma io pure sarò fatale a te!... Dovessi fare appello a tutti i filibustieri della Tortue ed a tutti i bucanieri di San Domingo e di Cuba, non lascerò pietra su pietra di te! Ora parla, amico: narrami ogni cosa. Come vi hanno presi?

— Non ci hanno presi colla forza delle armi bensí sorpresi a tradimento quando eravamo inermi, comandante.

Come voi sapevate, vostro fratello si era diretto su Maracaybo per vendicare la morte del Corsaro Verde, avendo giurato, al pari di voi, di appiccare il duca fiammingo. Eravamo in ottanta, tutti risoluti e decisi ad ogni evento, anche ad affrontare una squadra, ma avevamo fatto i conti senza il cattivo tempo. All’imboccatura del Golfo di Maracaybo, un uragano tremendo ci sorprende, ci caccia sui bassi fondi e le onde furiose frantumano la nostra nave. Ventisei soli, dopo infinite fatiche, riescono a raggiungere la costa: eravamo tutti in condizioni cosí deplorevoli da non opporre la minima resistenza e sprovvisti di qualsiasi arma. Vostro fratello ci incoraggia e ci guida lentamente attraverso le paludi, per tema che gli spagnuoli ci avessero scorti, e che avessero incominciato ad inseguirci. Credevamo di poter trovare un rifugio sicuro nelle folte foreste, quando cademmo in una imboscata. Trecento spagnuoli, guidati da Wan Guld in persona, ci piombano addosso, ci chiudono in un cerchio di ferro, uccidono quelli che oppongono resistenza e ci conducono prigionieri a Maracaybo.

— E mio fratello era del numero?

— Sí, comandante. Quantunque fosse armato d’un pugnale, si era difeso come un leone, preferendo morire sul campo piuttosto che sulla forca, ma il fiammingo l’aveva riconosciuto ed invece di farlo uccidere con un colpo di fucile o di spada, l’aveva fatto risparmiare. Trascinati a Maracaybo, dopo di essere stati maltrattati da tutti i soldati ed ingiuriati dalla popolazione, fummo condannati alla forca. Ieri mattina però, io ed il mio amico Wan Stiller, piú fortunati dei nostri compagni, siamo riusciti a fuggire strangolando la nostra sentinella. Dalla capanna di un indiano presso il quale ci siamo rifugiati, abbiamo assistito alla morte di vostro fratello e dei suoi coraggiosi filibustieri, poi alla sera aiutati da un negro ci siamo imbarcati su di un canotto, decisi di attraversare il golfo del Messico e giungere alla Tortue. Ecco tutto, comandante.

— E mio fratello è morto!... — disse il Corsaro con una calma terribile.

— L’ho veduto come vedo ora voi.

— E sarà ancora appeso alla forca infame?

— Vi rimarrà tre giorni.

— E poi verrà gettato in qualche fogna.

— Certo comandante. —

Il Corsaro si era bruscamente alzato e si era avvicinato al filibustiere.

— Hai paura tu?... — gli chiese con strano accento.

— Nemmeno di Belzebú, comandante.

— Dunque tu non temi la morte?

— No.

— Mi seguiresti?

— Dove?

— A Maracaybo.

— Quando?

— Questa notte.

— Si va ad assalire la città?

— No, non siamo in numero sufficiente ora, ma piú tardi Wan Guld riceverà mie nuove. Ci andremo noi due ed il tuo compagno.

— Soli? — chiese Carmaux, con stupore.

— Noi soli.

— Ma che volete fare?

— Prendere la salma di mio fratello.

— Badate comandante! Correte il pericolo di farvi prendere.

— Tu sai chi è il Corsaro Nero?

— Lampi e folgori! È il filibustiere piú audace della Tortue.

— Va’ adunque ad aspettarmi sul ponte e fa preparare una scialuppa.

— È inutile, capitano, abbiamo il nostro canotto, una vera barca da corsa.

— Va’!»